Racconti nella Rete 2009 “L’ Uomo Che Parlava Alle Stelle” (omaggio alle stelle nell’anno internazionale dell’astronomia) di Franco Cacciatore
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Era una serata, anzi una nottata straordinaria, dove tutto il mondo che ti circondava, appariva statico, immobile. Gli alberi non stormivano più; l’acqua del torrente non emetteva più la sua garrula voce, scorreva lenta e pigra.
Solo in cielo risplendevano tante, tantissime stelle. Era una volta celeste trapuntata da cento, mille fiammelle. La loro luce non fissa, ma tremula, giungeva ad intermittenza.
Seduto su un ripiano, immobile anch’egli, qualcuno mirava quel cielo, in estasi.
Poi all’improvviso le sue labbra s’incominciavano a muovere lentamente, in sintonia con la tremolante luce, come in un colloquio fra sordomuti.
Pareva impossibile, quasi inverosimile, che quell’uomo potesse svolgere un dialogo così strano. Eppure quell’intesa esisteva.
Era costui un tale Niccolò, il cui nome gli era stato dato dal padre in omaggio a Copernico, di cui era fervente sostenitore, in contrasto con alcuni, nonostante fossero passati i secoli, ai quali la teoria copernicana appariva ancora un’eresia, quanto quella di Galilei.
Lui al figlio, anziché leggergli libri di favole, gli declamava il “De revolutionibus orbium coelestium”, il testo di Copernico, nel quale l’astronomo polacco, pone al centro del sistema il sole e non il nostro pianeta, come nella concezione tolemaica.
Così era cresciuto Niccolò e così gli era stata inculcata la passione per l’universo infinito, le galassie, i sistemi planetari e le stelle.
E spesso, condotto per mano dal padre, era portato fuori città per osservare la bellezza di un cielo stellato.
Oggi in lui, adulto, era nato, anzi esploso, quest’amore verso le stelle.
E notte dopo notte riusciva a trovarne delle nuove, intessendo con loro quell’impossibile, incredibile dialogo.
In paese quel suo strano comportamento era ben noto. Per tutti, anche con una certa ironia, era l’uomo che parlava alle stelle.
Niccolò non ne faceva mistero ed a tutti raccontava quegli strani messaggi stellari. Alienazione mentale, tagliava corto la gente, aggiungendo: “Le stelle da che mondo è mondo non hanno mai parlato”.
Ma l’inverosimile accadeva. Egli colloquiava con le stelle, attraverso un singolare sistema, molto simile a quello dell’alfabeto morse.
Niccolò l’aveva imparato durante il servizio militare. E lui, un po’ sognatore, n’era rimasto affascinato. D’altronde, non poteva essere altrimenti e per la sua giovane età e per gli insegnamenti paterni.
Quello strano modo di comunicare faceva cavalcare la sua fantasia e quei segnali gli apparivano come provenienti o diretti a galassie sconosciute.
Ora, per lui, quell’immaginario diveniva realtà.Il luccichio breve delle stelle era un punto, quello più lungo una linea.
A sua volta Niccolò, dopo aver scelto la stella per lui più bella, forse perché più luminosa, avviava il colloquio.
Dopo aver ringraziato la stella per la rispondenza alla sua attenzione, si infervorava e le sue labbra a volte sembravano quelle di un corista di un canto a bocca chiusa, altre sillabavano le parole.
E dopo una serie di preamboli dichiarava il suo amore alla stella. Un amore alla follia, che Niccolò esternava, mostrando una profonda conoscenza letteraria.
Recitava versi e brani di autori classici. In latino, da Ovidio ad Orazio; in greco: Saffo, Anacreonte, Euripide; in inglese, di Byron e Shakespeare, da lui preferiti.
O suoi versi improvvisati: “L’amore cos’é?/Un’alba senta tramonto./L’amore cos’è?/Una notte senza buio./L’amore cos’è?/Un orizzonte senza fine./L’amore per te: /una vita senza tramonto, / una vita senza buio, /una felicità senza fine!”
Un vero banco di prova per dire a se stesso di essere, come un tempo, il primo della classe.
Dopo una lunga, faticosa recita, madido di sudore, rimaneva immobile, con gli occhi fissi verso la stella, che a volte rispondeva con immediatezza, altre dopo una lunga attesa.
L’astro iniziava lentamente la sua trasmissione.
Una luce lunga, poi una breve. Era una linea ed un punto. Una “n”. Proseguiva con due brevi, una “i”. E poi lunga, breve, lunga e breve. Era la “c”.Identici segnali per un’altra “c”. E così via, via la stella trasmetteva il nome di Niccolò.
Per lui era un’immensa gioia. Qualcuno, anzi una stella, l’aveva chiamato per nome. E il messaggio proseguiva, mentre la gioia di Niccolò saliva davvero alle stelle.
Ecco una lunga luce.Una “t”. Due brevi, “i”. Tre brevi e una lunga, “v”. Tre lunghe, la“o”; due brevi e una lunga, “g”, una corta, due lunghe e due brevi, “l”. A seguire un’altra “i”, tre lunghe, “o”. Poi una lunga luce e tre brevi,la“b”; una breve,“e”.Ed infine una lunga e una breve, “n” ed ancora “e”.
La stella non solo aveva“pronunciato”il suo nome ma aveva aggiunto qualcosa di non ascoltato da tempo: “ti voglio bene”.
La trasmissione poteva fermarsi qui o proseguire con un’infinità di frasi d’amore.
Poi d’un tratto il luccichio della stella s’interrompeva. Era il segnale della fine del messaggio. Niccolò, al colmo della felicità, lasciava la sua postazione e andava via.
Il giorno dopo altra stella ed altro struggente colloquio con frasi d’amore, le più dolci, le più calde. Un amore platonico, ma intenso e vero, che appagava e tanto il nostro Niccolò.
A volte dai suoi occhi sgorgavano grosse lacrime ed il suo cuore era gonfio di gioia.
Per lui che viveva ai margini della società, quasi da reietto, o peggio un’esistenza ai limiti del reale, quel colloquio diveniva una vera ragione di vita.
Il giorno di burrasca, quando le stelle sparivano dal cielo, egli gironzolava smarrito, senza una meta, infinitamente triste.
A vederlo così la gente gli gridava dietro: “Niccolò, stasera le tue stelle sono fuggite. Vero?”.Ma egli rimaneva indifferente,non ascoltava e tirava dritto.
II suo sonno da barbone, quella notte, sarebbe stato quanto mai agitato.La speranza era che all’indomani le stelle potessero riapparire.
Niccolò viveva così fra terra e cielo e forse più in cielo che in terra.
Ma da quando questo accadeva? Ricordarlo era difficile, quasi impossibile.
La sua mente svagata non lo ricordava più, tanto da sembrare che quello fosse stato da sempre il suo mondo.
In lui erano stati cancellati i giorni di una gioventù passata, di una vita normale, l’abitare in una casa, il dormire in un letto.
Tutto appariva a Niccolò come un sogno, un sogno sognato, di cui rimanevano labili ricordi.
Ad un tratto il sogno, anzi la realtà di un tempo, appariva nitida, poi tutto svaniva. Egli aveva avuto una famiglia, una casa, un lavoro.
Accreditato professore universitario, ma soprattutto ricercatore e studioso, che giorno dopo giorno per le sue sensazionali scoperte, particolarmente nel campo letterario, riscuoteva ammirazione e plauso. L’unica a non partecipare, quasi che ne fosse avulsa, a questa sua realtà era la famiglia. Eppure moglie e figli erano di eguale cultura.
Niccolò aveva provato in tutti i modi a coinvolgerli, ma in loro un’abulica risposta o peggio una noncuranza. Quasi che ne fossero del tutto estranei.
Più che i comuni consensi a lui necessitava la partecipazione, il calore, l’interesse della sua famiglia. Purtroppo questo veniva sempre più a mancare. Così il suo vivere era divenuto come avvolto da una presenza assenza. C’era e non c’era. Quasi costretto a vivere in un limbo, non da lui costruito.Intorno a lui una strana solitudine, un sentirsi avulso dalla realtà che lo circondava. Una sensazione sempre più pesante,ossessionante.
Ed un giorno aveva deciso di tagliare la corda. Di spezzare quel cordone ombelicale che lo teneva legato ad un mondo per lui inesistente.
Così era divenuto un cittadino senza patria. Il suo,un girovagare di città in città. II vivere da accattone. Eppure in quella povertà sentirsi felice.
Ogni volta intorno a lui in una stazione, sotto un ponte trovava una famiglia nuova, che l’accoglieva con affetto.
In quella miseria era riuscito anche a ritrovare l’amore. Un sentimento profondo per una donna dalle sembianze di una signora d’altri tempi.
Anche lei era fuggita da un mondo che l’aveva dimenticata. E lei aveva dimenticato anche il suo nome o forse l’aveva voluto cancellare.
Niccolò la chiamava la “mia Gelsomina”, sentendosi lui, un quasi Zampanò. Insieme avevano iniziato un viaggio senza meta. Più il tempo passava, più il loro vincolo si rinsaldava.
Estati dal caldo asfissiante, inverni dal freddo intenso. Ma il loro dormire sotto le stelle acquistava sempre più un fascino particolare.
Entrambi si sentivano essenziali, l’uno importante per l’altro. Oramai, nel mondo di quei diseredati, Niccolò e la sua Gelsomina, erano divenuti un’istituzione.
Sembravano fatti davvero l’uno per l’altro. Ma un giorno, un terribile giorno di un inverno durissimo, Niccolò al mattino, nel risvegliarsi, sentì al suo fianco Gelsomina immobile.
Le sue labbra accennavano un sorriso bellissimo. Non aveva resistito al gelo della notte e così era andata via, con un sorriso che diceva della felicità di quella nuova vita.
Per Niccolò sembrò la fine. Di nuovo smarrito,solo,iniziò un altro suo viaggio verso l’ignoto.
Alla fine in tanta solitudine, in tanto sconforto,ricordò quella mano paterna che lo conduceva là, lontano, per vivere quel mondo fantastico di un cielo stellato.
Così Niccolò aveva iniziato quella strana frequentazione, trovando nelle stelle quell’afflato che gli mancava.
Ma una notte senza stelle, con una tramontana che sibilava forte e gelida, egli non si addormentò come sempre avvolto nei suoi cartoni.
Era riuscito a trovare un grosso scatolone, nel quale si era introdotto, per ripararsi dal freddo e dal vento.
Al mattino i vari barboni che affollavano l’esterno della stazione erano spariti e così i loro cartoni, che nella notte avevano fatto da coperte.
Rimaneva solo l’immenso scatolone. Passarono i netturbini e credendo che fosse uno dei soliti contenitori abbandonati, lo sollevarono per buttarlo nella spazzatura.
Non tanto il peso, per essere Niccolò ridotto quasi ossa e pelle, quanto un certo non gradevole odore spinse un netturbino ad aprire lo scatolone. All’interno, Niccolò semiassiderato che non dava segni di vita.
Solo a tarda sera, egli riaprì gli occhi. Forse un calore, oramai dimenticato, lo portò a risvegliarsi da quel sonno che sembrava infinito.
All’improvviso, dopo un tempo trascorso senza tempo, si ritrovò, pulito come non mai, in un letto vero, mentre una mano di donna gli rimboccava le coperte.
Un gesto antico e dimenticato, che ora tornava alla mente prepotentemente. Un gesto che lo riportava alla sua fanciullezza, quando la mano materna gli rimboccava amorevolmente le coperte. Poi la visione passò e Niccolò ricordò l’ultimo colloquio con la sua stella. Grazie mia stella, diceva, o meglio farfugliava, e nel mentre, stringeva la mano di donna che gli era accanto.
Ma la stella riuscì a comprendere quel suo dire ed ora, non più con l’alfabeto morse, ma con la sua voce, sommessamente gli sussurrò: “Sì, la tua buona stella questa volta ti ha aiutato e per davvero”.
Niccolò ritrovò quel calore umano perduto, la nebbia della solitudine si dissolse, ma non smise il suo colloquio con la volta celeste.
Non se la sentì di tradire quelle sue care amiche e continuò ad essere, ed ancora per tutti, l’uomo che parlava alle stelle.
Poetico e delicato il tuo racconto. Il mio “strike”ha in comune col tuo il nome di un personaggio”Gelsomina”ma sono di genere molto diverso. Se ti va di leggerlo aspetto un tuo commento.Ciao.Annamaria