Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “True Lies – Sbatti il Mostro in prima pagina” di Nikki Simonetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

TRUE LIES

Sbatti il mostro in prima pagina

Sottotitolo: Le maldicenze sono dure a morire – Racconto di Nikki Simonetti

 

Dal salumiere, in un paesino della Toscana.

La Marisa, proprietaria della bottega, alla signora Giustina, moglie del comandante dei carabinieri,  dopo avere fatto il resto a una bella figliola mora: “Che l’avete vista, la Lucy?…  Certo che ll’è proprio bellina”.

La Giustina, accomodando la borsetta a tracolla sulle spalle: “Ovvia, e che ci troverete tutti in quella lì, lo sapete solo voi”.

La Signora Mirella, moglie del Sindaco, in coda dietro alla Giustina: “C’hai ragione, Giusti’ – anche a me ‘un mi pare proprio nulla di che”.

“Via giù…” – la Marisa, con le mani nella cassa. “Te, Giustì, tu ce l’ha con lei perché ll’ha rubato il fidanzato alla tu’ figliola. Per bellina, però, bisogna dillo, la Lucy l’è proprio bellina… e anche raffinata, un lo si pòle negare”.

“Ah, io ‘un dico nulla – la Giustina, col naso per aria. “Però la mi’ mamma la lo diceva sempre che se il Signore gli fosse garbato le donne col culo ‘osì ritto, c’avrebbe fatto a forma di scaffale”.

“La tu’ mamma, pace all’anima sua – la Mirella, con un risolino che le taglia la faccia, da un orecchio all’altro – “l’era meglio se la un la parlava, di culi, vai… ché il suo la faceva tutta – provincia, e anche regione!”.

“Sì, però, dico… voi vu’ lo sapete che ‘un sono una mamma che s’impiccia per nulla dei fatti dei figlioli, io. Anzi, sono una che la lascia di molto fare”.

“Sì, sì – la Mirella, asserendo in maniera convinta. “Ll’è proprio vero: te tu sei una mamma molto, ma di molto lasciva”.

”E che si fa così?… “ – la Giustina, allargando le braccia. “Quello va’ a studia’ al Fantasmus, e torna co’ la moglie americana?… ‘Un si fa mìa così, giù… – dimenando le anche, in tono stizzito.

La Marisa, abbassandosi, con fare cospiratorio. “Ma l’avete sentita?… Prima la parlava al telefono co’ uno – Mario, mi pare”.

“Ah-nno: io ‘unn’ho sentito proprio nulla. Mi faccio di molto i fatti mia, io” – la Giustina, avvicinandosi al bancone. “Però, l’altro giorno, la Michela, la moglie del casaro…c’avete presente?…”.

“Bòna, quella…” (la Mirella, alzando gli occhi al cielo).

“Vabbe’; la Michela, comunque, la m’ha detto che la l’ha vista usci’ dal motel alle cinque del pomeriggio”.

“Acchìe?… ” – (la Mirella, con aria stranita).

“Ooohh, ma allora te tu sei proprio di coccio… alla Lucy – a chi sennò?… La usciva dal motel, tutta guitta guitta“.

“Eh, scusa, sono un po’ dura di comprensorio, io” – (la Mirella, con aria ancora più stranita).

“in qualunque modo, la l’ha vista proprio bene: la portava un brusotto rosso”.

“Blu…” – la Marisa, roteando gli occhi all’indietro.

“Blu-icché?…”

Blu-sotto”.

“No-no, macché. ‘Unn’è mìa diastonica, la Michela: la li vede di molto bene, i colori. Unn’èra blu né sopra né sotto, il brusotto della Lucy: ll’era proprio rosso. E sotto, la l’aveva un vestitino bianco”.

“Comunque. chi la fa, l’aspetti – e chi ‘un la fa, la si purghi…” (la Marisa, scuotendo la testa e ridacchiando).

“Ma allora, mi volete di’ che c’ha uno?…”.

“Ah, io ‘un lo so, io…”.

“Ché te tu ti fa’ di molto i fatti tua, lo sappiamo…” (la Marisa alla Giustina).

“Peccato, comunque: così piena di raffineria, la la pareva tanto una brava ragazzina” (la Mirella, le labbra strette e l’espressione contrita).

“Intanto, la Michela l’ha visto che dopo di lei, dal motel l’è sgattaiolato fòri il marito della Federica”.

“Oddio” – la Mirella, giungendo le mani, poi contando sulle dita. “Rimango stereofatta: Andrea, Mario… e dopo?”.

“Non fatemi uscire dai gamberi…” – la Giustina, aggrottando le sopracciglia. “Quando la passa, la lascia uno sciame di profumo, quella. Quelle col culo così ritto…”.

“Lo sappiamo, Giusti’” – la Marisa, gettando la testa all’indietro e giungendo la mani a coppa. “Che vòi, la vita ll’è piena di sorprese, ll’è… come disse il riccio quando ll’è scese dalla spazzola”.

 

Una settimana più tardi, al telefono.

La signora Marisa alla signora Giustina: “Ocche’ tu l’ha visto il filmato?…”.

“E che, no?… Il mi’ marito l’ha fatto passa’ al telegiornale una spitigliaia di volte. E poi me l’ha fatto rivede’ anche in privato”.

“Come sta il gioielliere?…”.

“Oicchettuvvòi: potrebbe sta’ assai meglio. ‘Un c’è male, però”.

“Ma a te ‘un t’assomiglia a nessuno, quello del filmato?…”.

“Ba’, ti dirò: ‘unn’è che si veda un granché. Pare un’omo, vestito da donna”.

“A me mi parrebbe più una donna che fa’ finta d’esse’ un’omo travestito da donna”.

“Ah, io ‘un lo so: io…”.

“Te tu ti fai di molto i fatti tua, lo sanno tutti. Però, a me m’è sembrato che il foulard che il rapinatore aveva in testa, ce n’aveva uno uguale la Lucy, ieri. E anche la camicia…”.

“La camicia che?…Un mi tene’ sulla forca, Mari'”.

“Una camicia così, coi volant, l’ho vista indosso alla Lucy”.

“Oddio, i volovant: t’ha ragione, t’ha. Me lo ricordo anch’io. E ora?…”.

“E ora nulla – ‘un si piange mìa, sul latte macchiato. Dillo al tu’ marito, lui saprà icchè fare”.

 

La signora Giustina telefona alla signora Mirella.

“Oh Mirella: da ‘un credere. La Marisa l’ha appena riconosciuto la Lucy nel rapinatore della gioielleria”.

“Oh ‘un ci posso crede”.

“Credici, invece: la me l’ha detto or ora”.

“Un si pòle pote’: dico, ‘un gli bastava un ganzo o due. Ma chi gliel’ha fatto fa’, a quella figliola, di fa’ la rapinatora?”.

“Ecchenneso, io?… Magari è una delinquenta di suo. Del resto, chennesai che faceva, quella, in America?”.

“Eggià, t’ha ragione, t’ha… mogli e buoi, l’è meglio se son de’ paesi tuoi”.

“A me ‘un mi garba punto di fa’ le discriminature razziali, però le tue le son parole sante”.

“Comunque, aspettiamo a dare alito ai pettegolezzi: meglio aspetta’ che il mi’ marito la interroghi. Se cospargi la voce…  magari la riconosce qualchedun’altro”.

“Ah, ma ‘un posso mica fa’ tutto io!… Che, ‘un lo sai che ‘un ce l’ho il dono dell’obiquilità’?…”.

Va bene: chi fa da sé, fa più fatica. Vòle di’ che faremo di necessità tupertù: un po’ di telefonate per uno”.

“E sai che: siccome l’unione fa la forza ma chi fa da sé fa per tre, allora riuniamoci in tre per volta: chiamo la Michela”.

“Bene. Chi s’inferma è perduto”.

 

Una settimana dopo, la Marisa, al telefono.

“Oh Giustina, che tu l’ha sentita la notizia?”.

“No, io ‘un so nulla…”.

“Perché tu ti fa’ sempre i fatti tua, lo so. Comunque, la Lucy la s’è buttata giù dal cavalca ferrovia. ‘Un si sa mica se ce la fa”.

“Opperché la si sarebbe buttata?…”.

“Pare che l’abbia perso il lavoro e che il marito l’abbia lasciata, dopo che l’è stata indagata per la rapina e che l’è saltata fòri la storia del motel”.

“Ah, bene”.

“Opperdio: bene perché, poverina… ‘Unn’hanno mìa trovato le prove che sia stata davvero lei”.

“Che vòi, Marisa… cielo a pecorelle, belato si sente”.

“Che vòle dì?…”.

“Che se la poverina l’era innocente, ‘un la si sarebbe buttata, ‘un la… E poi, ricordatelo: una col culo ‘osì ritto…”.

“Sì, vabbe’. Ma i tonti ‘un cornano, Giustina. Speriamo che la Lucy se la cava”.

 

Alcuni giorni più tardi, la Marisa, al telefono.

“Mirella, che tu ha saputo?…”.

“No… ‘icché?…”.

“L’hanno trovato il DNA del rapinatore. ‘Unn’era mìa della Lucy”.

“Tu dici ‘ose che ‘un stanno né in piedi, né in terra. Ma ‘un tu ll’eri te, che l’avevi riconosciuta nel video?…”.

“Ah, io no, davvero. Sai com’è: ho avuto un lampo di luce, ho ricordato che quel foulard ce l’aveva la Lucy al collo. Ma ‘unn’ero mìa così sicura che fosse lei. Il mio l’era solo un sospetto, una sensazione: ecco, che ll’era”.

“Vabbè, sbagliando t’impari. E la storia del motel, allora?..”.

“Pare che ‘unn’era mìa tanto vera neanche quella… Andrea l’ha lasciata la moglie, ma s’è messo con la Benedetta che ll’è già incinta, pensa!…”.

“Ma la Michela ‘un l’aveva vista proprio bene, la Lucy, brusotto e tutto?…”.

“Pare che la Michela ‘un la ci veda mìa proprio così bene… Viene fòri che l’ha visto una bella figliola che gli somigliava solo. Infatti, la Benedetta l’è alta e mora come la Lucy”.

“E la camicia con i vulevan?…”.

“Ce l’ho anch’io, una camicia con i vulevan“.

“E le impronte digitate?…”

“Ovvia, Mirellina… e unn’è che basta una rapina in città e te tu mi diventi Scherlocche…”.

“Ma a Si-Sssi-Ai dicono che le impronte, a esse’ screpolosi, le si trovan sempre”.

“Te, Mirella, tu mi guardi troppa tele” – emettendo un sospiro e uno sbuffo teatrale. “Lascia fare CSI… si vede che il nostro rapinatore ‘gliera più screpoloso ancora che i poliziotti, ché ‘un ce n’era, d’impronte. Ma al DNA, ‘un si scappa.”

“Vabbè, sarà…stendiamo un velo peloso. Va a fini’ che la Lucy ggli’era innocente, ggli’era”.

“Ah, questo io ‘un lo posso di’… In fondo, uno innocente, ‘unn’è che si butta dal ponte”.

 

La Signora Mirella, dopo avere digitato il numero della Signora Giustina alla velocità della luce.

“Giustina, ho appena attaccato con la Marisa”.

“L’hanno trovato, ho sentito. Me l’ha detto or ora il mi’ marito”.

“A me mi sono uscite le orbite fuori dagli occhi: l’hanno analizzato il DindDonDan. Il rapinatore è un’omo: va’ a finisce che la Lucy gll’iè innocente”.

“Macchè innocente”.

“Oh Giustina, ‘icchettuddici:  ‘un ti foschilizzare”.

’Ah, io ‘un mi foschilizzo punto. ‘Un tu llo capisci?… E’ che quell’acquacheta c’ha preso per il culo a tutti. Ecco perché ‘unn’hanno avuto figlioli, col su’ marito: c’aveva le palle, sotto quelle chiappe tanto ritte, quella“.

 

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17 commenti »

  1. Assolutamente ESILARANTE!! Bravissima!

  2. Troppo divertente!!!! la storia c’è, le battute sono esilaranti, il toscano rende il tutto ancora più accattivante (ok, sono di parte). Mi piace!

  3. veramente divertente, complimenti mi sembra di sentire delle persone che conosco…. comunque sei stata molto brava

  4. Ho riso tutto il tempo. Bello!

  5. Amata, Silvia, Luigi, Veronica. molte grazie per i complimenti. Sono felice che vi sia piaciuto. Se vi ho strappato almeno un sorriso, be’, allora ho raggiunto l’intento che, questa volta, almeno, mi ero prefissa – pur senza dimenticare che con leggerezza si possono trattare anche temi di una certa profondità. Un saluto a tutti, Nikki

  6. Che bel racconto! Ironico, tagliente e spietato. La lingua usata poi! Mi ha evocato Paesaggio con figure di Ugo Chiti per cui ho una predilezione assoluta. Molto brava

  7. Mariella, per dirla come la ‘Signora Mariella’, uno dei personaggi del racconto, ‘PER-DRIN-DRIN-DRINA, divento rossa come la PUERPERA!…’

    Il paragone con Chiti mi lusinga oltre ogni dire, e mi sprona a fare sempre meglio (dovrà passarne, di acqua sotto i ponti, prima di avvicinarmi al ‘mitico’ Ugo!!!).

    Ti ringrazio molto per l’attenzione, e mi fa piacere che l’utilizzo della lingua ti sia risultato gradito (peraltro,evocandoti esattamente quello che intendevo trasmettere, e cioè che l’aura di simpatica ironia che circonda certi personaggi di paese, veri e taglienti, non deve – non dovrebbe – sminuire la crudezza delle loro azioni e delle loro parole).

    Un abbraccio,
    Nikki

  8. Mi sono divertita molto con queste “allegre comari” che ci presenti, assolutamente schiette, pettegolone quanto basta, ma simpatiche nel loro “slang”.
    Insomma sono il ritratto di tante realtà di paesi e anche di numerosi insospettabili agglomerati urbani.
    Superfluo ripeterlo, tu sei bravissima!! Sai manipolare con arte i linguaggi dei vari protagonisti e li rendi sempre autentici. Complimenti!
    Ps. personalmente ti preferisco “a tinte forti”
    Good luck!!!
    Rita G.

  9. Rita,
    mi fa piacere ritrovarti qui.

    Sono affezionata a questo racconto quanto agli altri ‘a tinte più forti’.
    Come vedi, ambientazione diversa, diverse finalità, costruzione diversa, diversa fraseologia, diverso lo stile.
    ‘Slang’ a parte, niente affatto volgare – almeno spero. 🙂

    Un caro saluto,
    Nikki

  10. Troppo divertenti gli strafalcioni, e le pettegole mi ricordano chi dice “Ah, a me non importa…” e giù con commenti di chi, invece, ha parecchio interesse 🙂 Bravissima Nikki: hai infilato parecchi spilli nel puntaspilli 🙂

  11. Gianluca,
    mi sono divertita nel rileggerlo, ma soprattutto nello scriverlo.
    Mi fa piacere che tu non lo trovi troppo ‘provinciale’ – sai, un certo timore l’avevo.
    Inoltre, come si suol dire, è pur sempre vero che con leggerezza si possono trattare anche temi di una certa importanza. 🙂

    A presto,
    e grazie per l’attenzione,
    Nikki

  12. Credo che costruire un racconto sui dialoghi (a maggior ragione dialoghi in forma dialettale) sia molto difficile. Cosa ancora più difficile è far dialogare tra loro tre o più persone allo stesso tempo. Il racconto (che forse avresti potuto renderlo “per Corti”) mi è risultato pesante, e non credo a causa delle mie limitate conoscenze del dialetto toscano. Ho trovato eccessivi gli “strafalcioni” delle comari (anche nel numero). Non mi è piaciuto questo realismo reso impacciato.

  13. Andrea,
    per una volta avevo il desiderio di scrivere qualcosa di ‘leggero’, sia pure non nel tema ma piuttosto nella forma.
    Prendo nota delle tue affermazioni e ti ringrazio comunque per il tempo che hai trascorso a leggermi, perfettamente consapevole del fatto che non sia proprio obiettivamente possibile piacere a tutti.

    Ho immaginato questo pezzo come una sorta di breve pièce teatrale, in una forma tutta tipica delle mie parti a metà tra la ‘commedia dell’eccesso’ e quella dell’assurdo, esprimendomi in un tipo di comicità forse sin troppo provinciale, devo ammettere, per il gran pubblico.
    Fatto sta che mi sono tanto divertita, nello scrivere questo pezzo, poi nel rileggerlo, che ho pensato fosse comunque degno di pubblicazione.

    L’ho immaginato come una sorta di breve pièce teatrale, in una forma tutta tipica delle mie parti a metà tra la ‘commedia dell’eccesso’ e quella dell’assurdo, esprimendomi tuttavia in un tipo di comicità forse sin troppo provinciale, devo ammetterlo, per il grande pubblico.

    Una cosa ci tengo a dire – tu, che mi sembra di capire, toscano non sei, credi a una Toscana d.o.c.: seppure nell’ambito della commedia, come detto, tra l’eccesso e l’assurdo, i personaggi e i dialoghi – strafalcioni compresi – non sono affatto eccessivi – anzi, estremamente realistici, per qualcuno che sia di queste parti.
    Chiedere a qualunque toscano per credere.

    A presto,
    Nikki
    PS: il toscano non è un ‘dialetto’, ma una parlata comprensibile ai più da cui origina l’Italiano moderno (ci si scorda spesso che qualcuno si recò, nel lontano passato, a ‘sciacquare i panni in Arno’…). 😉

  14. Non ho messo in discussione l’uso della “parlata comprensibile ai più”, ma il modo in cui l’hai usata.

  15. Andrea, e me non sembra di averti mai detto che dubitavo tu l’avessi capita, anzi. Mi pare di aver fatto autocritica dicendo che forse sono stata provinciale. Credevo fosse soddisfacente come risposta – evidentemente sbagliavo. Ciao nikki

  16. Mi sono spostato qua, così termino il discorso sullo stile, che avevamo iniziato su “The Sleepwalker” e intanto commento pure quest’altro tuo racconto.
    A volte il tuo stile narrativo può risultare molto crudo e diretto, ma è giusto così.
    Se i personaggi sono marci dentro e volgari fuori, come nel caso della “sonnambula”, ti sporchi giustamente le mani e li rendi per come sono.
    La mia opinione è che non si possa far parlare, ma nemmeno far pensare, tutti i personaggi allo stesso modo, elegante ed edulcorato, come se fossero tutti dei baronetti inglesi.
    E’ pur vero e comprensibile che un certo tipo di linguaggio possa non piacere a tutti, questo è legittimo.
    Ma è altrettanto legittimo che uno scrittore faccia le proprie scelte e che non si debba sentire vincolato a esprimersi nella narrativa nello stesso modo in cui parla nella sua vita quotidiana.
    Per tornare all’esempio citato nell’altro tuo brano, a nessun attore verrebbe mai richiesto, per far esprimere i suoi personaggi, di dotarli del suo stesso linguaggio, del suo stile e delle sue caratteristiche personali. E se mai lo facesse, sarebbe un pessimo attore.
    Lo stile narrativo, anche secondo me, è solo un mezzo e l’eventuale volgarità che appartiene ad alcuni personaggi deve lasciare segno di sè anche nella narrazione.
    Peraltro, avendo letto molto di te, posso garantire che ci sono altri tuoi lavori in cui hai raccontato personaggi eleganti di animo e per nulla volgari, utilizzando dialoghi ed espressioni linguistiche adeguate a quel tipo di personaggi.
    Venendo adesso a questo racconto, qui descrivi dei personaggi di provincia pettegoli, anche un po’ perfidi, ma molto diversi da quelli di “The sleepwalker”.
    Il loro modo di pensare e giudicare è approssimativo, un po’ gretto e non puoi fare altro che dipingerli per come sono. E lo fai bene.
    Queste non sono donne marce e nemmeno volgari, sono soltanto delle pettegole, ma anche un pochino stronze.
    Però ho notato che, in fondo, le hai trattate meglio rispetto alla Melissa.
    Pur dipingendole come grottesche, sembra quasi che tu nutra verso di loro una sorta di benevola comprensione, quasi affettuosa.
    Quegli strafalcioni lessicali, che strappano più di un sorriso durante la lettura, danno loro un tocco di involontaria e inconsapevole simpatia.
    Quasi che, per mezzo di quegli strafalcioni, tu abbia cercato di renderle persino simpatiche nella loro grettezza.
    Sembra che ti sia sforzata di non infierire, quasi a dire loro: “Ma ‘un llo capite? Vi prendo per il culo ma ‘un lo fò con cattiveria, lo fò con simpatia”.

    Giò

    PS: Perdona la mia incursione nel dialetto toscano. Oltre a non avere molta padronanza delle lingue straniere, non ho nemmeno tanta confidenza coi dialetti.
    Per dirla alla maniera delle donne di questo racconto, non sono “un poliglottide”.

  17. Gioacchino.

    come già detto, e come giustamente rilevi anche tu, che narratori saremmo se della realtà rendessimo una visione distorta, edulcorata, in certi casi, rispetto ai fatti della vita?…
    Che poi le crudezze possano anche non piacere è perfettamente legittimo, sono d’accordo.

    Con ciò, non che sia possibile, temo, chiudere gli occhi su come le cose vanno davvero, spesso, nella vita – sul modo di pensare, di agire e di parlare di taluni (molti) personaggi che si muovono attorno a noi, ogni giorno – sovente gretti, materialisti e cinici fino al midollo.

    Talvolta, per le ambientazioni di sfumatura thriller/noir – specie quando si tratta di ‘corti’ per cui è necessario tratteggiare l’esistenza di un personaggio in poche pagine – mi diletto ad evidenziare le sfumature più esasperate dei protagonisti colorandole di tinte ancora più forti. Il fine è quello di rendere le caratterizzazioni ‘d’impatto’, tanto da aiutare il lettore ad entrare nella storia, visualizzarla e farla propria.

    Nel far ciò, talvolta accade che si sfoci nel grottesco. Bene: ne sono pienamente cosciente – così come lo sono del fatto che di accadimenti che appaiono strambi a prima vista, di bizzarre coincidenze, così come di esseri mostruosi e situazioni grottesche è pieno il mondo.
    Quello che vedo io, almeno. Ciò non significa che al mondo non vi siano creature degne di amore e rispetto – perché dovrebbe?… – delle quali narro in maniera diametralmente opposta. Uno scrittore che si rispetti credo debba sapere plasmare il proprio modo di essere e di narrare attorno alla realtà che descrive – essere versatile, in breve.

    Tu conosci il mio pensiero; mi ripeterò a beneficio di coloro i quali non hanno avuto tale sfortuna.
    Poiché credo che un narratore debba raccontare le proprie storie mettendo il mezzo della scrittura al servizio della storia stessa, continuerò a scrivere le mie (che siano di gradimento o meno, questa poi è tutt’altra cosa…) nella maniera in cui si sarebbero espressi i personaggi in ‘quel’ tipo di realtà.

    Per quanto riguarda le ‘pettegole’, hai ragione.
    Per quanto d’animo piuttosto gretto e meschino (avrai notato, sono certo, che una di loro si salva: la comare che si esprime per strafalcioni – non a caso, il personaggio dall’animo più candido del terzetto) provo nei loro confronti una sorta di involontaria affezione.
    Non infierisco, tutt’altro: nel caratterizzare la scena ho anzi inteso rendere omaggio ad un modo tipico di essere tutto tipico di noi Toscani – quello che ci ci fa definire ‘maledetti’.

    Spesso e volentieri, dalle mie parti, quando ‘si prende in giro qualcuno’, lo si fa con simpatia – non ci crederete, perché è una maniera tutta nostra – senza alcuna cattiveria.
    Alo stesso modo, spesso chi produce maldicenze non si rende conto del male che fa.

    ‘True Lies’ è un brano a mezza strada tra la commedia dell’eccesso e quella dell’assurdo; soprattutto, un brano leggero, simpatico e scanzonato, concepito come un racconto da leggere tutto d’un fiato senza riuscire a trattenere il sorriso.
    Tu che ‘cinematograficamente parlando’ visualizzi tanto bene, immaginalo recitato da personaggi di un film di Leonardo Pieraccioni (anche se quella della commedia del grottesco è una strada che noi Toscani calchiamo da secoli, più che da decenni).

    Concludo con un brevissimo riferimento alla credibilità dei personaggi: in un piccolo paese della Toscana, oggi, non sarebbe affatto difficile – né bizzarro, o eccessivo – credi, assistere a dialoghi come quelli narrati.
    Alla maggior parte degli strafalcioni citati ho assistito in prima persona; per almeno due dei personaggi ho attinto a piene mani da conoscenze dirette.
    E mi sono anche limitata 🙂

    Per concluderla come la signora Mirella, ‘dulcis in findus, le cose della vita vanno affrontate a spadatrak’.

    A presto,
    Nikki
    PS: ‘Tagliamo la testa al topo’: non è vero che non parli bene le lingue – la tua padronanza migliora un giorno dopo l’altro. Non si può dire che tu ‘batta la fiaccola’.
    😉 😉 😉

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