Premio Racconti nella Rete 2012 “Sulla riva” di Gianni Contarino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Sulla riva del Mar Ionio, sopra alcuni milioni di tonnellate di sabbia fra agavi e macchia, fra sole e afa, sedeva un uomo, magro e scuro di carnagione, abbastanza giovane da non conoscere l’odore che aveva quella spiaggia trent’anni prima.
Stormi di vele bianche, di barche stanche, di volti abbronzati, si avvicinavano alla riva mentre i suoi pensieri invece prendevano il largo, galleggiando su parole leggere e su ricordi odorosi di alghe, giù verso l’isola, piccola e abbandonata, piena di sole e ruggine, di cartelli e rottami, di buone intenzioni infrante dall’incuria.
Uno dei pescatori, giunto a riva, si avvicinava con una cesta di pescato, piena di un giorno di fatica; nei suoi occhi la felicità di un altra giornata normale si alternava alla speranza di vendere il pescato nel giro di un’ora; le mani parlavano di anni trascorsi fra remi e reti; il segno della lenza raccontava ore di lavoro e i calli tacevano rassegnati all’azione quotidiana del legno.
L’uomo seduto intanto navigava, era già oltre l’isola e lo si vedeva dai suoi occhi, che non notavano nemmeno quel cesto che passava vicino a lui spandendo l’odore di mare e di squame; aveva già tirato fuori la bussola dei suoi anni e dei suoi desideri, che gli indicava una sola direzione, quella del nord di questo paese, quella delle grandi città e di un sogno chiamato “ufficio”.
Terra gialla, verde di macchia e rossa di sangue, pensava; questa terra non lo avrebbe avuto per sé, non gli avrebbe servito il caffè riempiendolo di complimenti come fa una bella barista con un cliente triste; questa terra non gli avrebbe tolto la luce dagli occhi, con le sue desolazioni e con le sue disillusioni, con il suo stringere i denti e il sopportare il nulla che accade.
Terra nera nel ricordo degli anziani, che da giovani l’avevano lasciata con la stessa foga per qualche promessa di vita, che l’avevano barattata con qualche decennio di grigio e di fumo, catapultandosi lontano, dentro treni scuri, con facce scure e unghie sporche di materiale di freni ferroviari.
L’avevano lasciata alle loro spalle affidandosi al silenzio rumoroso di un treno chiamato “del sole”, fra l’odore di velluti, ormai lisi, di carrozze di prima declassate, finestrini obliqui e condizionatori impotenti, vecchie stampe di Torino, Napoli, Venezia e vecchi segni di milioni di chilometri e di anime.
Plastica e ottone, tende e sudore, donne anziane e bambini, uomini e sigarette ai finestrini, rumore sincrono,
ripetitivo di acciaio su acciaio, di molle e pistoni, di balestre e vagoni; di un fischio e di un campanello, di balconi che danno sulla ferrovia, sui quali massaie stendono il bucato e guardano il serpente che passa, o bambini vestiti con poco salutano i viaggiatori come a ricordare loro che c’è chi non si muove dal proprio posto.
Sulla riva del Mar Ionio, su uno scoglio scuro di lava, fra il caldo e la noia, fra la brezza e i gabbiani, sedeva una donna giovane nell’animo, gli occhi fissi sui faraglioni e i capelli mossi color neve, le calze nere e un bottone dello stesso colore, appuntato sul colletto della camicia, ricordo di un amore finito sotto un macchinario vent’anni prima in una grigia città del continente, in un mattino scandito dal sudore e dall’acciaio, dal rimbombo di una pressa e dal sibilo cattivo di una fresatrice fra mani venute da lontano.
E un rosario nelle mani, sempre in movimento come la catena di una bici, come il nastro in una fabbrica, liso e lucido, chiaro e venato, mai fermo, mai dimenticato, toccato con la familiarità con cui una madre accarezza i lineamenti del proprio figlio.
E sullo scoglio vicino due bambine, una alta e magra, una bassa e magra, foglie di una stessa pianta, brune e abbronzate, imperfette e scomposte, fresche di adolescenza povera; guardano anch’esse il mare e cercano la linea che lo unisce al cielo, parlando senza pensare di essere la speranza di una terra giocata a carte e persa alla roulette dell’attesa che qualcosa cambi.
Un gabbiano le guardava e planava, le salutava e si allontanava, quasi a riconoscerle come terra promessa delle proprie speranze, di avere ancora un albero su cui appoggiarsi e dell’acqua pulita su cui piombare in picchiata: tutto questo ogni due minuti, mentre la risacca faceva da colonna sonora e una barca oscillava ormeggiata ad una banchina diroccata.
Terra chiara di mattoni intonacati, di chiese vuote e di arance al sole, ricordi di donne partite per amore, di mamme rassegnate nel dolore e di abbandoni poco convinti, ma spinti dalle illusioni di una vita migliore. Ma migliore di cosa e in cosa? Forse di certi giorni passati a guardare l’orologio e la televisione, ascoltare parole d’altrove, come lente litanie, come mantra metropolitani, come suoni disumani, con frasi di plastica e idee straccione.
Forse anche migliore di certe notti in cui il silenzio veniva squarciato da sordi scoppi, alternati a sirene della polizia e a grida di disperazione.
Forse infine migliore della radio del paese, che con rispetto e deferenza, racconta del matrimonio del criminale di turno e di tutti gli invitati, politici inclusi.
Forse peggiore però dello stare ad ascoltare il proprio cuore, con il suo ritmo ancora naturale e non turbato da bisogni non così veri.
Terra antica, paesaggio senza età e senza ricordi, non di chi vive lì, ma di chi non lo fa più, di chi ci torna per desiderio, di chi per abitudine, di chi per deporre un fiore sulla tomba dei propri cari, di chi per ricordarsi del perché non è lì.
Terra di pensieri, di immagini colorate di illusioni di ieri, di orecchini appesi ad orecchie tappate, come gli occhi di un testimone di una strage di mafia, come il naso di chi apre una discarica abusiva, come la coscienza di chi glielo concede.
Terra di rabbia, di ciò che si poteva fare e invece no, di ciò che oggi si può fare ma non c’è tempo, non c’è forza.
Terra di donne e di uomini, terra di remi e di nasse, di dolci e di terrazze, di fiori e di silenzi, terra di ritardi immensi.
Sulla riva del Mar Ionio sedevano in tanti quel giorno e tanti in piedi tutt’intorno, tutti a guardare là in fondo, là dove il mare si perdeva e dove gli azzurri si fondevano.
Il racconto “Sulla riva” è un racconto “senza tempo”, sulla riva infatti il passato e il presente si fondono senza soluzione di continuità.
Un testo agile e denso di significati, colmo di pathos e allo stesso non avaro di denunce sociali e di rimpianti per una terra che avrebbe potuto essere diversa da ciò che è, che inesorabilmente è.
Molto particolare la descrizione dei paersonaggi e in particolare della donna e delle due sorelle, descrizioni sintetiche e semplici, come arida è la loro vita, ma ance taglienti e nette, consentendoci di immaginare spaccati di vita, sogni infranti, speranze in una terra che ancora desidera un riscatto.
Mi ha particolarmente colpito inoltre il finale del racconto che, con la ripetizione di “terra” ai vari inizi di frase; sembra quasi un inno corale, dove tanti sentimenti si elevano a gran voce dai tanti che “in quel giorno e tutt’intorno sono lì a guardare la in fondo”….
Notevole….
Un bel quadro. Linguaggio molto poetico, tanto che mi sono chiesta se per caso tu non sia abituato a scrivere poesia. Mi è piaciuto. Unico appunto sulla scelta dei caratteri: troppo piccoli, la lettura a video è faticosa ma forse sono io che sto diventando “cecata”! 😉 Bravo, auguri!
Se vuoi leggere i miei due:http://www.raccontinellarete.it/?p=8951
E qui:http://www.raccontinellarete.it/?p=8948