Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “Marmaros” di Marina Salucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Ora la strada è sterrata. Dunque proseguo a piedi. Penso che dovrebbe essere vicino. Mi sono fidata di un cartello che diceva genericamente “cave”, e di un indigeno, che alla domanda “quanto ci vuole?” ha risposto “poco, qualche chilometro”. Non ho chiesto oltre, ho capito che non avrei ottenuto di più.

Osservo le mie scarpe che ad ogni curva si fanno più polverose. “Niente è lontano”, il motto dell’affidabile, discreta ditta che le produce. Ciò mi aveva strappato un ironico sorriso. Ma adesso, mentre guardo la promessa della vetta nuda della Roccandagia e il cielo che vi scaraventa addosso un azzurro di vetro, ora mi sembra vero. Andrò avanti.

Sto cercando il marmo.

Ma ce l’ho già sotto i piedi.

I passi stanno infatti affondando in una sorta di polvere chiara, sempre più chiara, che scricchiola sommessamente, capisco che è marmo soltanto dopo qualche curva, quando a lato vedo sassi e ciottoli bianchi, un paesaggio lunare che evoca le profondità dell’anima.

Salgo ancora ed ecco grossi blocchi candidi. Da solo, il marmo ha formato il greto di una fiumara, con lastre venate di grigio discreto, chiare fino alla cecità. Da solo le sponde.

Solo ora capisco che dietro a ogni parola c’è una storia. Una lunga storia piena di curve e biforcazioni. Lo capisco davanti a queste montagne, da cui sbucano guglie di campanili in pietra che custodiscono misteri esoterici di cavalieri crociati. Marmo.

Marmo di Carrara, alabastro, granito, dolomia.

Se fossi un geologo saprei la storia e le storie, invece sono uno scrittore e non so che le paturnie delle mie interiora.

Forse un tempo inenarrabilmente lontano i diversi elementi interni al mantello si sono mescolati, elementi diversi di diverse temperature, hanno vorticato dando origine a rocce differenti.

E’ bello, ma non mi convince. Manca qualcosa.

Forse se avessi potuto scegliere davvero avrei fatto il geologo. Un’occhiata ai sassi e tutto quello che è successo nello spazio e nel tempo diventa noto. Negli occhi di un geologo prendono forma spumosi mari che non ci sono più, e gli esseri che vi abitavano, e i ghiacciai che si sono sciolti, i climi che hanno ruotato riportando i fiori e i pollini nell’aria, basta guardare una roccia e si sente la tenerezza del pianeta che rotola nell’universo…

 

-Voglio quello, diceva Michelangelo nel film. Un bel film.

Ebbe il suo blocco di marmo. Più grande della montagna. Più bello.

Davvero aveva già visto la sembianza della sua mente toccando quel pezzo, proprio quello, davvero aveva già visto ciò che gli vagava nell’anima?

Comunque lo ebbe e cavò fuori una meraviglia.

Da una grande scheggia di terra antica.

Toccare, fiutare, comunicare tramite la materia, la forza delle braccia, il lavoro della mano.

E’ la scena dell’artista che incontra il suo marmo che viene innalzata all’immortalità, con lo sfondo delle Apuane gugliose e candide. E l’egocentrismo e la vanità sottesi si celano e si stemperano in quel gesto eterno.

Cosa potrebbe fare uno scrittore? Puntare i piedi per quella penna? Ebbene, eccotela. O quel tipo di carta. Servito.

Che abissale differenza…

Gesti che diventano quasi banali, intrisi dalla quotidianità.

 

-ECCERTO, disse Mauro di Stia, per il marmo ci vuole forza. Corporalità.

Gli avevo fatto alcune domande per entrare nel mondo della scultura, di cui lui era un quotato rappresentante. Avevo iniziato a lavorare la terra e la cosa era molto affascinante. Ma quello che fioriva nella testa cambiava, mentre le mani tentavano la forma, l’espressione.

-Non ha importanza, mi interruppe lui. Anzi, meglio, Se viene qualcos’altro, era quello che doveva venir fuori. Guarda qua, e mi fa vedere un catalogo delle sue opere; in copertina, lucido splendente, c’è un pulcinella smilzo con la lancia, argento e altri materiali, le forme sono solo abbozzate, è un pulcinella che sembra sul punto di sciogliersi, di non esistere più.

La cosa non mi convinse, non mi convince. Provai a fare quello che diceva, a voler vedere nella casualità del gesto l’essenza dell’arte, ma…

Davvero l’inconscio che sopravanza tutto e crea mentre tu dormi non mi pare una meta a cui tendere.

Il marmo non si scioglie, né dà l’idea di poterlo fare.

 

Continuo a salire, e ad ogni passo rigiro e penetro il paesaggio.

Ora sono davanti al monte squartato. Le sue viscere sono state squadrate, sono diventate grossi gradini cubici, chiari. Sembrano altari di religioni praticate da popoli estinti. Di fronte c’è uno scavatore arrugginito. Tutto in lui dice che da tempo non si muove più. Una cava dismessa.

 

-Danilo, di nuovo, ma perché, ma guarda, hai bagnato di nuovo il marmo nuovo, ma è possibile?

Mia madre parla con una disperazione e una concitazione tanto più tragiche quanto meno sono adeguate alla situazione. Dall’esterno.

Mio fratello, asciugando con frusta rassegnazione l’acqua intorno al lavabo, prova qualche reazione.

-Mamma, siamo in bagno, mica in salotto, è normale. Non è convinto e non convince. Si sapeva. Lo sapeva.

-Ah, ma ci vuole tanto poco (ora ma’ comincia a parlare in dialetto e non è buon segno) io lo faccio, perché voi no, l’acqua sul marmo lo rovina, non è più lucido,  e poi devo cambiarlo, sai quanto costa…

Mio fratello non parla più. Nei suoi occhi, nei suoi gesti, la rassegnata pesantezza della roccia. La stessa che è nelle convinzioni di nostra madre.

 

Guardo il greto del torrente. I blocchi sono più grandi man mano che si sale. Il torrente ha un suo pavimento. Vi cammino sopra. Non è lucido, E’ bellissimo ma non lucido. Mamma, perché “devi” cambiarlo? Guarda quant’acqua hanno accolto questi pezzi chiari sputati dal cuore della terra, quanto sole e vento, senza perdere la loro incantata bellezza.

Salgo ancora, voglio trovare la cava nuova, quella funzionante. Proseguo come in trance, rapita da un paesaggio che mi era sconosciuto. Sento rumore di schianti, a cui seguono sordi fragori di frana. Sono le esplosioni violente per ottenere dalla montagna ciò che spontaneamente non darebbe. Occorre scavare incessantemente, per soddisfare le richieste dell’uomo, che dimenticala provenienza di ciò che chiede.

L’uomo come un tarlo, un verme, che non si arrende, che scava, scava, e fa crollare montagne, piccolo animale cui non daresti due soldi, senza forza, resistenza, uno scricciolo della natura, ma con un cervello pericoloso davvero, un errore forse, ma enormi sono i danni che questo fragile vertebrato può infliggere al pianeta, alle sue vette che hanno conosciuto il vorticare del magma.

 

Quando vado a salutarli, c’è sempre un silenzio che ristora. Silent, quiescunt, c’è scritto sopra il grande cancello. Nonostante il mio peregrinare alla ricerca di grandi risposte, gli interrogativi si sono placati solo davanti al riconoscimento del mistero.

E lì il mistero si tocca, ma si intuisce anche qualcosa che sembra pace immensa, cibo per l’anima assetata, luce di una dimensione che non può essere cattiva. Anche guardando i loro occhi. Dalle foto sotto al plexiglas. Dal plexiglas attaccato al marmo.

Li guardo, i miei nonni, e parlo con loro. Continuo a farlo mentre pulisco le lapidi con un cencio, raccontando ciò che loro già sanno. Le venature grigie e nere si confondono con le tracce della polvere che l’acqua non riesce a cancellare del tutto.

Essi mi parlano insistentemente.

Non sono parole “che dici umane”, escono dalla “maglia rotta nella rete”, è una fonte di acqua chiara, chiarissima quasi folgorante.

Pare che i loro sorrisi tenui si espandano insieme a questa dolce comunicazione silente. Io racconto loro quello che già sanno, querelandomi per la cecità che avuto quando erano qui e che ora, radicata ancora nell’umano, potrei avere verso altri, indubbiamente verso me stessa.

Loro sono sempre accoglienti.

Intorno, tutto è marmo.

Solo qui, solo ora, percepisco questo nesso stretto, cementato, fra il marmo e la morte, l’eternità, il mistero…

 

Sapevo che questo improvviso viaggio nelle Apuane sarebbe stato un itinerario nelle profondità dell’anima. Come lo è sempre stata la montagna. Ma qui c’è la luce che ti denuda senza preavviso. E cammino verso la cava nuova, sono piccola in mezzo alle esplosioni che mi rigurgitano addosso, ogni curva mi promette l’arrivo, ma ogni curva mi dice poi che è ancora lontano.

Certo non mi posso fermare ora.

Raccolgo un ciottolo bianco. Lo fotografo in contro-luce. Fotografo le mie scarpe.

All’intorno non c’è uno stelo.

Il marmo è nudo perché non vi cresce nulla.

Ma cosa cresce nell’anima?

A questa domanda ha dedicato la vita un eremita salito quassù una manciata di secolo fa, indisturbato nel suo fecondo silenzio. Qui dove ora sventrano la valle.

 

Fu il marmo delle guance di Olga Franzoni, della sua fronte diventata gelo, che rimase incarnato nell’intimo del poeta. Solenne. Più inciso delle “carnagioni giovani”, dei puledri che sudano, dei balli sensuali. Olga Franzoni sarà marmo per l’eternità, anziché sua sposa. Le carnagioni giovani sono molto più effimere…

Le maschere galanti di Verlaine si aggiravano (l’avresti detto?) fra i marmi, rigorosamente al chiaro di luna, solo alla luna si può fingere d’essere allegri e invece ti vorresti strappare la budella, il sole mica te lo permetterebbe. Chiaro di luna e indubbiamente di Saturno. Ma che fragile finzione, neppure lo stesse ci credono…

E’ ancora fra i marmi di S. Reparata, grandi archi silenziosi, che salta Cavalcanti, agile e sicuro, lanciando parole lapidarie ai suoi nemici, che lo scherniscono per la sua solitaria ricerca della verità.

-Fate pure, potete fare quello che volete, siete a casa vostra…

La vostra naturale dimora è proprio qui, in mezzo al marmo, miei cari, fra le lapidi, perché voi in realtà siete già morti, perché non avete mai né conosciuto né ricercato la profondità della vita, ma solo la sua superficialità schiamazzante…

 

…Sul salto di Guido si ferma il mio volo, dopo l’ultimo tornante.

Davanti a me c’è un monte fatto di pezzi di marmo di ogni dimensione. Assomiglia a una piramide. Il sole del tramonto lo colpisce così vivo che gli occhi si devono proteggere. E’ altissimo, fatto di blocchi, scaglie, frammenti pulviscolo.

Più mi avvicino più le scarpe affondano nelle polvere di finissimo cristallo con scricchiolii secchi e asciutti.

Le mie scarpe sono bianche.

Sono arrivata nelle viscere della cava nuova, quella che osa incunearsi nella montagna, frantumarla, estorcerle le budella. Davanti alla piramide smagliante c’è un anfiteatro per giganti. Ma i giganti hanno abdicato. Insieme al sole è calato il silenzio. E le mie scarpe sono sempre più bianche.

Mi pare che non abbiano la minima intenzione di fermarsi.

E’ vero, niente è lontano. Dopo il marmo, che cosa c’è?

In realtà questo è un viaggio che non finirà mai.

 

 

Loading

2 commenti »

  1. Ottimo racconto con riferimenti culturali e tentativi di analisi e introspezioni. L’autrice ha ottime capacità letterarie e può dedicarsi tranquillamente al romanzo.

  2. Sembra proprio che da questo infinito viaggio nasce questo bel racconto. Brava complimenti.

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.