Premio Racconti nella Rete 2012 “Venere” di Andrea Polini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012
Livorno, gennaio 2012
racconto ispirato da una storia vera
“Vado a fare la spesa…non ne posso più…” sospirò Daniela sbattendo la porta d’ingresso dell’appartamento. Giulia, sua madre, costretta a letto dall’Alzheimer e dall’età avanzata, piangeva in silenzio. Nonostante tutto, a volte si rendeva conto che, accudirla, per Daniela era spesso un peso.
Nel trafficatissimo viale Carducci, le vetrine illuminate dei negozi, ancora decorate con gli ornamenti natalizi, a Daniela sembravano icone di una festa ormai tramontata, sfiorita come sentiva sfiorire la sua vita. Non pioveva da qualche ora, ma la serata si manteneva uggiosa, e vi vedeva riflesso il suo umore. Mentre camminava sul marciapiede, osservando le vetrine dava un’occhiata ai prezzi degli articoli venduti a prezzi scontati. Si diceva che ogni anno che passava i saldi iniziavano sempre più presto. Certo un effetto della crisi economica, che mordeva feroce. Per lei, tuttavia, il problema dei soldi era uno tra i tanti, e forse non il più assillante. Abbandonata giovanissima dal marito, con un figlio di un anno da tirare su, se l’era cavata piuttosto bene, anche perché un lavoro sicuro l’aveva. Poi, ad un certo punto, la sua vita si era fatta davvero difficile. Luca, suo figlio, aveva lasciato gli studi prima del diploma, ora era senza lavoro e cocainomane, un’esistenza sbandata e randagia, la sua. Si faceva vivo ogni tanto, solo per chiedere soldi. Da quando, un paio d’anni prima, sua madre si era ammalata di Alzheimer, appena finito il turno di lavoro alle Poste tornava a casa ad assisterla, ed in casa passava quasi tutta la giornata. Poteva permettersi l’aiuto di una badante per qualche ora quando era al lavoro, giusto per cambiarle il pannolone, medicarle le piaghe da decubito e fare qualche faccenda domestica, ma niente di più. A questo pensava mentre guardava le vetrine, durante quella mezz’ora che quotidianamente riusciva a ritagliarsi per sé. E come sempre più spesso le capitava quando lasciava la mente libera di vagare, pensava che se sua madre non ci fosse, lei avrebbe ancora la possibilità di rifarsi una vita. O almeno di provarci. Aveva quarantacinque anni, era ancora una donna piacente. Sua madre ne aveva quasi ottanta, e col terribile male che l’aveva colpita le si prospettavano solo giorni di sofferenza. Queste riflessioni spicce, alla fine, avevano il potere di farla sentire cinica, cattiva, ingrata, avvelenandole anche quei miseri minuti di relativo svago. Aveva appena attraversato via del Vigna, e stava per entrare nel grande magazzino Stefan, come sempre piuttosto affollato, quando qualcosa di decisamente insolito attirò la sua attenzione. Sopra ad un carretto a rotelle, sostenuta da alcune cinghie colorate fissate ad una struttura di metallo, c’era una cagnetta meticcia, paralizzata nelle zampe posteriori, che osservava con sguardo dolce e malinconico la piccola folla che si era radunata attorno a lei e alla sua padrona. Anche Daniela si fermò ad osservare il povero animale, e istintivamente provò pietà per quel cane costretto all’immobilità. Non ne aveva mai posseduto uno, ma aveva sempre associato al cane l’idea di una giocosa energia, ed ora la cagnetta sembrava proprio smentire questa sorta di suo archetipo. Tuttavia, osservando la cagnetta, che nel frattempo una bambina aveva chiamato Venere, le sembrò di cogliere nel suo sguardo, oltre alla dolcezza e alla malinconia, una luce di felicità. Anzi, a guardare meglio, le sembrava che anche la gente attorno alla cagnetta avesse una luce particolare negli occhi, qualcosa che non era commozione, ma una sorta di leggerezza. Notò che nella parte anteriore del carretto, proprio sotto il muso della cagnetta, vi era una tavoletta di legno con la scritta “ci sono anche io”, mentre nella parte posteriore, su una tavoletta simile, vi era la scritta “voglio vivere”. Un signore piuttosto anziano, che faceva parte del gruppetto di persone che si trovava intorno alla cagnetta, disse che se una disgrazia del genere capitasse al suo cane, preferirebbe che morisse. Daniela, in cuor suo, non era affatto d’accordo con quella affermazione. La proprietaria, intanto, raccontava ad altre persone la storia della cagnetta. Era stata davvero sfortunata la povera Venere. Ritrovata in fin di vita in un bosco a Molfetta, dopo essere stata maltrattata e investita con un’automobile, era stata assistita da un’associazione animalista, ed era rimasta per un anno in un canile. Da due anni era stata adottata dalla signora, ed era amata da chiunque la conoscesse. La signora raccontò anche che il particolare carretto a rotelle su cui si muoveva Venere era stato costruito da un suo amico paralizzato, che l’aveva fatto con amore apposta per la cagnetta. Daniela si trattenne ancora un poco, poi salutò la signora e fece una carezza sulla testa a Venere, che ricambiò il gesto d’affetto con uno sguardo che lasciava intuire un’anima delicata. Entrò nel supermercato, e come era sua abitudine camminava lentamente, osservando con curiosità la merce esposta sugli scaffali. Nel reparto casalinghi e profumeria, nella zona più interna del supermercato, prese un bagnoschiuma per sé e del borotalco per sua madre, infine si riavviò verso le casse. Mentre camminava, continuava a osservare la merce esposta sugli scaffali, ma per quanto le sue azioni fossero le stesse di ogni volta che veniva a fare la spesa nel supermercato, proprio non riusciva a distogliere la mente dall’incontro con la cagnetta Venere. Soprattutto, rimuginava sulle parole dell’anziano signore, che aveva detto “se una disgrazia del genere capitasse al mio cane, preferirei che morisse”. Mezz’ora prima, quando non aveva ancora visto la cagnetta, avrebbe condiviso questa affermazione, ma ora la turbava. Le sembrava che la presenza della cagnetta fosse in qualche modo necessaria, proprio come era scritto sul carrettino che le permetteva di spostarsi: “ci sono anche io” e “voglio vivere”. Daniela non sapeva dirsi perché l’incontro con la piccola Venere, pur commovente, le avesse toccato l’animo così profondamente, ma non poteva far altro che prendere atto di questi pensieri. Arrivata alla cassa si mise in coda dietro a quattro o cinque persone. Quando fu il suo turno, tirò fuori la tessera clienti e la carta di credito, e le dette alla cassiera.
“Come sta la mamma?” domandò la cassiera mentre passava il lettore di codice a barre sulle confezioni.
“Al solito…Povera mamma, da quelle malattie non si guarisce…”
“Ho avuto una nonna malata di Alzheimer. Non riconosceva più neanche le persone di famiglia.”
“Purtroppo è la vita…Non si dovrebbe invecchiare…”
La cassiera sorrise. “Ciao,” disse, mentre già si occupava di un altro cliente.
“Ciao.”
Daniela uscì dal supermercato. Si incamminò sul marciapiede del vasto e trafficatissimo viale Carducci, verso piazza Dante, la piazza antistante la stazione ferroviaria. Ci mise una decina di minuti ad arrivare sotto casa, la mente piacevolmente distratta dalle luci invitanti delle vetrine, un oblio da dove, di tanto in tanto, emergeva il musetto dolce ed espressivo di Venere. Salì le scale dell’antico palazzo fino al primo piano, dove abitava. Entrata in casa, percorse il lungo ingresso fino alla camera di sua madre. Giulia era a letto supina, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata circa quaranta minuti prima. La sentì entrare nella stanza, e subito rivolse lo sguardo verso di lei. I suoi occhi erano celesti, limpidi, meravigliati come quelli di un bambino che si affaccia nel mondo. Daniela si avvicinò al letto, poi, istintivamente, le fece una carezza sulla testa. Giulia sorrise, disse qualche parola senza una logica apparente, poi prese a piegare il lenzuolo, come avesse dovuto riporlo in un cassetto. Daniela aveva gli occhi lucidi di commozione, ora capiva perché l’incontro con la cagnetta Venere l’aveva tanto colpita. Nello sguardo di sua madre e in quello della cagnetta c’era la tragedia e la tenerezza della vita, quegli sguardi raccontavano di un tempo passato, ma bastava poco, una carezza, per accenderli, come se tutto ciò che era stato potesse ricominciare. C’era la poesia dell’essere, nei loro sguardi. Daniela ora riconosceva l’amore che nasce dalla sofferenza. L’amore che nasce da una semplice presenza, da una vita che si può credere indesiderabile. Anche le preoccupazioni per suo figlio, si diceva, erano una presenza, e una speranza. Erano amore. Si accorse che ormai stava piangendo. Non voleva farsi vedere piangere da sua madre, temeva che ne potesse soffrire, che pensasse che si era stancata di lei. Perché non era vero, perché ora aveva bisogno di sua madre, della sua presenza, più del tempo ormai lontano di quando era bambina.
Molto bello e commovente. brava.
In poche righe hai reso molto bene l’angoscia del conflitto in cui si dibattono le tante persone che vivono situazioni simili. Brava anche da parte mia.