Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Al Pacino ballava il tango” di Gianni Cesari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

 Al Pacino ballava il tango, nel remake di un film di Scola con Vittorio Gassman. Ballava il tango pur essendo cieco, volteggiando leggero, come su un cuscino d’aria, stringendo come un fuscello la flebile partner, esile  e slanciata, al suono discreto di un’orchestrina argentina, violino, violoncello,clarino, chitarra e bandoneon. Ballava un tango di Gardèl, in modo dolente e disperato, con grazia ed eleganza,evitando gli ostacoli come se li vedesse, anche se nella finzione era un colonnello dell’esercito americano, già  membro dello staff del presidente Johnson,  che aveva perso la vista in un incidente.

 

La Tv trasmetteva quelle immagini, ipnotiche per lui, che aveva fatto un viaggio di dieci ore per arrivare, al termine della sua personale discesa agli inferi, in quella sudicia locanda di Caracas, pochi chilometri dopo l’aeroporto, dove gli era stato detto che avrebbe dovuto aspettare l’uomo dello “Zu Santo”, il capo bastone calabrese che reggeva il clan col quale, per soddisfare il proprio vizio, aveva dovuto scendere a patti, prestandosi a quel lavoro.

 

Era partito da Milano il giorno prima con un volo Alitalia per Miami, sola andata, in coincidenza con un low cost argentino per la capitale della repubblica Bolivariana, come l’ha ribattezzata Chavez, dove avrebbe dovuto raggiungere quello che pomposamente, nel bigliettino lasciatogli  nella tasca del parasole del Cayenne, dagli uomini del “Don”, veniva definito “Hotel”. Nella busta aveva trovato oltre al biglietto aereo,  il biglietto da visita con l’indirizzo dove andare e un numero telefonico scritto dietro, seimila dollari e un passaporto americano, con la sua foto sopra,  richiestagli solo quarantott’ore prima, con la raccomandazione di  farsela in giacca e cravatta, in una delle macchinette della stazione centrale.

 

Non gli avevano dato istruzioni, sapeva che se voleva continuare a vivere avrebbe dovuto, senza far domande e senza discutere, limitarsi a seguire, passivamente, le linee di condotta dettategli, per vie di fatto, dalle cose che avrebbe trovato nella busta. Alla consegna delle foto gli avevano detto di aspettare almeno 24 ore prima di telefonare, intimandogli di non dire niente a nessuno del suo viaggio. Ne sarebbe andato della vita dei suoi figli.

 

Così quel tango, tanto irreale quanto vero, lo teneva vivo, affascinandolo, dopo che in una  rapida passata di zapping aveva saltato CNN,  Al Jazeera, tre telenovelas, due canali di musica latina, una rete porno con negre che si accoppiavano con bianchi fermandosi, folgorato dal ricordo, alla scena del tango. Al Pacino non aveva la voce appuntita di Giannini, ma una sorta di untuoso birignao spagnolesco, che non rendeva onore alla grandezza e tragicità omerica del personaggio. Finito il tango,  mentre la ballerina riaccompagnava al tavolo Al Pacino, si appisolò stroncato dal jet lag.

 

Il campanello dello studio dentistico suonava e suonava, le vecchie con gli appuntamenti fissati per il controllo della protesi si lamentavano  ciarlando tra loro, accusandolo di  scarsa professionalità e di altrettanto scarsa voglia di lavorare, con tutto quello che gli pagavano. La segretaria part time che, in nero, aveva assunto perché gli regolasse la vita, lo cercò sia sul cellulare, irrimediabilmente muto, sia presso il monolocale che aveva  affittato in un residence, pagando un anno anticipato, da che la moglie gli aveva fatto trovare le valigie sul pianerottolo, dopo avergli sfarinato, per l’ultima volta, nel water, 80 grammi di boliviana rosa, rimasti impagati al pusher tunisino che aveva puntualmente riferito al grossista calabrese, detentore della piazza dove abitualmente si riforniva.

 

Lo avevano atteso fuori studio e, con modi garbati e convincenti, gli avevano illustrato, senza omettere nessun particolare, cosa avrebbero fatto ai suoi bambini se non avesse colmato la voragine di debiti che aveva accumulato con Samir e di conseguenza con il soldato di “Zu Santo” che controllava la piazza.

 

Né la vendita del Cayenne, né lo svuotamento del conto corrente , peraltro già definitivamente saccheggiato dalla moglie, cointestataria, all’atto della sua espulsione dalle mura domestiche, avrebbero alleggerito di molto la sua posizione. Uguale esito avrebbe avuto una richiesta di prestito a usura visto che pure quelli erano gente di Don Santino. Non gli restava che prestarsi al gioco senza pensare, nella speranza che quell’incubo finisse subito. Aveva giurato e spergiurato a se stesso che mai più avrebbe toccato un grammo, di niente, nemmeno della lidocaina che usava come anestetico ( e taglio) in studio. Ma le belle promesse non duravano che lo spazio di un pomeriggio, fino quando i morsi dell’astinenza non lo spingevano per parchi, piazze e giardini alla disperata ricerca di un “tiro”, ricerca che durava tutta la notte. Poi erano arrivati i calabresi che, con metodi loro, in due giorni, lo avevano disintossicato giusto per il tempo del viaggio, mostrandogli di quando in quando le foto dei figli.

 

Al risveglio chiamò il lercio bancone,  posto all’ingresso del fabbricato di mattoni grezzi, che un cartello, bellamente punteggiato da escrementi di moscone, definiva “receptiòn”, dettando al portiere il numero di cellulare scritto dietro il bigliettino da visita trovato nella busta.

 

Dopo alcuni squilli una voce roca e sensuale lo chiamò per nome. Restò in silenzio per un istante, riflettendo su come quella voce poteva conoscere il  suo nome. La voce pronunciò lentamente, scandendolo, in italiano perfetto, senza accento sudamericano, per due volte, il suo nome.

 

         Si, sono io.

 

Gli fu detto che l’indomani mattina avrebbe dovuto prendere un taxi, che lo avrebbe condotto all’indirizzo che la voce, senza flessioni di tono, asetticamente gli dettò.

 

A gesti, fece venire un taxi al cui conducente allungò il foglietto con le indicazioni dettategli  la sera prima sul posto dove doveva andare e un biglietto da 20 dollari.

 

L’auto lo lasciò in quartiere residenziale, che identificò come un “zona delle ambasciate”, visto che davanti a diverse villette e palazzine , tutte cinte da alti muri di cemento protetti da offendicoli e telecamere, erano esposte le bandiere di svariati paesi europei di secondo piano. Riconobbe la bandiera della Romania e quella della Lettonia. Davanti alla sua villa c’era un portone  di metallo, dipinto di verde scuro, protetto da due web cam. Non appena si avvicinò al citofono la porta si aprì da sola, senza che lui suonasse  o che avesse il tempo di leggere il nome indicato sulla targhetta.

 

Guardandosi attorno percorse il vialetto alberato che conduceva alla casa, un fabbricato a tetti spioventi intersecati tra loro, dal vago sapore di architettura d’avanguardia, tutto vetrate e acciaio. Davanti alla porta trovò due corpulenti gorilla, dalla faccia india, coi nasi camusi, forse spaccati in qualche rissa, perfettamente rispondenti agli stereotipi di genere, catenone al collo, anelli in ogni dito, occhiali da sole, vistosi rigonfiamenti, nemmeno tanto occultati, sotto giacche  di lino scuro, leggerissime.

 

Venne diligentemente perquisito, con i pochi riguardi richiesti dal caso e successivamente introdotto in una living room che affacciava su una piscina ovale. Lo sedettero su un divano bianco e se ne andarono. Rimase ad osservare l’ambiente per un periodo che a lui sembrò interminabile,mentre l’aria condizionata principiava a congelarlo, risvegliandogli sopite artrosi, retaggio dell’afa da inquinamento che sommergeva Milano da maggio ad ottobre.

 Lo scosse un fruscio alle sue spalle. La voce, si era materializzata, altrettanto misteriosa e sensuale di quanto appariva al telefono, scendendo da un’ ampia scala a chiocciola bianca, incarnandosi in una svedese o una tedesca di ceppo svevo-normanno, ma avrebbe potuto essere benissimo siciliana, bionda, occhi verde azzurro, andatura felpata e atteggiamento di sfida verso il mondo. Conscia della sua bellezza dominava l’ambiente circostante come una tigre riconosce, segna e padroneggia il proprio territorio.

 

Lo squadrò, trovandolo umile nel suo completo Rinascente, con la cravatta allentata ed il collo sudato, che lasciava tracce nella parte posteriore della camicia, i capelli irsuti, profonde occhiaie su pupille dilatate dall’astinenza e dall’insonnia. Istintivamente si alzò ma la donna lo fece restare seduto spingendogli una mano sulla spalla e mantenendolo sprofondato nel divano. Si versò da bere, estraendo da un frigo bar una caraffa di banana daiquiri, che  rimestò per evitare che il ghiaccio tritato si condensasse in sgradevoli grumi.

 

Non gli rivolse la parola finché non si udì provenire dal vialetto d’ingresso il rumore di un fuoristrada, che si fermò davanti alla porta. Nessuno scese, nessuno entrò.

 

La donna gli chiese il passaporto americano e lo controllò, gli porse quindi, traendola da un mobile d’epoca, un busta. All’interno c’erano una prenotazione fatta via e-mail su un volo low cost per Miami ed un biglietto Iberia per Madrid, tutti intestati al nome americano scritto sul passaporto: Lee B. Johnson, che corrispondeva alla sua fotografia. A parte c’era un coupon per il noleggio di una utilitaria da ritirarsi a Madrid Barrajas,  riconsegna a Milano Linate, questi a nome suo. Volle vedere la sua patente italiana e gli diede una carta di credito, il cui numero era quello riportato sulla prenotazione.

 

Con voce resa ancor più profonda dalle lunghe sigarette di lusso che non aveva mai smesso di fumare da quando era apparsa, la bionda chiamò i due gorilla, con tono austero ed autorevole. Gli indios  introdussero un grosso trolley da 120 litri, che avevano scaricato dal fuoristrada. Lo lasciarono sul tappeto che ricopriva il pavimento di legno, subito dopo la porta d’ingresso.

 

         Questo è il motivo del tuo viaggio. Se la valigia arriva a Milano, ti dimenticherai di essere mai stato qui e noi spariremo dalla tua vita, fino alla prossima idiozia che commetterai. Se sfortunatamente qualcosa va storto, sai già che indipendentemente dal tuo arrivo ci sarà qualcuno di molto giovane che avrà dei problemi che né tu ne altri potrà più risolvere. Quando arrivi a Madrid, prima di ritirare la macchina, butta il passaporto. Quando sarai a Milano riconsegna la macchina, prendi un taxi, vai nel tuo monolocale, accendi il cellulare e aspetta. Ti troveranno loro.

 

Risalì frusciando, nell’abito rosso scollato sulla schiena e sul petto, la scala a chiocciola da cui era discesa mentre i gorilla lo sollevavano di peso, accompagnandolo al portone insieme al suo nuovo bagaglio.

 

Non appena il cancello verde si richiuse arrivò un taxi il cui autista gli spalancò lo sportello e ripose il trolley nel bagagliaio.

 

Salì nella stanza e si gettò sul letto, non senza aver fissato per un po’ il trolley. Due ore dopo, con due camicie nuove in una 24 ore dozzinale acquistata in un negozio cinese, si fece riportare all’aeroporto. Puntuale, il low cost partì alle dieci di sera. Miami, rutilante di luci, comparve tra le nuvole al di sotto del Tupolev nicaraguegno, sul quale non senza timori aveva  volato per quasi quattro ore.

 

Il 747 Iberia partiva alle 11, gli restava il tempo per fare colazione e un giretto nelle adiacenze dello scalo, tanto la valigia viaggiava sola, nessuno gliela avrebbe controllata, visto che  sarebbe stata imbarcata direttamente dal low cost all’aeromobile spagnolo, senza dogana, cani o altri controlli antiterrorismo, duri e frequenti negli USA dopo il 9/11.

 

Il tassista messicano era loquace e scanzonato, lo lasciò davanti al primo drug store che esponeva l’insegna della Winchester.

 

Nel suo essenziale inglese chiese di vedere le pistole, scegliendone due, di piccolo calibro, una 22 magnum Walther ppk e una 6.35 Beretta da borsetta, meno di mezzo chilo in tutto, munizioni comprese. Consegnò il passaporto per le annotazioni del negoziante e uscì, fino al negozio successivo che offriva alimentari e specialità dolciarie da spedire all’estero.

 

I biscotti della Virginia erano in una scatola di legno che sul coperchio presentava la scena della pace di Appomattox, quando il generale Lee consegna la spada, invitta, al rozzo Grant. Fece mentalmente l’equivalenza tra libbre e grammi, accertando che all’interno c’era almeno un chilo e mezzo di dolcetti.

 

Con un nuovo taxi, uscendo dal bar dove aveva fatto colazione, trattenendosi nel bagno per  una rinfrescata e per confezionare il pacchetto, raggiunse la sede della Fedex, dove spedì i biscotti, mittente L.B. Johnson, alla portineria del residence di Milano, indicando espressamente l’appartamento 14, quello che aveva affittato dopo che l’avevano cacciato di casa. L’impiegata precisò che in due giorni il pacco sarebbe giunto a destinazione.

 

Passati i rigidi controlli di polizia, aprendo volentieri la 24 ore alla US Customs cui aveva mostrato il passaporto, si apprestò all’imbarco. Non si accorse nemmeno del decollo, ritrovandosi ben sveglio e vigile all’atterraggio.

 

Quella era la fase più difficile: ritirare il bagaglio.

 

Nella toilette dell’aereo, un’ora prima di atterrare, si era rinfrescato, cambiandosi la camicia, lavandosi i denti e bagnando i capelli , che portava tirati all’indietro, lasciando spazio all’ampia fronte.

 

Allo sbarco si sentiva sicuro, con l’aspetto di un quieto uomo d’affari. Per darsi un tono aveva comprato il Financial Times e Fortune, che portava, ben visibili, con la testata rivolta all’esterno, nella tasca destra della giacca.

 

In cuor suo sperava che il trolley uscisse per primo, per poter guadagnare di corsa l’uscita, ma l’idea gli si ghiacciò nel cervello non appena vide il vispo cane della Duanera, la vigilanza doganale spagnola, saltellare  sul nastro con vivacità, aizzato dal conduttore, odorando voracemente tutti i bagagli che uscivano.

 

Proprio mentre dalle fauci del nastro trasportatore, preceduto da un tonfo sordo, indicativo dello scarico da parte del facchino dal rimorchio al meccanismo di riconsegna, stava per uscire il trolley, il doganiere si rivolse  ad una colombiana grassa, che  salendo a bordo a Miami gli era sembrata troppo profumata, sedutasi poi verso il fondo dell’aereo, che il cane aveva quasi azzannata, quando si era avvicinata ad un borsone da cui emanava il suo stesso, mediocre, profumo.

 

I doganieri, raggiunto il collega, stavano portando la donna in ufficio, quando il trolley fece capolino dalla bocca del nastro. Si guardò rapidamente attorno, scorgendo il cinofilo che si affannava, davanti alla stanza dov’era stata fatta entrare la grassona, per strappare un manicotto bianco al cane, sommergendolo con  esagerati complimenti, abbracciandolo con entusiasmo.

 

Si era guadagnato l’uscita, proprio mentre il cane risaliva sul nastro.

 

         Non lo butto il passaporto. Non butto niente. Sono Mr. Lee B. Johnson e ho preso in giro  americani e spagnoli. Non lo butto.

 

Ritirata che ebbe l’utilitaria giapponese dall’autonoleggio caricò  il trolley nel bagagliaio, acquistò una cartina autostradale della Spagna e partì. Poteva valicare i Pirenei, sconfinando a Montpellier e passare attraverso la Francia e il Frejus oppure passare a Ventimiglia, fermandosi a Menton per ripulirsi.

 

Durante il viaggio ripassava mentalmente  quanto gli era capitato sino ad allora, aggrappandosi a lontane reminescenze di medicina legale.

 

         I colpi di piccolo calibro raramente uccidono subito, entrano ma non escono, causando emorragie dolorosissime. Possono essere letali a distanza ravvicinata, 30/70 centimetri. Per immobilizzare la vittima bisogna prima provocare un infarto e poi mirare alla testa.

 

A voce alta ripeteva le fasi del suo rientro, studiando la posizione che avrebbe assunto, cercando il posto migliore per appoggiare il trolley. Senza sbagliare, senza fretta.

 

A Nizza, sfinito dalla stanchezza, fece sosta. Un mesto Holyday Inn, nel cui garage ricoverò la vettura, senza scaricare il trolley. Doveva far passare un giorno, prima che arrivassero i biscotti.

 

Dopo la doccia e la barba, indossò il vestito comprato al Corte Inglès, fuori Madrid, con la cravatta regimental sulla camicia button down. Prese poi,da un’edicola, il Sole 24 ore e il Wall Street Journal. Prima di ripartire aveva lasciato detto al custode di lavargli e lucidargli la macchina.

 

Doppio posto di blocco, a Ventimiglia, Gendarmeria dal lato francese e Finanza da quello italiano. I francesi lo fecero passare e gli italiani no . Il panciuto brigadiere che si avvicinò, accennando un saluto poco marziale, facendo perno sul  cinturone che lo immobilizzava dentro una giacca a vento troppo stretta e scomoda, che lo faceva sudare, gli chiese bofonchiando  in siculo campano, condito da qualche espressione in italiano, come di consueto, patente e libretto. Ebbe prima la patente ma, alla vista del tesserino dell’ordine degli odontoiatri di Milano, rispettosamente si ritrasse, lasciandolo passare.

 

         Vi siete divertito al convegno, dottore? Com’erano le hostess ? Meno male che piangete miseria, voi dentisti, mai che i colleghi della tributaria vi facciano una visitina eh ? Vada , vada pure dottò e…Buon Viaggio.

 

Era in un bagno di sudore. Incapace di muoversi e reagire, le braccia stese, le mani sudate, avvinghiate al volante, si schermì, ingranò la marcia e, con una leggera sgommata imboccò per Milano.

 

Doveva fare in tempo a passare da casa, dopo aver lasciato la macchina in un parcheggio a pagamento coperto. Entrò, verso sera. Avvedendosi del suo arrivo, dal bancone della portineria il riservato pakistano, che stava per smontare, estrasse un pacchetto confezionato in una busta Fedex, proveniente da Miami, consegnandoglielo senza fare domande. Da un lato risultava effettuata l’ispezione doganale, con esito regolare.

 

Il monolocale era quello tipico degli scapoli e separati, divano letto da una parte, tv al plasma  al di sopra del tavolo che poggiava  contro la parete opposta al divano. Seduto al centro del divano, a meno di due metri dal tavolo, scartò avidamente il pacco. Le pistole erano lì, intatte, sotto uno strato di biscotti.

 

Scarrellò  un colpo di prova per ogni arma, inserì i caricatori, abbatté il cane accompagnandolo col pollice, delicatamente , tolse la sicura e le nascose,pronte a far fuoco, a destra e a sinistra dei braccioli interni, nell’intercapedine creata dai cuscini. Prese il pacco dei biscotti, spense la luce e se ne andò.

 

I biscotti erano finiti in un cassonetto e lui viaggiava verso la riconsegna dell’utilitaria in aeroporto. Resa la vettura, ben sapendo che con ogni probabilità il parcheggiatore della società era un uomo dei calabresi, prese il trolley, chiamò un taxi e rientrò a casa.

 

Accese la tv a volume medio alto e attivò il cellulare, come gli aveva suggerito di fare la bionda.

 

Passò mezz’ora e la voce lamentosa e monotona di Samìr lo raggiunse, identificativo sconosciuto,da una cabina.

 

         Bravo amico! Sei gia a nanna? Non dormire che mamma  viene a darti la buona notte e a ritirare le sue cose.

 

Il videocitofono emise un sibilo: si alzò e controllò il monitor. Come previsto erano in due. Riconobbe il tunisino e, mentre spingeva il portone, notò nell’immagine sgranata, che l’altro si sistemava, sotto il giubbotto di renna, un grossa pistola, di quelle da poliziotti, con all’estremità  della canna un tubo cilindrico, che qualificò come un silenziatore.

 

Li aspettava sulla porta. Una volta entrati lo perquisirono sommariamente.

 

         Siediti lì e stai buono, ce ne andiamo subito.

 

Il Nordafricano estrasse un taglierino affilatissimo e si avvicinò al trolley che il calabrese stava già forzando con un coltello a serramanico, sopraffatti dalla curiosità, incuranti di lui, che ritenevano un ebete, perché quello era in quel momento il suo aspetto, seduto a capo chino al centro del divano, con le gambe divaricate e le mani infilate ai lati, nei cuscini.

 

Aprivano buttando a terra il vestiti da uomo, dozzinali, acquistati apposta per dissimulare il carico, sogghignando e passandosi amichevoli gomitate sui fianchi.

 

Era in piedi, a mezzo metro da loro. Quando in TV passano gli spot il volume viene aumentato. Non aveva nemmeno bisogno di mirare. Due colpi al moro e due al calabrese, poco più sotto della scapola sinistra. Vomitarono sangue, tutti e due, mentre i proiettili spaccavano coronarie e aorta. Si girarono. Tre colpi in testa ciascuno e stramazzarono riversi, fulminati, uno a terra e uno per metà dentro il trolley.

 

Nonostante la distanza ravvicinata non si era sporcato. Raccolse tutti i bossoli. Prese due pacchi dal doppiofondo e li ficcò nel cappotto, indossato in fretta prima di uscire. Chiuse il portoncino blindato e inserì l’antifurto.

 

Trovò il Cayenne dove lo aveva lasciato cinque giorni prima, con una vistosa ammaccatura sul lato sinistro e un foglietto sul parabrezza. Era della moglie, lo avvisava che era coi bambini sul Lago di Lugano, a casa del notaio elvetico che  da tempo le faceva la corte e non aveva perso tempo alla notizia della separazione.

 

Da una cabina la chiamò,  intimandole di non tornare a casa, di buttare i cellulari e di non dire a nessuno, per un mese, dove si trovava, ne andava della vita dei figli. Il perché lo avrebbe letto l’indomani, sui giornali.

 

Prese l’autostrada in direzione di Roma, era ancora Mr.Johnson, poteva tornare in America e sparire per sempre. In ogni piazzola buttò un pezzo di pistola, poi i caricatori infine,col finestrino aperto, cavandoli dalla tasca, a 160 all’ora, i bossoli. Il fuoristrada fendeva il mare artico della nebbia come un rompighiaccio. Gli occhi gli si chiudevano, sudava freddo, la lingua gli bruciava, sentiva ondate di sonno e calore e brividi assalirlo, guidava nella paura.

 

 Al Pacino ballava il tango, con la bionda di Caracas.

 

 

<< R E W I N D

 

Era in piedi, a mezzo metro da loro. Quando in TV passano gli spot il volume viene aumentato. Non aveva nemmeno bisogno di mirare. Due colpi al moro e due al calabrese, poco più sotto della scapola sinistra. Vomitarono sangue, tutti e due, mentre i proiettili spaccavano coronarie e aorta. Si girarono. Tre colpi in testa ciascuno e stramazzarono riversi, fulminati, uno a terra e uno per metà dentro il trolley.

 

Nonostante la distanza ravvicinata non si era sporcato. Raccolse tutti i bossoli. Prese due pacchi dal doppiofondo e li aprì.

 

Non credeva ai suoi occhi : aveva appena ammazzato a sangue freddo due esseri umani per una manciata di peperoncino. Pregiatissimo peperoncino del Mato Grosso, di cui solo un seme poteva perforare l’intestino se non immediatamente seguito da una cucchiaiata d’olio.

 

Il vecchio boss aveva un’azienda di essiccazione del famoso “picadillo  di Roghudi”, varietà ionica selezionata, utilizzata dai più raffinati gourmet del mondo per insaporire le pietanze. Sempre alla ricerca di nuovi esotismi, il vecchio era entrato in contatto con esponenti di una ecomafia brasiliana, specializzata in smaltimento di scorie e tossici. Gli avevano proposto, per cinquemila euro l’oncia, dieci libbre di “platino verde”, raccolto nell’area protetta più vigilata del modo, dalle proprietà afrodisiache illimitate e dai potentissimi effetti allucinogeni. Per raccoglierle avevano sfidato rangers, cannibali, piranas e anaconde.

 

Ora stavano lì, sul suo tavolo, con quei due morti ammazzati accanto.

 

Volle testarlo. Prima però chiamò la polizia. Con la lama del taglierino ne ruppe un frammento millimetrico e lo appoggiò sulla punta della lingua.

 

Si sdraiò sul divano, togliendosi le scarpe, chiuse gli occhi pervaso da uno strano languore.

 

 Al Pacino ballava il tango. Con la bionda di Caracas.

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5 commenti »

  1. Ciao Gianni. Mi permetto di darti il mio modestissimo parere sul tuo racconto. Come dico a tutti, ti prego di prendere questo commento per quello che vale, cioé zero. 🙂
    Il racconto, seppure banale nella storia, mi è piaciuto. Hai ritmo e tensione, capacità di restituire immagini degli ambienti. La storia si intuisce quasi immediatamente, però le fasi sono tutte ricche di una suspence da racconto noir. Il breve spazio concesso ti ha fatto “accellerare” qualche vota troppo su situazioni che credo meritassero maggiore “gioco” e spazio. Per esempio all’arrivo in Spagna con la valigia. Però va tutto a tuo merito la capacità di appassionare narrando un’avventura non troppo originale. Credimi è difficile quanto e più di avere idee che realmente sorprendono. I mie complimenti.

    Devo aggiungere che il rewind non mi è piaciuto, il primo finale, con la fuga avvolta nel panico, è decisamente la degna conclusione.

    Ciao e buon lavoro.

    Simone

  2. ciao gianni, sono pienamente in sintonia con simone nell’aver apprezzato la tua capacità di caratterizzare gli ambienti e l’azione quasi da sceneggiatura alla tarantino ( che mi piace tanto!) che hai impresso al tuo racconto, ma per questo non mi convince come storia, nel senso che mi sembra un fumettone- per carità senza nulla togliere alla bellezza di certi fumetti!- e la storia per quanto raccontata con ritmo ha un sapore molto poco credibile. La scena della bionda mi ha ricordato molto Scarface, hai presente ? Credo tu sia portato per le sceneggiature.Mi ha disturbata la velocità con cui immetti personaggi, tanti e fai succedere azioni, senza un’adeguata preparazione del lettore, ma può darsi che sia una mia personale esigenza.Credo che nonostante tu abbia una originale capacità di raccontare liquidi le sensazioni troppo in fretta, come se volessi liberartene, io proverei a restare dentro le storie un pò più a lungo.Ti mando un grande in bocca al lupo e naturalmente se hai ancora bossoli in quelle pistole le puoi usare sul mio racconto! :-)))
    Saluti Francesca

  3. Concordo.
    Hai il ritmo, come dimostrato in un recente passato. Il ritmo da romanzo. Lo ammetto, detesto i racconti, sono la tomba dello scrittore, lo limitano, soprattutto quando in possesso di indubbie capacità. Come le tue.

  4. ho un nuovo racconto sul premio.mi piacerebbe avere la tua opinione. ciao. gianni

  5. Per me è comunque un ottimo esperimento…le capacità ci sono tutte! In bocca al lupo!

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