Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Il calcolo combinatorio” di Michele D’Ignazio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Calcolo, dal sostantivo greco ????????, dal latino

calculus, pietruzza, sasso.

Gli antichi, per fare i loro conti, adoperavano sassi in luogo di cifre aritmetiche.

1. Il parcometro

 

Per Mendoza si trattava del primo giorno di lavoro. Era un posto decisamente importante, doveva fare il contabile nel settore dirigenziale di una grande azienda del Paese. Era stato scelto per le sue doti, ma soprattutto per il suo amore nel fare calcoli. Il termine amore può suonare strano, ma non è un errore di digitazione. Mendoza amava fare calcoli, ne godeva e arrivava, generalmente, a delle conclusioni brillanti.

Uscendo di casa, si diresse verso la sua automobile. Via dopo via, arrivò a destinazione. Il palazzo dove avrebbe lavorato per chissà quanti anni, aveva sei piani, era moderno e stava vicino ad una delle piazze principali della città. Sotto il palazzo, c’era un parcheggio pubblico a pagamento. Gli avevano già detto, il giorno in cui era stato assunto, che non disponeva di un parcheggio personale, che l’azienda non forniva quel genere di servizio ai suoi lavoratori e che, con parole semplici, avrebbe dovuto arrangiarsi.

Nel parcheggio, erano rimasti 9 posti liberi. Mendoza incastrò la sua automobile in uno di quelli. Si avvicinò al parcometro e iniziò a parlarci, dato che quell’oggetto metallico aveva una forma tale da sembrare un viso con due enormi occhi.

“Allora, tu staresti qui per riscuotere i miei soldi. È il mio dovere da cittadino. Lo devo alla città”.

Mendoza rimase immobile ad osservarlo, poi tirò fuori un paio di monete e le inserì nel parcometro. Dopo pochi istanti, l’oggetto metallico sputò fuori la ricevuta di pagamento, che Mendoza portò alla macchina, posizionandola sul cruscotto.

Prima di incamminarsi verso il palazzo, diede un’ultima occhiata alla sua automobile, parcheggiata nella delimitazione della striscia blu, con precisione millimetrica.

Entrando nel palazzo, Mendoza ripensava al parcometro.

 

Alla fine di quel primo giorno di lavoro, Mendoza andò a parlare con il responsabile del suo settore.

“Ma lei è matto? È il suo primo giorno qui e chiede già dei giorni di ferie?”

“Sono sei. I giorni. Per la precisione.”

“Non le sembra azzardato chiedere un permesso proprio oggi?”

“Ho diritto a delle ferie. Sì o no?”

“Sì!”

“Allora che differenza fa se ne usufruisco domani o nel mese di Agosto?”

“E va bene.”

Il funzionario lo guardò di sbieco, con sospetto. Poi gli accordò sei giorni di ferie, a partire dal giorno successivo.

 

Mendoza, la mattina seguente, uscì di casa e si diresse verso l’automobile. Via dopo via, arrivò a destinazione: il palazzo dove lavorava, il parcheggio pubblico, il parcometro.

Parcheggiò l’automobile con simmetria invidiabile, prese un foglio ed una penna e iniziò a fare dei calcoli.

In quei sei giorni, rimase nel parcheggio, chiuso nella sua automobile, e verificò che i vigili urbani passavano, dal lunedì al venerdì, dalle ore 13 alle 14. Mai in altri orari. Solo il sabato passavano a controllare alle ore 17.

Mendoza sorrise. Tra le 13 e le 14: l’orario combaciava con quello della sua pausa pranzo.

A quell’ora, avrebbe preso la macchina e sarebbe andato a mangiare a casa.

Mendoza era anche consapevole del fatto che doveva lavorare un solo sabato al mese, così aveva deciso il suo responsabile. Allora calcolò che, su 22 giorni lavorativi in un mese, aveva una sola possibilità di prendere una multa.

Considerando che il costo della multa era di 28 euro ed il costo del parcheggio, al giorno, era di 2 euro, Mendoza arrivò alla conclusione che è più conveniente prendere una multa al mese piuttosto che inserire quotidianamente delle monete nel parcometro.

E c’era anche un risparmio di tempo.

 

Ogni volta che giochi una mano diversamente da come l’avresti giocata se avessi potuto vedere tutte le carte dei tuoi avversari, vincono loro; e ogni volta che giochi la tua mano nello stesso modo in cui avresti giocato se avessi potuto vedere tutte le loro carte, loro perdono.

Teorema fondamentale del Poker

 

2 . Il semaforo

 

Quella mattina l’avrebbe fatto per l’ultima volta, “il mio ultimo giorno di lavoro”, sussurrò nel freddo. Non dimostrava particolare emozione, lo sguardo per terra, da professionista, il naso in aria e l’andatura da papero, frutto di una lunga esperienza accumulata negli anni. C’era qualcosa che lo differenziava dalle altre persone: per lui, il verde del semaforo voleva dire stop ed il rosso vai.

E così, mentre le auto si incolonnavano davanti al semaforo, il vecchio Alfredo si preparava ad indossare la sua uniforme da lavoro. Si spogliava dei suoi vestiti e si infilava uno sporco impermeabile color nocciola. Con la barba bianca ed i capelli spettinati, si incuneava in mezzo alle due file di auto ferme, in quell’ingorgo di pneumatici e tubi di scappamento, porgeva entrambe le mani, polsi in su, per chiedere qualche spicciolo.

“Ma va a lavorare”, gli aveva detto qualcuno, tempo fa.

“Io sto lavorando”, aveva sussurrato Alfredo, in quell’occasione.

I conti se li era fatti bene: a fare l’impiegato alle poste, avrebbe guadagnato novecento euro al mese, meno le trattenute per la pensione, meno le tasse da dover pagare, senza considerare che il settore stava andando in crisi, con l’avvento di internet e dei cellulari. Ma più di tutto, a lui piaceva stare all’aperto, piuttosto che chiuso in un box, con un vetro spesso due centimetri che lo separava dal resto del mondo.

L’attività al semaforo gli rendeva più o meno la stessa cifra, ma lo impiegava solo per poche ore. Considerando che in tre ore il rosso scatta cento venti volte e calcolando che in media ogni rosso frutta trenta centesimi, la fatica di un giorno viene ripagata con trentasei euro. Al mese, eliminati i festivi, e per Alfredo anche il sabato doveva essere considerato festivo, veniva ottocento ventotto euro, netti.

“Stai perdendo tempo!”, gli avevano detto, un giorno di Novembre.

In realtà, erano loro, chiusi dentro l’auto, col metabolismo paralizzato e nessuno stimolo a parte la radio e la segnaletica stradale, ad avere la sensazione di perdere tempo. Bloccati da un semaforo, dare dei soldi ad un barbone alleviava questa loro sensazione, questo loro sentimento di trovarsi intasati nell’intestino della città e di non vedere vie d’uscita.

A dargli i soldi erano degli habitué. Oramai Alfredo li considerava dei veri e propri clienti. Ogni mattina, puntualmente, gli davano qualche spicciolo. Con il resto dei passeggeri, in reciproche solitudini, si ignorava. Loro fissavano il semaforo, come se potessero influenzarlo, lui spiava l’orizzonte delle auto in fila.

I conducenti degli autoveicoli sono degli esseri buffi, ciascuno prigioniero in un personale assemblaggio di lamiere a propulsione meccanica. Alcuni anni fa, in Francia, avevano fatto uno studio, prendendo in esame una colonna di quaranta vetture in coda ad un semaforo. Due file di auto occupavano in larghezza dieci metri di strada ed in lunghezza cento. Complessivamente, mille metri quadrati. Ipotizzando che in ogni auto ci sia solo il conducente, avevano calcolato lo spazio che sarebbe stato occupato dalle persone, eliminando le auto. Lo spazio si riduceva a trenta metri quadrati. Cioè, per dirlo con parole semplici, una fila di auto di cui non si vede la fine viene causata da un numero minimo di persone, quaranta, che potrebbero stare tranquillamente in una stanza di trenta metri quadrati. Anche se la testa di Alfredo era sempre rivolta verso il basso, teneva un occhio alla circolazione, a quella marea di veicoli, perché non voleva finire nelle statistiche delle morti bianche. Nonostante il suo aspetto da debosciato, con il busto curvo in avanti, Alfredo aveva imparato ad esser vigile, sapeva esattamente quando scattava il verde, anche se girato di spalle, come se fosse sincronizzato con il timer del semaforo. E non perdeva tempo a risalire sul marciapiede, quando le auto iniziavano a sgommare e a strombazzare.

Quella mattina se ne tornò a casa contento. Era il suo ultimo giorno e aveva racimolato quaranta euro. Sulla via del ritorno, passò di fronte ad uno dei monumenti più importanti della città: una piramide fatta di sassi di montagna, di natura lavica, che reggevano una scultura in bronzo raffigurante un leone.

La mattina successiva, Alfredo si svegliò presto ugualmente. Si avvicinò al figlio e lo guardò mentre faceva colazione. Era pronto. Aveva da poco compiuto diciotto anni, si era diplomato al liceo classico e non ne voleva sapere di fare l’università. Alfredo gli insegnò i trucchi del mestiere, dicendogli di mettersi un pesante maglione di lana sotto l’impermeabile sporco, color nocciola, avvertendolo che i primi giorni il freddo si sarebbe fatto sentire, ma poi ci avrebbe fatto l’abitudine e la pelle sarebbe diventata come una lamiera metallica. Aveva i capelli ricci, una barba appena accennata e gli stessi occhi del padre.

E mentre il figlio, nell’ingombro di pneumatici, lamiere, vetri e specchietti, assumeva un’andatura da papero, il padre si godeva, a casa, al caldo, il suo riposo.

 

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