Racconti nella Rete 2009 “La Clara” di Olena Papalini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009
-Oh Madonnina, questa bimba ‘un mi mangia nulla!
Quante volte gliel’ho sentito dire alla mia buona Clara, con quei toni alti che le erano propri, da donna appassionata alla vita e alle piccole cose, e perchè era un po’ sorda.
Lei era molto tirchia (stricca, dicono a Massa), parsimoniosa all’inverosimile, attenta alla lira, a non sprecare niente; suo fratello Lisèo la chiamava “Svizzera”. Tra loro era un litigio perpetuo. Lei si lamentava: “ohihoi, Lisèo…ohiohina…”, si spazientiva: “ohimmena…” e lui che nel battibecco aveva sempre la peggio, mi strizzava l’occhio a cercare la mia complicità, come per dirmi: “lasciamola dire…”. Ma io, col cuore che mi si stringeva per lui, pensavo che lei aveva ragione ed era buona a prendersi cura di lui.
Il sabato la Clara giocava al lotto con la ferma intenzione di poter vincere, anche poco, era importante, e per questo teneva sempre a portata di mano il “libro dei sogni”, che a me sembrava una stravaganza assai curiosa. Lo trovavo ora su una sedia, o sul davanzale o appoggiato sul ripiano del mettitutto.
Ma non ho mai più incontrato una persona più generosa e di cuore della Clara.
Mi aveva accolta a casa sua per una retta modesta:16 mila lire al mese; mi aveva messa a dormire in camera con la su’ figliola, la Paola, e non mi ha mai fatto sentire meno importante.
Così io, che non avrei mai voluto dispiacerle -sembrandomi il mensile scarso-, quando a tavola mi scodellava la minestra, l’arrestavo già al primo mestolo, e così facevo con la pietanza, e magari non prendevo neanche la frutta e la vedevo sinceramente disperarsi: -oh bimbina, mangi come un uccellino! io so’ sgomenta! ma ‘un ti garba? ti fo un’altra cosa?- e io protestavo che sì che mi garbava, ma non mi ci andava più.
Avevo 12 anni, dovevo ancora crescere, spesso mi assaliva una fame prepotente. Allora, ingenuamente, andavo all’acquaio a riempire e bere un bicchiere d’acqua dopo l’altro, illudendomi di poter riempire e ingannare lo stomaco, ché non si facesse più sentire. I miei sogni notturni erano popolati di polli arrosto, e anche quelli diurni, con l’aggiunta di un contorno di patate, senza lesinare.
Passando davanti ad un forno l’odore del pane caldo mi sconvolgeva e le mie compagne entravano a comprare la schiacciata, mentre io mi proibivo questo piacere perché mi proponevo di riportare intatta alla mia mamma la cifra che mi dava per le piccole spese. Oggi guardo con tenerezza quella bambina sciocca che ero, ché tanto le mie buone intenzioni non le indovinava né la Clara né la mi’ mamma; e non si ravvisi una “voluptas dolendi”, perché il mio intento era di ottenere riconoscimento e approvazione. Questo è un motivo conduttore della mia vita: cercare di compiacere gli altri, che me l’ha resa faticosa e le ha tolto spontaneità, riuscendo a sortire, peraltro, l’effetto contrario a quello sperato.
La Clara invece mi accettava, per lei andavo bene com’ero, da lei non ho mai avuto critiche né un rimprovero, non mi faceva sentire sbagliata o cattiva o colpevole, anzi era orgogliosa di me e diceva a tutti che a scuola ero una “cima”. Andava a parlare coi professori e ritornava tutta contenta dei loro giudizi, come fossi stata figlia sua.
Frugo inutilmente nella mia memoria per trovare qualcun altro che mi abbia accettato come faceva lei, e trovo piuttosto che ho sempre dovuto rigare dritto, “dimostrare” (qualche volta anche di esistere) anche a chi mi ha voluto o mi vuole bene, ed è stato tutto un affanno sterile, senza i frutti agognati. Ma bando alle mestizie.
D’inverno mi venne un febbrone per le tonsille che si erano ricoperte di placche bianche. Cominciai a delirare, ricordo quello che dicevo e che intendevo dire, ma non controllavo le parole: le chiedevo di farmi la “gnagna”, che nelle mie intenzioni doveva essere una crema da mangiare, una cosa golosa, ma naturalmente lei non mi capiva e si spaventò tanto, così mi portò nel suo lettone, dov’era Rodi, suo marito, ma io continuavo il mio delirio: vedevo muoversi le grosse travi di legno spioventi del soffitto e allora mi proteggevo il viso con le braccia e gridavo: -cascano le montagne!- e insomma le feci passare una notte d’inferno.
A proposito di Rodi, era minatore a Niccioleta, perciò tornai a casa col mio bravo blocchetto di pirite dorata e sfaccettata e lucente.
La mattina la Clara ci veniva a svegliare, me e la su’ Paola, con una tazzina di caffè d’orzo bollente e zuccherato, ed era un piacere che oggi non scambierei con la raffinata colazione in camera del “Grand-Hotel”, o del “Regina Baglioni” di Via Veneto o dell'”Hotel de Russie” a Piazza del Popolo. Non li frequento, ma è così.
Con gli avanzi di quel caffè la Clara mi strofinava il grembiule nero, per ridargli colore e togliere il lucido.
A mangiare con noi veniva anche Mario Pasticca, che dormiva però in un’altra casa, sempre in “Borgo” e frequentava l’Istituto Minerario, così come Alberto del Lattaio che abitava invece nello stesso casamento, ad un piano più basso, dalla Iris. La Iris, quando mi vedeva passare, mentre salivo le scale, mi faceva entrare in casa sua, dove aveva incorniciato, bene in vista sulla parete, una grande fotografia di Giacomo Matteotti. Lei era una donnetta semplice, popolana, ma con ideali sicuri, fede politica incrollabile, e tanto brava. Salutavo Alberto che mi sorrideva e scherzava come fosse stato mio fratello maggiore, prendendomi un po’ in giro. Ad un piano ancora sopra abitava un anziano Signor Licurgo, e poi Amulio, e per trovare altri nomi singolari non c’era da fare molta strada: il mio, quello della mia amica Veronetta, una parente di Rodi si chiamava Ribella, un’amica della Clara si chiamava Solidea, un’altra Ghisolina; nella stessa via Norma Parenti, proprio accanto al portone della Clara, c’era la bottega di Pompe Funebri di Goldeno, più tardi imparentatosi con la Rosalia di Castell’Azzara, e di fronte “Vini e Oli” di Olindo. Mi viene in mente anche un negozio dove vendevano i conigli. La Clara ci andava tutti i sabato pomeriggio per cucinarlo la domenica. Li vendevano vivi e te li ammazzavano sotto gli occhi e poi gli sfilavano la pelliccia come fosse un cappotto, lasciandoli nudi e rosa, col ventre sproporzionato, gli stinchi secchi, gli occhi di fuori.
Io e Mario, Castell’Azzara la chiamavamo “Sassonia” e lui diceva che eravamo targati “Gente Rozza” (GR). -Venghi, rimanghi o ti trattenghi?- mi faceva spesso e volentieri, per ricordarmi la nostra lingua. E ridevamo delle storpiature di qualche vecchietto, rifacendogli il verso: “scusiate”, “oh, che godìo”, “egna ch’andìa”, “…troverete una salita molto, ma molto rapida“, “…è passata ora ora ‘na desvaghe cenderina = Volkswagen grigia”.
Poi, siccome la Clara non sapeva dire di no, a mangiare a pranzo ci venne anche un altro ragazzetto che faceva le medie come me e mi pare che fosse di Prata e si chiamava Africo (pronuncia massetana: A’ffrio) e, casualmente, era nero di pelle come un tizzone (spento).
Venne il giorno della partenza per le vacanze di Natale. La corriera fino a Follonica partiva dalla splendida Piazza del Duomo, di fianco al Palazzo Pretorio: di fronte la Cattedrale maestosa. Poi avrei preso il treno fino a Grosseto e da lì il postale per Castell’Azzara, o forse Gervasio, non ricordo. Ricordo invece che la Clara mi accompagnò alla corriera e che da lì sopra la vidi piangere. Nonchè commuovermi, quel pianto si scontrò con un senso di incredulità che prevalse in me su ogni altro: non mi capacitavo che potesse piangere per me, che sentisse il distacco, la mia mancanza di soli pochi giorni, lei che aveva già una figlia che era la luce dei suoi occhi e che la rendeva tanto fiera per quanto era bella.
Peccato che non mi può più sentire, o forse… chissà.