Premio Racconti nella Rete 2012 “Pensione Parioli” di Elio Capriati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Mio padre non sapeva nuotare pur avendo svolto, malgré lui, il servizio militare in Marina. Era, invero, addetto ai servizi a terra, tuttavia il suo reclutamento rimase uno dei tanti misteri italiani. Forse fu per questo che, pur abitando in una città costiera, fin da piccolo cominciai a frequentare l’alta montagna. Il mese di luglio, terminata la scuola, era dedicato al mare: si facevano i bagni a Marechiaro, al mitico Lido delle Rose, stabilimento con le palafitte poggiate sulla roccia tufacea di Posillipo. Si arrivava a piedi da Via dell’Ascensione fino alla Colonna spezzata a Piazza Vittoria con borsoni strapieni di teli, maschere e gonfiabili. Qui ci attendeva il vaporetto azzurro e bianco, odoroso di vernice da poco passata sul fasciame di legno dell’’imbarcazione. Il tratto di mare non era tanto lungo, ma la ridotta velocità, dovuta al pieno carico, e gli spruzzi d’acqua salata sulle braccia assegnavano alla traversata, soprattutto a noi bambini, la sensazione di un’inebriante escursione d’alto mare.
Trascorso il periodo dei bagni giungeva agosto, il mese della villeggiatura in un borgo dell’Appennino abruzzese con alloggio presso un alberghetto dal seducente nome: Pensione Parioli . Il momento della partenza era lungamente sognato con gioiosa attesa mischiata a un inquieto timore. La preparazione del bagaglio era seguita con sbalordimento perché vedevo mia madre che metteva in valigia indumenti invernali come golf e pantaloni pesanti come se andassimo a sciare. “Mamma, ma non sentirò troppo caldo?”. “No, Elio, in montagna capitano le quattro stagioni in una sola giornata…”. Ed io mi ritrovavo a riflettere sui cambiamenti repentini del tempo, dal sole alla grandine in pochi minuti e, infine, immaginavo l’irruzione di un diluvio universale come nell’apocalisse biblica.
Nell’estate del 1953, precisamente l’anno del trasloco nell’abitazione di Via dell’Ascensione, salimmo per la prima volta in uno di quei paesini, Rivisondoli. Qui era vivo il ricordo della guerra e dei suoi episodi più dolorosi: tanto erano evidenti i segni del cruento passaggio dei soldati nazisti. La famosa linea difensiva Gustaav passava proprio lì vicino, tra Roccaraso e Pescocostanzo e ancora si vedevano qua e là i resti di qualche casolare distrutto a cannonate.
Il viaggio, perché di viaggio si trattava, cominciava alla vecchia Stazione Centrale di Napoli, dall’aspetto architettonico di fine ‘800, abbattuta negli anni ’60 per far posto ad una sgraziata costruzione dalle grigie e inanimate pensiline in cemento armato. Partivamo a primissima mattina da casa con il taxi, di quelli verdi anteguerra, che, superata la Piazza Municipio cinta dai lecci, rotolava veloce e assordante per il Rettifilo per non farci perdere la corriera azzurra che ogni settimana portava i suoi passeggeri sul versante adriatico, a Pescara. La prima volta avevo cinque anni, era l’età pervasa dallo stupore di uno sguardo vergine che si apre sul mondo. Ma anche dal timore di trovarsi solo senza il rifugio della mamma o del papà. “Elio, come ti senti? Ti fa male il pancino?”. Mi era già capitato in altre occasioni di aver provato un incontenibile mal d’auto con effetti facilmente intuibili. Mio fratello Giorgio e mia sorella Annamaria mi guardavano con la commiserazione di chi è più grande.
Non rispondevo perché già avvertivo le avvisaglie della nausea. Una volta sistemati sulle scomode poltroncine del pullman, pagati i biglietti, un prolungato suono del clacson segnalava la partenza. Il ruggito del motore sventagliava decibel a raffica dando impulso alle pesanti ruote del mezzo che, come un animale asmatico, iniziava la sua corsa tra i carretti e i furgoni giunti in città dalla vicina provincia.
Il continuo dondolio delle ruote mi faceva assopire. Nel dormiveglia sentivo le grida del bigliettaio: “Melito!”, “Stazione di Aversa. Chi scende ad Aversa?” . Dopo Capua la corriera lasciava l’Appia e s’indirizzava verso il Molise, fermandosi nelle piazze di paesi dal nome antico. Si alternavano facce di contadini cotti dal sole e miti impiegati o insegnanti accompagnati dalle famiglie. Vestiti modesti o modestissimi, qualcuno con l’abito della domenica e la cravatta spiegazzata o signore con ampie gonne dal fiorame stampato e olezzanti di asfissianti profumi di misterioso miscuglio. Dopo Roccaravindola il pullman s’inerpicava sulle prime pendenze della strada e qui avevano inizio i miei guai.
Un crescente senso di nausea si propagava in tutto l’addome accompagnato da conati così forti che alla fine rimettevo anche l’anima. Il pullman regolarmente si fermava tra le proteste dei passeggeri più impazienti. “Elio, non potevi resistere ancora un po’? ancora un’oretta e saremmo arrivati a Rivisondoli”. Non era vero. Mancava un’ora e mezzo abbondante alla meta. Comunque ripreso il viaggio, svuotato ma rinfrancato, appoggiavo il faccino al vetro del finestrino per ammirare il panorama.
Dopo San Vincenzo al Volturno la cigolante corriera affrontava una serie di curve fino a costeggiare un ponte semidistrutto immagine residua delle devastazioni belliche. Un ulteriore balzo ci portava al bivio di Montenero Val Cocchiara, il paese del rodeo Pentro, e, valicato il ridente passo di San Francesco, contornato di verdi radure e ombrosi aceri, si scendeva verso l’antico centro di Alfedena, annunciato da un indimenticabile cartellone: “Alfedena, il paese dei dottori” perché all’epoca aveva un’alta percentuale di laureati in rapporto al numero di abitanti. Ma, quella parola a me bambino rammentava ben altro. Il terzo anno che passai di lì, dopo esser riuscito a leggere la scritta per intero, giurai che in un paese simile non mi sarei mai fermato: solo al pensiero di tanti “dottori” in camice bianco armati di siringhe e pompette in attesa dei forestieri, mi sentivo in stato d’agitazione.
Le alte gobbe della serra di Chiarano e la cima del Monte Greco annunciavano che la meta era vicina. Infatti, dopo aver superato l’operosa Castel di Sangro, un rumoroso cambio di marcia c’informava che il pullman stava attaccando la durissima salita verso Roccaraso. La ripida pendenza e gli stretti tornanti della strada tenevano i passeggeri col fiato sospeso. Alcuni pregavano che il motore non si bloccasse proprio lì, all’ultimo balzo. Con un estremo ruggito la corriera, tra fumi e strepiti, riusciva ad arrestarsi ansimante sulla piazza di Roccaraso, dove scendevano rinfrancati i primi gruppi di villeggianti. Io, a dire il vero, li guardavo con un po’ d’invidia smontare dalla scaletta dell’autobus volendo stare al loro posto.
L’ultimo kilometro e mezzo mi piaceva perché si percorreva un verde altopiano, chiamato Quarto Grande, animato da mucche al pascolo e cavalli allo stato brado. Mio padre, di solito molto serio, accorgendosi del mio volto tirato dal lungo viaggio, come per farmi ridere, m’indicava con la mano: “Guarda Elio, quanti mucchi brucano l’erba!”. “Ma babbo [papà ai tempi miei era un termine poco usato], non si chiamano mucche?” E lui: “Sono i loro maschi…”. E mia mamma diceva “Tuo padre scherza…sono mucche e buoi”. Al termine di questa surreale conversazione la corriera, dopo aver lanciato tre colpi prolungati di clacson, si fermava rombante davanti alla fontana principale di Rivisondoli tra le grida di giubilo di noi ragazzi perché cominciava finalmente l’agognata vacanza. Dieci minuti dopo facevamo ingresso nella piccola Pensione Parioli. Si ritrovavano le amicizie strette l’anno prima. Qualcuno mancava all’appello, tuttavia c’erano sempre nuovi pensionanti da coinvolgere in quel piccolo mondo festosamente riunito per un mese d’estate.
Ricostituita la chiassosa comitiva di noi ragazzi, maschietti e femminuccie, si organizzava subito il primo pomeriggio di svago. Escursione sul Monte Gatto, invitante collinetta dalla panoramica vetta circondata dai pini montani piantati dalla forestale subito dopo la guerra. Era la nostra meta preferita per giocare alla guerra tra cow boy e indiani pellerossa. Talvolta capitava di nasconderci sotto una sporgenza rocciosa e di scappare impauriti dal sibilante fruscio di una serpe nascosta nel fondo della sua tana.
Quando il sole era diritto sulla mia testa, nell’ora del meriggio, quella in cui per Zarathustra si realizza la completa solitudine dell’uomo, mi capitava di rimanere solo, attardato sugli altri che scendevano al piano, mi assaliva una strana paura, di essere rapito in cielo da esseri divini e lasciare la terra per sempre. La natura, fino a quel momento accogliente spazio dei nostri giochi, cambiava volto. Mi sembrava di essere respinto, cacciato come Adamo ed Eva dal loro Eden. Nel film Picnic ad Hanging Rock, Miranda, una delle ragazze scomparse nel nulla, dice. “ C’è un tempo e un luogo perché qualsiasi cosa abbia principio e fine…”. Forse era così anche sul Monte Gatto. Oggi un enorme residence copre le rocce e i sentieri contorti della collina. La magica aria di quel colle è svanita per sempre, come una nuvola svaporata nel cielo senza tracce .
La molesta sensazione metteva le ali ai miei piedi tanto da raggiungere i più grandicelli e batterli in velocità. “Elio, non correre troppo che ti fai male”, diceva qualcuno, forse mio fratello. Giunto in pensione salutavo i miei sprizzando sudore da tutti i pori e lampante felicità per il ritorno alla base.
Ogni agosto si ripeteva il rito della gita. Una volta salimmo sul Gran Sasso con la funivia, un’altra volta andammo alla Camosciara con picnic vicino alla scrosciante cascata. Scontata l’escursione annuale sulla Maiella: almeno una volta al laghetto di Fonte Romana incorniciato da solenni e ombrosi faggi, i secolari guardiani dell’Abruzzo montano. Non mancò la visita di Scanno, da poco assurta a celebrità dopo gli artistici servizi fotografici di Cartier-Bresson.
Tra passeggiate in bicicletta e finte guerre combattute nei boschi di Rivisondoli, passava il mese d’agosto in montagna. Uno degli svaghi preferiti era correre giù di mattina al ruscello nel vallone e catturare le bianche farfalle svolazzanti sull’acqua.
Una variante più crudele era la cattura di un grosso grillo per staccare una ad una le zampette del malcapitato. Non mi divertiva assistere all’agonia del povero insetto, ma era da femminucce tirarsi indietro. Non mi divertivo e, quando accedeva, preferivo salire in camera a leggere un giornaletto. Una volta piansi per la rabbia di non poter oppormi ai miei compagni. Forse ero un inconsapevole animalista d’antan.
La sera si assisteva, davanti all’albergo, alla lenta sfilata delle mucche e dei buoi che, come soldati in libera uscita rientranti in caserma, tornavano nelle stalle dopo aver pascolato per l’intera giornata Ancora sento nelle narici quell’odore intenso di sterco muschiato abbandonato a larghe chiazze marroni sul terreno, sopra le quali si addensava il brulichio ronzante delle mosche e dei tafani. Ai muggiti e ai campanacci di quei placidi animali, diversamente modulati, si accompagnava il lento din-don delle campane al tramonto ricordandoci che si avvicinava l’ora della cena.
L’unico episodio veramente drammatico di quelle estati montane capitò che avevo nove anni. Salimmo dopo pranzo sul monte Calvario, sulle cui pendici si
adagia Rivisondoli. Mentre salivamo lungo la cresta il sole scomparve dietro una cortina di nuvole grigiastre. Avevamo appena raggiunto la croce posta sulla cima che il cielo si rabbuiò rapidamente di nubi nere e cariche d’elettricità, come il plumbeo fondale di un famoso quadro del Giorgione. Si scatenò d’improvviso una tempesta di pioggia, vento e grandine. Ben presto fummo inzuppati d’acqua e le scarpe affondavano nel fango. C’era chi si dissociava: ”Lo dicevo che non dovevamo venire qua sopra. Ora i nostri genitori ci puniranno per tutto il mese…”. Il più anziano era Piero, un ragazzo di Ferrara, che prese a scendere correndo incitandoci a seguirlo. Un fulmine scoppiò vicinissimo con indicibile fragore suscitando un violento spavento. Ci precipitammo verso il basso schizzando fanghiglia e pietrine ad ogni passo. Io corsi a rompicollo senza neanche seguire il sentiero dell’andata. E il collo per poco non me lo ruppi davvero: nel saltare alla disperata un fosso troppo largo per le mie gambe, caddi rovinosamente sul bordo strisciando col ginocchio, scoperto, quasi fino all’osso. All’epoca portavo, di solito, i calzoni corti con i calzettoni e, sciaguratamente, proprio quel giorno non indossai il mio unico pantalone lungo. Avvertii un dolore lancinante che ancora oggi rammento. La ferita fu tanto profonda che la cicatrice non è mai scomparsa del tutto. Nel frattempo i genitori di molti di noi stavano risalendo la montagna preoccupatissimi della nostra situazione. Per fortuna eravamo pressoché arrivati in paese e presto ci ricongiungemmo ai nostri familiari. Aggiungo solo che, dopo i rituali “cazziatoni”, rimanemmo “consegnati” in albergo per due giorni.
Considerate le circostanze, mi dedicai all’osservazione del tempo libero dei miei genitori. Mia madre era immersa, durante il pomeriggio, in lunghissime partite a canasta con le solite signore. Mio padre era, invece, impegnato nel tressette, gioco che mi colpì per la rapidità dell’esecuzione: dopo poche mani tutti gettavano le carte sul tavolo e la partita era già terminata. Mi chiedevo allora: “Ma perché giocare se già si sa come va a finire?”. Una radio, in noce lucidato e gremita di stazioni dal nome strano, diffondeva a basso volume le canzonette dell’ultimo festival di San Remo. “Nel blu dipinto di blu” fu il tormentone canoro del 1958 e contagiò tutti gli italiani, in vacanza e non, con la speranza che il Bel Paese cominciasse finalmente a volare sulle ali dell’incipiente boom economico.
Così passarono le mie stagioni estive a Rivisondoli presso la Pensione Parioli. L’ultima stagione fu proprio quella del 1958. Ad agosto dell’ anno successivo andammo in Puglia, nella casa di famiglia. Dal 1960 cominciarono le villeggiature in un paese poco lontano, a Roccaraso, ma è tutta un’altra storia.