Racconti nella Rete 2009 “La scatola di biscotti” di Aaron Ariotti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Aveva dimenticato la scatola di biscotti sul sedile posteriore della mia macchina. Una di quelle vecchie scatole di latta a forma rettangolare. Sopra c’erano dei ghirigori floreali rossi e blu su un fondo giallo limone. L’aveva comprata in un negozietto di cianfrusaglie che si spacciava per antiquario, dalle parti del Pigneto. Per quel poco che la conoscevo, tutto avrei creduto tranne che fosse interessata a un oggetto del genere. Troppo sentimentale. Troppo retrò. Lei non era così. E poi i fiori e quei colori così vivi… Non avevano niente a che vedere con lei. Affiancarli anche solo mentalmente all’immagine di lei, faceva lo stesso effetto del proverbiale gesso che stride sulla lavagna.
Non che non fosse una persona solare, anzi. Sorrideva tanto, forse troppo per gli standard a cui ero abituato. Lavoravo tutto il giorno con gente che ignorava cosa fosse il senso dell’umorismo, che sapeva ridere solo delle disgrazie altrui. Perciò per me incontrarla fu una specie di sollievo.
Mi sentivo come quella trota appena catturata da un bambino che per la prima volta il nonno ha portato a pesca; il nonno lo invita a ributtarla in acqua e il bimbo protesta è il mio primo pesce, lo voglio far vedere a mamma; e il nonno invece cerca di dissuaderlo; e il bimbo insiste ma io voglio che mamma lo cucini, voglio mangiarlo; e alla fine il nonno riesce a blandirlo e il bimbo con grandissimo dispiacere la ributta in acqua.
Ecco. Incontrarla, mi fece un po’ quell’effetto lì. L’effetto della trota ributtata in acqua, se mi passate la metafora.
Il nostro primo incontro fu su un treno. Anzi, per essere precisi, su due treni.
Io mi trovavo sull’eurostar 9494 Roma-Milano. Un guasto tecnico ci costrinse a fermarci alla stazione di Piacenza. Sul binario di fianco, sostava un altro convoglio che stava andando in direzione opposta. Era il treno su cui viaggiava lei. Un guasto tecnico aveva bloccato anche quello.
Mi salutò dal finestrino del suo scompartimento. Non sono uno che si mette a socializzare, soprattutto quando sono in treno. Farlo da un treno all’altro mi sarebbe apparsa fino a quel momento solo un’idea balzana. Ma così accadde. Complice la bella stagione tirammo giù i nostri finestrini.
Il suo accento era del sud.
Il mio accento era del nord.
Parlammo del più e un po’ anche del meno.
Mi sentivo stranamente a mio agio abbarbicato su quel finestrino a parlare con una sconosciuta a un metro e mezzo di distanza. Ricordo che pensai, a un certo punto, quanto fossimo vicini e che era strana quella vicinanza per due che erano stati così lontani fino ad allora.
L’altoparlante della stazione dopo tre ore e quaranta annunciò che nessuno dei due treni sarebbe ripartito e che avremmo dovuto proseguire il viaggio su un pullman sostitutivo.
Ci ritrovammo poco dopo nella stazione dei pullman antistante la stazione. Ormai avevo perso il mio appuntamento e decisi di tornare indietro, pagando un sovrapprezzo sul biglietto. Così facemmo il viaggio insieme.
Mi ascoltò mentre le raccontavo la storia della mia vita. Non è che mi sia successo chissà che nella mia vita, ma ho il vizio di ricordare ogni cosa e la presunzione di attribuire anche ai miei ricordi più stupidi un qualche significato. Si addormentò con la testa sulla mia spalla mentre le parlavo della mia passione per i biscotti savoiardi.
Arrivammo a Roma a tarda sera e ci salutammo con un doppio bacio sulla guancia. Mi lasciò il suo numero di telefono. Una mossa che mi sorprese e glielo feci notare.
– Tanto è sempre spento -, mi disse con quel suo sorriso strafottente. E se ne andò.
Era vero.
Il telefono non era mai acceso.
Passarono sei mesi. Ogni tanto scriveva dei messaggi, ma raramente rispondeva a quelli che le scrivevo io. Avevo voglia di rivederla, ma anche paura. Paura che, estraniati dal contesto singolare dei due treni in avaria, il nostro prossimo incontro sarebbe stato in qualche modo deludente.
Invece mi sbagliavo.
La incontrai di nuovo per caso.
Pioveva a dirotto quel giorno e decisi di rifugiarmi in biblioteca.
Per la prima volta nella mia vita stavo leggendo un quotidiano dall’inizio alla fine. Articolo per articolo, compresi quelli che non mi interessavano minimamente. Tanto avrei dovuto passare il tempo in qualche modo. Ero alla pagina Esteri quando lei entrò, fradicia dalla testa ai piedi col trucco che le colava sul viso. Sembrava uscita da un film di Fassbinder. E io non avevo mai visto un film di Fassbinder, però le donne di quei film me le immaginavo proprio così.
Non mi riconobbe subito: avevo da poco tagliato i capelli. Ma le bastò un attimo per sintonizzarsi. Sembrava più alta. Forse per via degli stivali. Facemmo un pezzo di strada insieme sotto la pioggia.
Sembrava non rammentare nulla di quello che c’eravamo detti la volta precedente. Sembrava, anzi,non ricordare quell’avvenimento con la stessa intensità con cui lo ricordavo io. Questo mi ferì un po’. Ma il problema era mio. Ero io che ricordavo tutto. Le persone normali si dimenticano le cose poco importanti com’è giusto che sia. Non c’è spazio per tutto.
Ci stavo bene comunque con lei.
Stavo quasi per dirglielo, quando un fulmine balenò nel buio illuminando a giorno per un brevissimo istante. Lei mi guardò, sorridendo:
– Non è che ti stai innamorando di me?
– È per via del colpo di fulmine?, ironizzai.
– Non che ci sia nulla di male, ma non è il caso che ti innamori. Capito?
“Non è il caso che ti innamori.” Lo disse come la mamma che dice al bambino: non è il caso di mangiare troppi dolci. Ma io non mi stavo innamorando. Conoscevo i sintomi e non ne stavo provando nemmeno uno. Stavo semplicemente bene con lei. E non avevo nemmeno mai sognato di farci sesso. La notte, intendo. Qualche volta ci avevo pensato, lei mi piaceva, sarei un ipocrita a dire il contrario, ma sognarlo la notte, mai.
Cercai di rassicurarla, senza riuscirci.
Fu allora che entrammo in quel negozietto, un po’ per ripararci dalla pioggia, un po’ per curiosità.
Mi sarei aspettato di vederla uscire da lì con un oggetto qualsiasi, tranne che con quella scatola di biscotti. La trovavo kitsch. Non riuscivo in alcun modo ad associarla a lei.
Siccome continuava a piovere le offrii un passaggio a casa.
Potevi dirlo subito che avevi la macchina.
Mi andava di camminare sotto la pioggia con te.
Durante il tragitto in macchina nessuno dei due parlò. Prima di scendere mi sorprese con un bacio a fior di labbra e disse:
Avrei voluto conoscerti in un altro momento della mia vita.
Io restai lì a guardarla entrare nel portone senza voltarsi né niente. Dieci minuti buoni a ripensare a quelle sue parole. Avevano tutte le sembianze di un addio.
Infilai la marcia e ripartii.
Arrivato sotto casa, mi accorsi della scatola di biscotti sul sedile posteriore.
La chiamai al telefono, ma ovviamente era staccato.
Il giorno dopo la cercai ancora, inutilmente.
Decisi di aspettarla sotto casa per le due settimane che seguirono, ma non la vidi né uscire né rientrare. E così per i mesi a venire.
La aspettai in biblioteca per ore e ore. Lessi quotidiani a non finire. Ma niente. Non la ritrovai più.
Un giorno, qualche anno più tardi, mi trovavo sull’eurostar 9494 diretto a Milano. Alla stazione di Piacenza guardai fuori dal finestrino. C’era un altro treno lì fermo e la riconobbi subito. Tirai giù il mio finestrino e urlai il suo nome.
Lei, con assoluta nonchalance, tirò giù il suo finestrino e mi salutò come se ci fossimo visti la sera prima.
Parlai con un leggero affanno:
– Finalmente sono riuscito a trovarti – dissi, – hai lasciato la scatola di biscotti nella mia macchina l’ultima volta che ci siamo visti.
– È tua. Puoi tenerla.
– Mia?
– Sì, per metterci i savoiardi.
– Dormivi quando te l’ho raccontato. Non puoi ricordarlo.
– Mi ricordo sempre delle cose importanti.
Qualcuno fischiò. I due treni ripartirono, ciascuno nella sua direzione.