Racconti nella Rete 2009 “Teta” di Alessandra Ponticelli Conti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Quella dei Caggiari era una famiglia contadina molto numerosa; da generazioni ogni figlio maschio che vi nasceva era destinato al lavoro nei campi.
Nanni aveva iniziato da bambino, quando suo padre, partendo da casa all’alba, lo portava con sé. La campagna era per lui qualcosa di magico, tanto da saperne cogliere e comprendere i rumori e gli odori con i quali aveva instaurato una sorta di legame affettivo che col tempo aveva acuito in lui quell’inclinazione all’isolamento che tutti in casa avevano notato e che suo padre, Antonio, non perdeva occasione per sottolineare, esclamando “Noi Caggiari , che siamo gente così aperta.
Teta era una donna alta e magra; i capelli, una volta scurissimi, si erano imbiancati e sul viso si poteva leggere a tratti la sua vita; le sue quattro gravidanze, la fatica del lavoro nei campi e soprattutto un grande dolore. Benché le fossero rimasti pochi denti in bocca, i suoi lineamenti duri e marcati si addolcivano le rare volte che sorrideva. Era andata in sposa ad Antonio molti anni prima; il loro era stato un amore a prima vista. Si erano incontrati a casa di Michele, durante una di quelle serate passate a veglia, nelle quali si cantavano gli stornelli, oppure si ascoltava leggere Michele, che era l’unico a non essere analfabeta.
Ci si riuniva a casa di Michele dopo una lunga giornata di lavoro, e questo succedeva di solito il sabato.
Antonio era nato lì, in quella cascina di pietra, e vi era rimasto anche dopo il matrimonio con Teta. La sua casa era simile a tutte le altre: a quella di Michele, a quella di Beppe, a tutte quelle disseminate nella collina. Si affacciava su una grande aia dove scorrazzavano i polli,le galline, i tacchini. In mezzo c’erano enormi covoni di fieno dove Nanni, da piccolo, si divertiva a giocare nella bella stagione; tutto intorno si aprivano larghi varchi che conducevano ai campi coltivati a orto, a cui si alternavano filari di oliveti e di vigneti. L’odore di letame risaliva dalle stalle e andava a unirsi d’estate al profumo dell’erba tagliata e dei fiori di campo.
Al di là delle zone lavorate si intravedevano in lontananza le pecore al pascolo e, ancora oltre, cominciava il bosco. Nanni era il più piccolo di quattro fratelli; sua sorella Tina, più grande di lui, era morta di difterite all’età di tre anni e lui l’aveva sempre vista in una di quelle poche fotografie sbiadite che sua madre teneva sopra il comò in camera da letto. Era cresciuto sentendo raccontare quella tragedia quasi ogni giorno, e ogni volta aveva provato la stessa emozione, un’emozione forte che lo rattristava e infastidiva allo stesso tempo. Era geloso di quella bambina che non aveva mai conosciuto e che se ne stava lì immobile sul cassettone di sua madre con l’espressione sorridente di chi, vedendoti, ti riconosce. Non sapeva perché, ma a momenti si sentiva in colpa, quasi come se avesse in qualche modo contribuito alla sua morte, e ciò gli procurava una sofferenza tremenda. Teta rammentava spesso quella notte d’inverno nella quale la piccolina era mancata. Tina si era sentita male un pomeriggio, in cucina, mentre giocava vicino al focolare. Subito Teta era corsa in casa dai campi, richiamata dalle urla di Rosina, la figlia maggiore. La bambina era molto calda, si lamentava e così la donna l’aveva presa in braccio e l’aveva portata nella camera dove dormivano anche gli altri due fratelli: Rosina e Gigi. L’aveva adagiata per terra su uno di quei grandi cuscini di piume che aveva cucito e che i ragazzi utilizzavano come letto, perché, diceva, di lì, non sarebbero caduti. Teta, gridando, aveva chiesto a Rosina di scendere in paese a chiamare il dottore. Rosina era una ragazzetta minuta, dal viso sempre pallido incorniciato da capelli scuri che evidenziavano la sua magrezza e i suoi occhi chiari. Quel pomeriggio se lo sarebbe ricordato per tutta la vita; la paura di non arrivare in tempo dal dottore, la corsa a perdifiato giù per la stretta strada sterrata che conduceva al paese, il dolore terribile degli zoccoletti di legno portati anche d’inverno. Ma ce l’aveva fatta: suonò il campanello del dottore, il quale, immediatamente, la fece salire in motocicletta, pronto a precipitarsi al podere di Antonio. Dopo aver visitato Tina con molta cura concluse che si trattava di una semplice tonsillite. Ebbe parole dure per Teta e la rimproverò perché non aveva coperto abbastanza la piccina:” In questi giorni fa molto freddo, avresti dovuto metterle addosso una maglia di lana più pesante!“, esclamò. La donna lo aveva ascoltato senza voltarsi e aveva aspettato qualche secondo prima di rispondere; poi con la semplicità e la fermezza di chi è abituato alla vita dura disse:“ Le ho messo la più pesante che avevo; dottore”. Teta si chiese se quell’uomo avrebbe mai potuto capire cos’è la miseria, che cosa significhi vivere in mezzo alle bestie e come le bestie, senza né luce né acqua in casa, senza scarpe e con gli zoccoli ai piedi anche d’inverno. Rivide tutta la sua vita e le sembrò di ritornare bambina. Da allora niente era cambiato, la speranza di una vita migliore si era ormai spenta. Nonostante le cure del dottore, Tina morì in nottata: solo dopo si capì che si era trattato di difterite.
Da quel giorno la donna si chiuse in un silenzio preoccupante, non mangiava quasi più e il pensiero di Tina non la lasciava mai. Era invecchiata, il suo sguardo divenne assente e niente sembrava più interessarla. Ciononostante continuava a lavorare nei campi, ad arare la terra, a mungere le vacche e le pecore, a fare il raccolto, a occuparsi dei figli.
Se ne andò molti anni dopo, all’alba di una mattina di marzo del ‘46, in silenzio, nel sonno. In una di quelle giornate primaverili, nelle quali,ogni anno, fin da piccola, aveva provato l’illusione di nascere di nuovo.
Nella vallata le stagioni continuarono ad alternarsi. Molte cose cambiarono ma non Nanni, il quale, rimasto quello di un tempo, non dimenticava mai di osservare, ogni sera, la foto di Tina, alla quale qualcuno aveva sistemato accanto quella di sua madre.
Alessandra Ponticelli Conti si è laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Firenze. Docente di lingua e letteratura francese negli istituti superiori, è ora traduttrice. Ha soggiornato a lungo in Francia, dove ha condotto ricerche presso la Biblioteca Nazionale e le altre principali biblioteche di Parigi. Per le Edizioni Città Nuova ha tradotto dal latino i testi pubblicati nel volume “Pellegrinaggi a Roma”, a cura di M. Miglio, Roma,1999. E in corso di stampa la sua traduzione dal francese del volume di Jean-Yves Fretigné,”Azione e pensiero.Una biografia ideologica di Giuseppe Mazzini”.Appassionata di scrittura, ha pubblicato il racconto “L’omino”su “La Nazione” del 3 agosto 2008 per il concorso “Il raccontino”.Amante della letteratura dell’assurdo adora Albert Camus del quale ha fatto sua la seguente affermazione: La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo” (da A.Camus, “L’artiste et son temps”,1953).