Premio Racconti nella Rete 2012 “L’eredità” di Mirta Contessi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Ad un certo punto della sua vita, verso i cinquant’anni, Aristide Graziani, stanco di respirare aria di città, decise di andare a vivere in campagna. Si affidò ad un’agenzia immobiliare per trovare la casa dove vivere e ne visitò un paio dalle parti di Castel Bolognese, accompagnato dalla solerte impiegata, una signora di mezza età, piuttosto in carne. Dopo i primi tentativi a vuoto, ebbe un colpo di fortuna e si innamorò a prima vista di un casolare, a cui si arrivava da una strada sterrata, un po’ in salita, deviando dalla provinciale e seguendo l’indicazione di uno sbiadito cartello con la scritta “Podere Del Colle”. “Il podere è stato venduto due anni fa, quando il vecchio proprietario era ancora in vita, ma morì poco dopo, si dice dal dispiacere di non poter più lavorare fra le sue vigne, sa, la depressione…. Comunque era molto anziano e la vedova Del Colle adesso andrà in un ospizio, ha quasi ottanta anni, ma vedrà com’è lucida!”. La Panda, con la pubblicità dell’agenzia su di una fiancata, si arrampicò agevolmente su per la salita mentre la donna continuava a parlargli della grande casa che la vecchia, rimasta sola, senza figli, né nipoti, voleva vendere in fretta e ad un prezzo davvero basso. Aristide la ascoltava a malapena catturato com’era dai colori autunnali della vigna. I tralci a terra, i solchi profondi lasciati dalle ruote dei trattori appesantiti dai cassoni ricolmi, ma soprattutto la vigna spogliata – a parte qualche grappolo lasciato apposta qua e là che occhieggiava tra le foglie rossastre-, erano ciò che restava della vendemmia appena terminata. Inseguiti da una nuvola di polvere, arrivarono in un cortile invaso da una gramigna riarsa che crepitò sotto le ruote. Il casolare aveva mantenuto un aspetto austero e maestoso, ma rivelava un’impietosa decadenza. Aristide lasciò che la signora si dirigesse da sola verso il portone dell’ingresso a cercare la vedova e girò attorno alla casa per una prima esplorazione. Procedette in senso orario incontrando dapprima il lato esposto al sud: un corbezzolo pieno di frutti abbarbicato ai mattoni, un giuggiolo con le bacche rosseggianti e le radici esplose fuori dalla terra, fra le crepe del marciapiede. Aristide volse lo sguardo verso il pendio dove i filari si snodavano ordinati in file parallele: il sole del tardo pomeriggio esaltava i toni gialli e rossi delle foglie. Stava esplorando il lato esposto al nord, le pietre ricoperte in parte dal muschio dove il sole non arrivava, quando si sentì chiamare. Ritornò verso l’entrata e sul portone vide la vedova Del Colle che lo scrutava sorridendo. Gli tese una mano piccola e morbida: “Mi chiamo Elvira, . piacere di conoscerla. Mi dice la signora dell’agenzia che sta cercando una casa come la mia, vero? Le piace qui? Sa, c’è tanta quiete, troppa per una vecchia sola come me. Venga, venga a vedere com’è dentro”. Si voltò con un movimento lento ma elegante. L’interno della casa svelava la passata agiatezza dei proprietari, coltivatori di vigne da molte generazioni. La signora Elvira si mosse con po’ di affanno fra i mobili vecchi e il pavimento, in alcuni punti sconnesso, facendo strada ad Aristide che la seguiva, guardandosi intorno. Vide le crepe che serpeggiavano all’incontro dei muri e le macchie di umidità in alto, sul soffitto. “Questa casa è come una vecchia signora, per quanto si vesta bene non può nascondere la sua età e neppure i suoi acciacchi!” disse Elvira mentre attraversava il corridoio occupato in gran parte da piante messe lì a svernare, al riparo dall’imminente freddo. “Lei avrà capito che questa vecchia casa ha bisogno di molte cure; ristrutturarla le costerà parecchio, giovanotto, ma sarei felice di lasciarla a lei. Lei mi piace, così, senza conoscerla, ma il mio istinto sbaglia raramente!”. Finì la frase con una risatina infantile e un malizioso occhiolino.
Aristide acquistò il casolare in tempi brevissimi e manifestò il desiderio di traslocare in fretta per cominciare i lavori di ristrutturazione, dapprima quelli interni, lasciando tutta l’opera di rifacimento esterno per l’inizio della primavera. Incontrò per l’ultima volta la vedova Del Colle il giorno in cui lei partiva per la città. Elvira si soffermò in ogni stanza, in silenzio, sembrava pregare, o forse stava solo cercando di imprimersi nella memoria quei luoghi dove aveva vissuto gran parte della sua vita. Aristide aspettò con pazienza che lei terminasse il suo viaggio fra i ricordi. Udiva il suono dei piccoli passi della vedova che risuonavano nelle stanze vuote dagli alti soffitti. Lei si avvicinò al portone con gli occhi lucidi stringendosi la borsetta al petto. “Signor Graziani, Aristide..posso chiamarla così, vero? C’è una cosa che non le ho detto di questa casa”. Fece una pausa, sospirando. “Vede quella porta, in fondo al corridoio? C’è una scala che porta alla cantina. Io non ci sono più andata dopo la morte di mio marito. E anche lui non scendeva quasi più da molto tempo prima che si ammalasse. Io non l’ho sgombrata, non ho avuto cuore di chiamare qualche sconosciuto per liberarla da tutte le cose che sono state messe lì, in tanti anni.
Deve farlo lei. Si tenga pure tutto quello che trova ancora in buono stato. Di sicuro troverà delle bottiglie, mio marito era un appassionato di vini e anche un buon bevitore, quando era ancora in salute.” Lì per lì Aristide non fu molto felice di scoprire che la vedova gli stava lasciando un locale ingombro, con tutto il lavoro che doveva affrontare! Eppure la salutò con grande cordialità e l’accompagnò al taxi che attendeva nel cortile, con il motore acceso. Guardò l’auto sparire fra i filari mentre dalle colline scendeva la prima nebbia d’autunno, che catturava i suoni e sbiadiva i colori della vigna. Una nuvola di moscerini, ancora ebbri, volteggiava sui filari.
Entrò nella grande casa e fu preso da una curiosità crescente di scendere subito a verificare quante cianfrusaglie aveva ereditato dalla signora Elvira e dal suo defunto marito.
La porta si aprì a fatica, Aristide pensò che l’umidità aveva gonfiato il legno e che avrebbe dovuto limarlo per far scorrere meglio i battenti. La luce del corridoio gli consentì di intravedere i primi gradini di una scala che scendeva verso il pavimento in terra battuta. Tastò il muro ruvido alla ricerca dell’interruttore e incontrò una fitta rete di ragnatele che imbrigliarono la sua mano destra. Si accese una lampadina che penzolava dal soffitto ad illuminare debolmente la cantina. Era un locale spazioso, con le pareti impegnate da assi di legno, sostenute da larghe mensole, decorate da ricami di fili concentrici, intrecciati pazientemente dai ragni, padroni di quel luogo, disertato dagli umani per così tanto tempo. Man mano che i suoi occhi si abituavano a quella debole luce, Aristide scopriva i tesori della sua eredità. Vasi di varie fogge e dimensioni giacevano impolverati sulle assi e su ognuno di essi un’etichetta ingiallita con il nome del prodotto, il mese e l’anno di confezione: succo di pomodoro, pesche sciroppate, melanzane sott’olio, marmellate di prugna, bottiglie di densa sapa. Sulla parete successiva file di arnesi che erano serviti al vecchio proprietario per svolgere le attività di conduttore del podere e di vignaiolo in particolare: grossi imbuti con retine di alluminio, lunghe aste di metallo terminanti a cucchiaio, mastelli di diversa capienza, a terra, sotto l’ultima asse, un torchio e un macchinario strano con un catino colmo di tappi di sughero. Poi vide le bottiglie. Decine e decine di bottiglie di vetro scuro brinate dal tempo e dall’umidità. Aristide rimase per un lungo momento a guardarle, prima di prenderne una per ogni mano e avvicinarle agli occhi per leggere minuscole etichette scritte con una calligrafia quasi infantile; c’erano vini di molte qualità e di varie annate, imbottigliate e tappate con quello strano arnese di cui capì la funzione, solo in quel momento. Così come comprese che quello strano odore avvertito, entrando in cantina, era un misto di succhi d’uva e di vinacciuoli ormai assimilati dal pavimento in terra battuta.
Aristide fece un ottimo uso di quel tesoro. Alcune bottiglie le tenne per sé e passò serate dolcissime che lo consolarono nei momenti amari della sua esistenza: altre le regalò ad amici per varie ricorrenze festose, facendo ogni volta un’eccellente figura. Eppoi ci fu quella volta che ne portò una, particolarmente pregiata, perché Ada era stata davvero carina con lui e quella sera l’aveva invitato a cena, a casa di sua madre.
In realtà, sua madre era un po’ strana: molto cordiale, ma rideva troppo e diceva qualche stramberia. Aristide arrivò, tirato a lucido, con la bottiglia di vino invecchiato in mano. Sotto la luce biancastra del neon la brina depositata sul vetro scuro brillava, e anche gli occhi di Ada brillavano. La madre prese la bottiglia dalle mani di Aristide e li lasciò soli nella stanza, dirigendosi in cucina. Il tempo di un bacio ad occhi aperti per non essere scoperti, visto che Ada era sposata e l’aveva presentato alla madre come un collega a cui doveva un favore. La cena era pronta e si accomodarono a tavola. La madre di Ada stringeva fra le mani la bottiglia di vino invecchiata amorevolmente nella cantina dei Del Colle, completamente sbrinata, con il vetro terso e ancora bagnato che la signora stava finendo di asciugare. “E’ stata dura pulirla da quella polvere, sa?, ho dovuto lavarla con l’acqua bollente e poi con l’anticalcare, però, guardi, dottore, come luccica adesso!”
Che bel racconto. Un po’ malinconico, ma anche sereno, sorridente. E la frase della madre di Ada mi mette fiducia, ottimismo. Bello!
Concordo, bel racconto. Mi piacerebbe vivere in quella casa di campagna, buona descrizione, ma soprattutto mi è piaciuta la figura di Elvira, che esprime saggezza, sensibilità, generosità ed anche un pizzico di ironia. Brava!
Davvero molto carino, c’è una certa atmosfera nella descrizione degli ambienti, è una voce delicata la tua. La campagna poi con tutti i suoi odori magici mi riporta alla mente tanti ricordi dell’infanzia.Complimenti e auguri!
Grazie di un commento così bello, Francesca. Auguri anche a te!
Bella narrazione con descrizioni rustiche di una genuinità assoluta che ricordano anche a me tempi andati.
E poi brava per aver messo in risalto con garbo un grande problema sociale: quello della solitudine in vecchiaia che ha vari risvolti.
Qui la signora Elvira non la prende tanto male, anzi è risoluta, convinta e consapevole che la vendita del podere sia la cosa migliore per lei.
Complimenti Mirta e in bocca al lupo!
Rita G.
Grazie Rita, sono felice del tuo commento che mi ha permesso di “incontrarti”. Anch’io ho letto il tuo racconto e ti ho lasciato un commento. Tanti auguri, per il concorso e per la tua vita.