Premio Racconti nella Rete 2012 “La valigia di cartone” di Mirta Contessi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Aveva sposato un uomo bello e vanitoso e fin dai primi tempi capì che non sarebbe stato un matrimonio facile da vivere. Scoprire i suoi molti tradimenti e poi assistere a pietosi e vani tentativi di coprirli, indurlo a confessare e perdonarlo, dopo una copiosa cascata di lacrime, era un esercizio che si ripeteva a cadenza quasi mensile e le logorava i nervi.
Ciò che più la spossava era la fatica di dargli fiducia ogni volta che lui si allontanava da casa dicendole puntualmente dove stava andando. Dentro di lei si combatteva una lotta impari fra la piccola parte ancora propensa a credergli e un diavolo di dubbio che prendeva corpo con impietoso sarcasmo.
Ad un certo punto, più o meno allo scadere del fatidico settimo anno, qualcosa cambiò. Non provava per suo marito più nulla che somigliasse all’amore e si rese conto di aver solo sognato di essere amata. Ad una ennesima scoperta di tresca con una ragazza che lavorava nel suo stesso ufficio, gli chiese che cosa lo spingeva a cercare continuamente nuove prede per il suo già fornitissimo palma res.
Glielo chiese con calma, guardandolo fisso negli occhi con la determinazione di volere la verità e senza il solito fremito di rabbia che le alterava la voce.
Lui ci pensò seriamente quasi impegnandosi con disciplina ad un esercizio obbligatorio e le rispose che, in realtà, quello che lo spingeva non era il desiderio di portarsi a letto questa o quella, no, era soltanto il puro gusto della conquista. Le confessò che, nel momento in cui in cui si rendeva conto che la donna corteggiata era pronta a cedergli, sarebbe volentieri scappato lontano da lei. Il suo orgoglio di maschio a quel punto era soddisfatto. Tutto il resto, lui aggiunse, non era che un superfluo esercizio ginnico per non fare brutta figura o, peggio, per non essere deriso dopo
un’ inopportuna fuga.
Una sera d’inverno aspettò che il bel marito tornasse da una delle sue solite battute di caccia, decisa a chiudere quel rapporto divenuto ormai insopportabile.
Dal solito amico che te lo dice “perché tu un giorno non debba soffrire per uno che non ti merita”, aveva saputo dell’inganno. Non era a Bologna per la mostra di qualche pittore che gli interessava e non era vero che avrebbe voluto anche che lei ci venisse- sapeva bene che lei era impegnata -, la verità stava da tutt’altra parte. Aveva organizzato un appuntamento galante con l’amante del momento, chissà dove e a casa di chi.
Tornò verso le ventitrè mentre lei stava sbucciando un mandarino. Udì dapprima lo sbuffo dell’ascensore chiamato dal pianterreno, poi la porta che si apriva e si richiudeva, sentì il rumore che fa un corpo pesante quando si assesta all’interno dello stretto abitacolo. Sicuramente, mentre saliva, lui si stava rimettendo in ordine davanti allo specchio, in fretta, prima che la porta si aprisse al quarto piano.
Udì lo schiocco della chiave che girava nella serratura e allo stesso momento anche lei si raddrizzò appoggiandosi meglio allo schienale del divano.
Era tesa come la corda di un violino ben accordato; la luce fioca della lampada illuminava il tavolino su cui aveva appoggiato un posacenere ormai colmo di resti contorti di sigarette e di bucce di mandarino che diffondevano nella stanza un profumo agrodolce.
Lo accolse fissandolo appena entrato e già pronto con un sorriso sforzato a raccontare l’ennesima bugia. Lui non attese neppure le domande. La mostra non gli era piaciuta. Descrisse con cura alcuni pezzi dell’artista che sicuramente aveva studiato in un catalogo, preparando in anticipo la storia da raccontare. Mentre lui parlava e parlava, senza quasi prendere il respiro, lei aveva lo sguardo fisso sul suo collo, appena sotto l’orecchio destro. Un rossore, una chiazza violacea che si intravedeva sotto il colletto della camicia le stava raccontando una storia totalmente diversa.
A un tratto scattò una molla che la fece sussultare. Aveva appena finito di sbucciare un altro mandarino, ma non ne aprì uno spicchio per mangiarlo. Senza smettere di fissarlo glielo lanciò contro, caricando il braccio con tutta l’energia che possedeva. Il frutto si spiaccicò contro il muro, sfiorandolo appena, e, ricadendo miseramente a terra, ruzzolò a lungo sotto la poltrona e ricomparve sotto i suoi piedi.
Lui non si scompose. La bocca leggermente dischiusa sull’ultima sillaba del suo racconto, lo sguardo perso a cercare una spiegazione per quel gesto così inaspettato. Non ci mise molto a capire che qualcosa non era andato secondo i suoi piani. Si chiese se lei sapesse qualcosa. Serrò forte le labbra, e contrasse la mascella, ma fu l’unico movimento che gli riuscì di fare.
Lei invece si era alzata di scatto e aveva percorso il corridoio fino alla camera da letto. Non accese la luce per non svegliare suo figlio che dormiva nel lettone. Fu il solo gesto consapevole del momento perché, per il resto, agiva come un automa. Aprì uno alla volta tutti i cassetti del comò e ne estrasse il contenuto che infilò dentro una valigia trovata a tastoni, dentro la cassapanca.
Seppure in modo frenetico e praticamente al buio, riuscì a muoversi nella stanza senza svegliare il bambino. Uscendo dalla camera accostò l’uscio per lasciar filtrare un po’ di luce, si infilò le scarpe nel corridoio, prese il cappotto dall’attaccapanni vicino alla porta e, senza entrare nella stanza dove lui stava silenziosamente seduto sul divano di velluto color pervinca, uscì dall’appartamento senza una parola. L’ascensore era ancora fermo al quarto piano. Si infilò il cappotto posando la valigia e la borsa a terra davanti alla porta. Dai piani sottostanti si udivano voci e musiche. Qualcuno stava giocando a carte: forse al secondo piano. Un odore dolciastro di melanzane fritte ancora persisteva lungo la tromba delle scale. Lo stesso odore misto a una scia di profumo femminile la accolse quando entrò nell’ascensore. Provò una sensazione di nausea e tentò di non respirare fino al pianterreno quando la porta sbuffò, aprendosi. Soffiò fuori un respiro trattenuto per un viaggio che le era sembrato lunghissimo. Aveva la frenesia di mettere più spazio possibile fra lui e la futura destinazione, a dire il vero, ignota. Una notte fredda e umida la accolse fuori dal portone. Pioveva una nebbiolina pungente che le imperlò i capelli ricci. Si diresse alla cinquecento blu parcheggiata poco lontano e, con le chiavi già in mano, aprì lo sportello e caricò la valigia a fianco del suo sedile. Inserì la chiave e tirò la leva per l’accensione.
L’auto ebbe un sussulto seguito da un sordo singulto e da alcuni scoppi che non facevano presagire nulla di buono. Riprovò immediatamente. L’auto sobbalzava senza muoversi, senza forza, finché si affievolì completamente. Batteria scarica. Il colmo.
A quel punto si fermò, immobile. Il respiro un po’ affannato si materializzava in una nuvoletta come se il suo cuore fumasse per le ultime braci di un fuoco che si stava spegnendo. Fu solo allora che vide la valigia. Era il contenitore in cartone di una coperta comprata anni fa e mai buttato via. La aprì con un gesto rassegnato e capì di averla riempita senza alcun criterio, così, senza pensare. C’erano tutte le maglie da pelle, i calzini invernali, gli slip di suo marito. Le sfuggì un singhiozzo, un misto di risata e pianto. Rimase ferma per un lunghissimo tempo, senza la forza di affrontare la grottesca situazione, in un modo qualunque.
Dove sarebbe andata con quella roba nella valigia di cartone? Non certo a casa dei suoi genitori e a quell’ora, per giunta. Sua madre e suo padre le avrebbero sicuramente rimproverato di aver lasciato il bambino da solo. Ma non era da solo! Suo padre, da maschio complice di quel genero sciupafemmine, le avrebbe fatto una lunga predica sull’opportunità di capire che l’uomo è cacciatore per natura e quindi le sue debolezze andavano capite e perdonate. Scartò senza esitare questa destinazione. Scartò via via alcune altre possibilità che le vennero in mente, tutte complicate da praticare. Frugò nella borsetta a tracolla, estrasse il portafoglio e contò i soldi che possedeva. Una miseria. Neppure sufficienti per pagare una notte in un albergo. Respirò forte, cercò di far arrivare un po’d’aria alla pancia, ne accompagnò il viaggio con una mano e si sfregò i muscoli contratti da troppo tempo, poi si mise alla ricerca del suo senno fra neuroni e sinapsi scompigliati dall’angoscia. Era infreddolita ed esausta. Non le restava altro da fare che risalire mestamente in quella casa da cui era uscita, quasi fieramente, circa un’ora prima.
Lui era ancora lì, seduto, immobile, come impietrito dallo stupore. Lei entrò e si diresse verso la camera da letto. Non prese il suo bimbo in braccio per portarlo nel letto della sua cameretta, come faceva ogni sera, lo spostò delicatamente, solo un po’, per prendere posto vicino a quel corpo caldo. Si spogliò velocemente per indossare il pigiama e si infilò sotto le coperte. Si addormentò con difficoltà e non prima di aver deciso che la partenza era solo rimandata al giorno dopo, magari con una vera valigia di pelle.
Bello!
grazie, il tuo commento mi ha fatto molto piacere.