Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “Ma come fanno i pesci a parlare?” di Enrico Losso

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Il signore con la giacca blu del Tagesschau parlò con labbra sorridenti.

Poi sullo schermo del Telefunken 21 pollicisi susseguirono immagini di gente in festa. Un uomo coi baffi biondi che alzava le braccia in segno di vittoria. Una donna che veniva intervistata mentre era alla guida di un’automobile rossa inglobata nella folla: diceva che non ci poteva credere, che stava per svenire. Urla, colpi di piccone, uno slogan scandito dalla folla: freiheit, libertà.

A Liesbeth il telegiornale non interessava, non c’era paragone con i cartoni che davano alla stessa ora sull’altro canale.

Si stava chiedendo cosa avessero detto di così importante per rendere all’improvviso strana l’atmosfera nel soggiorno della sua casa, al primo piano del palazzo giallo in Richard-Wagner-Straße 27, nel quartiere di Charlottenburg, a Berlino Ovest.

Nove novembre millenovecentoottantanove.

Per Liesbeth significava il giorno del suo compleanno. Nove anni nuovi di zecca. Aveva chiesto al papà di giocare con la fattoria dei playmobil appena scartata. Lui aveva fatto un cenno con la mano, uno di quelli che significavano “non ora”, uno di quelli che non si potevano discutere.

Gli occhi della mamma riflettevano la luce del televisore, in un caleidoscopio fatto di iride e colori. Sembrava piangesse.

Avesse avuto un fratellino, come chiedeva da tempo, non ci sarebbero stati problemi.

E invece era lì a ripetersi che i grandi erano davvero noiosi. Era il suo compleanno, il giorno più importante dell’anno. Come si poteva non avere voglia di giocare con i playmobil?

Fece un ultimo tentativo per attirare l’attenzione, modulò un urletto stridulo. Non ottenne risposta, neanche un’alzata di voce che di solito scattava automatica.

Sentiva un groppo in gola. E voleva dire che la saliva non sarebbe riuscita a scendere e presto sarebbe uscita dagli occhi sotto forma di lacrime. Così le avevano spiegato.

Afferrò la scatola colorata e si diresse verso la porta di ingresso. Se fosse sparita, si sarebbero accorti della sua assenza, prima o poi. E allora ci sarebbero state grida e affanno e promesse, altro che quello stupido telegiornale.

Liesbeth indugiò qualche attimo sulla soglia, solo per lasciare loro un’ ultima possibilità. Forse, ma solo forse, se uno dei due l’avesse chiamata in quell’istante – e Polpetta, come erano soliti fare nei momenti in cui le volevano più bene: Lili non sarebbe bastato – avrebbe anche potuto concedere il suo perdono.

Nulla.

Solo la voce della folla attraverso la griglietta del televisore.

Liesbeth sdegnata decise di oltrepassare la soglia. “Faccio ancora due passi e poi mi chiamano” pensò mentre sgattaiolava furtiva lungo il corridoio del primo piano. Il labbro inferiore le tremava appena, una tristezza improvvisa l’aveva assalita. Pestò un piede a terra, per rabbia: nessuno l’aveva rincorsa.

“Il mio compleanno…” una grossa lacrima rotolò giù.

Strinse la scatola con i giocattoli che teneva in mano e pian piano si diresse lungo le scale, su verso il quarto piano, da quella smorfiosa di Heike Kühn, la grassona con le trecce rosse, che frignava appena la toccavi, ma almeno lei con i playmobil avrebbe giocato.

E se poi avesse insistito per tenersi qualche pezzo? Quella stupida ne era capacissima.

Liesbeth ci rimuginò un po’ su, l’idea non le andava per niente bene.

Una volta arrivata al quarto piano, percorse il corridoio fino in fondo, superò la porta dell’appartamento di Heike e si accucciò sul pavimento freddo, nell’angolino in fondo, dietro il grande ficus benjamin della Signora Beck.

Tutti erano chiusi in casa. Qualche voce, qualche cozzare di piatti, suoni di televisore attraverso i muri.

Svuotò la scatola a terra e si mise ad accarezzare la plastica lucida e colorata degli omini.

Fece galoppare un po’ il cavallo bianco, alzò al massimo la testa del maiale. Prestò la sua voce al pastore che faceva pascolare le pecore sulla terra umida del vaso. Continuò così per una decina di minuti.

Non c’era gusto a giocare da soli.

Il papà avrebbe inventato qualche storia nuova, divertente, di quelle che la elettrizzavano appena aveva finito di ascoltarle. E avrebbero fatto degli omini dagli occhi tondi i protagonisti.

Doveva fare un secondo tentativo con papà. Poteva concederglielo.

Alzò lo sguardo.

Ci mise un secondo per mettere a fuoco l’uomo mascherato che vide apparire in fondo al corridoio, dalle scale. Indossava una corazza nera, sembrava uno di quei robot che piacevano tanto a suo cugino Hans – i Transformers – se non fosse stato per i suoi occhi chiari, di un azzurro piscina, l’unica cosa che lo facevano assomigliare ad un uomo.

Aveva un fucile, strano e scuro come quelli spaziali.

Fece un cenno con la mano e spuntarono altre cinque persone. Tutte vestite come lui, tutte silenziosissime.

Liesbeth si rannicchiò ancora di più dietro alla pianta. Si sentiva gelare, come quella volta in cui era scivolata nelle acque del fiume in inverno e un signore l’aveva ripescata e la mamma le aveva tolto subito i vestiti zuppi e a lei battevano i denti.

Aveva paura che i robot si accorgessero di lei e la rapissero.

E a un tratto l’idea di stare lontano dai genitori, per davvero, le afferrò lo stomaco e la fece piangere. Cercò di farlo il più in silenzio possibile. Avrebbe voluto avere una bacchetta magica e sparire.

Due Transformers si erano posizionati ai lati della seconda porta, quella dell’appartamento del Signor Baumann, o almeno Liesbeth si ricordava che fosse scritto così sulla targhetta, ma non era poi tanto sicura. Gli altri tre con i fucili imbracciati erano poco più indietro. Uno di loro fece un cenno strano con l’indice.

Tutto accadde in pochi secondi: il colpo fortissimo contro la porta, i cinque che entrano, sincronizzati, in un lampo, l’urlo “Fermi tutti, Polizia!”.

Liesbeth non si accorse di avere la bocca spalancata.

Poi gli spari. Così forti da farla urlare. Uno, due, tanti, troppi.

Liesbeth si teneva le orecchie che sembrava dovessero esploderle. Qualche testa era spuntata dagli usci, ma, impaurita, era subito rientrata.

Dall’appartamento uscì un uomo, con la camicia aperta; sullo slancio urtò con la spallala parete. Allamano aveva una pistola. Si diresse verso le scale, imprecando. In un secondo uscì dalla stanza un Transformer con il fucile. Fece in tempo a dire solo “Ferm…”, poi altri spari.

Caddero insieme, si afflosciarono come sacchi vuoti.

Gli occhi grandi di Liesbeth non riuscivano a stare chiusi.

Dopo qualche istante di silenzio, apparve un altro poliziotto, si tolse il passamontagna. Si chinò sul compagno, urlando. Iniziò a chiamarlo per nome, Andy Andy, una cantilena.

Andy non rispondeva, Andy era immobile e le sue braccia andavano per conto loro. Andy aveva del sangue che gli colava dal collo.

Aveva smesso di piangere Liesbeth, ma tremava tutta, gli occhi se ne stavano spalancati, rapiti da quelle immagini paurose. Non si era accorta di avere il cavallo dei pantaloni della tuta bagnato.

Era tutto così troppo grande per lei.

Andy Andy.

Il Transformer con il capo scoperto era seduto sui talloni e cercava di rianimare quello che doveva essere un amico.

Arrivarono velocissimi anche gli altri. Capirono al volo, cercarono di calmarlo.

C’era uno che dava gli ordini, quello con gli occhi chiari. Disse: “chiamate un ambulanza”, disse: “non fate uscire nessuno”. Si muoveva con decisione, sicuro.

Quando il suo sguardo intercettò la bambina inginocchiata dietro la pianta e le sue guance lucide di lacrime aggrottò appena la fronte.

Posò il fucile, fece due passi verso di lei.

Rimasero pochi attimi l’uno al cospetto dell’altro, un uomo che vedeva un pulcino, una bambina che vedeva un gigante, poi il poliziotto in un unico gesto sfilò il passamontagna nero e la sollevò tra le braccia.

“Non puoi stare qui” le sussurrò all’orecchio. Ma lei non sentì, concentrata com’era a trattenete i singhiozzi.

Si ritrovò gli occhi azzurrissimi a trenta centimetri. C’erano piccole vene rosse nel bianco oltre l’iride. Il fiato sapeva di fumo, come a volte quello del papà.

Il papà.

Il pensiero le piombò addosso, le fece male. Doveva correre da lui. Si sarebbe tuffata fra le sue braccia, le più forti di tutte, le più accoglienti, le più calde.

Iniziò a dimenarsi con forza, sorprese l’uomo che la vide scivolare giù, sul pavimento.

Sembrò rimbalzarci, come una palla di gomma: si rimise subito in piedi e iniziò a correre via per arrivare alle scale.

Si tenne lungo la parete, le lacrime gli velavano la vista.

Superò Andy, superò l’altro corpo.

Nell’istante in cui si disse che aveva lasciato alle spalle le cose brutte, il piede d’appoggio scivolò sulla macchia di sangue.

Cadde lungo le scale. Un dolore alla gamba, fortissimo, le mozzò il respiro.

Si rimise in piedi, zoppicò stringendo i denti.

Mancava poco, una rampa di scale, e poi avrebbe visto la porta della sua casa.

Pensò: Dove sei papà? Mamma, vieni qui.

Si disse: Liesbeth sei forte.

Si aggrappò alla maniglia della porta che si aprì. Era rimasta aperta come l’aveva lasciata.

Vide le schiene dei suoi genitori, nella stanza in fondo al corridoio.

Davanti alla TV. Tutto come prima. Non si erano accorti di nulla. Ancora immagini di festa sullo schermo.

E dalla strada arrivavano attutiti rumori di botti e urla e colpi di clacson.

Si sentì di colpo stanca. Tutta la forza sembrava le fosse defluita via. Si lasciò scivolare a terra e chiuse gli occhi, stremata.

Li riaprì per pochi secondi: le pareva di essere in un acquario. Poteva vedere il viso della mamma sopra di lei e la sua bocca aperta, i baffi del papà, le macchie del sangue su cui era caduta, la crepa sul soffitto dell’entrata, il mappamondo sul mobiletto nell’angolo.

Ma nessun suono.

Pensò: devo dire che sto bene, che non mi sono fatta niente, che sono forte. Ma come fanno i pesci a parlare?

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