Racconti nella Rete 2009 “Diario” di Gabriele di Ciriaco
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Il 28 giugno 19.. è una data da ricordare.
Ho passato un’ora intensa a casa del poeta Carlo Betocchi.
“ Pronto! Casa Betocchi? Vorrei parlare con il signor Carlo! “…
Tutto ebbe inizio quella mattina all’Accademia di Belle Arti, durante l’esame di pedagogia; non avevo le idee chiare sul trattamento psicologico degli infanti, ma notai due giorni prima ad una mostra del pittore Ottone Rosai uno schizzo a matita della professoressa in questione. Decisi, che ad analizzare sarebbero state alcune poesie, che mi portavo sempre appresso.
Il poeta e drammaturgo tedesco Friedrich Hebbel scrisse nei suoi diari che: – nei poeti sognano i popoli. – Questa volta era il poeta che voleva che s’interpretassero i propri.
Entrare nell’argomento non fu cosa difficile, se mai lo fu il trattenere l’esuberanza, da principianti, tipica di chi non accetta, consigli da chi che sia.
La professoressa, lesse qualche rigo. Sfogliò gli altri. Volse altrove lo sguardo e per tutta risposta, con voce suadente, inizió a parlare della sua infanzia, del difficile inserimento nelle correnti artistiche Fiorentine del dopoguerra, delle amicizie con gli intellettuali, le discussioni, gli incontri, gli amori, i sogni… d’improvviso tacque, riprese i fogli, rilesse qualche altro rigo, dovevano essere ricordi intensi quelli che, per un attimo, s’intravidero rincorrersi tra le rughe plasmando quel volto così gioviale ed allegro, in misteriosi immensi. Poi ritornò a noi, per informarmi dispiaciuta che non mi avrebbe in alcun modo potuto aiutare.
– “ D’altro canto… “ – Disse con enfatica spontaneità, parlando di due suoi carissimi amici, che nel campo della poetica, hanno lasciato ed ancor oggi, orme indelebili.
“ … uno è Mario Luzi e l’altro, Carlo Betocchi. Loro possono darle certamente consigli utilissimi. Ci vada a mio nome. Vedrà che la riceveranno sicuramente! “ –
Ringraziai, promettendole di informarla su eventuali sviluppi. Mi accomiatò con un delicato sorriso. Mia madre mi diceva sovente che tutti sorrisi hanno un loro linguaggio: alcuni sono di facile interpretazione, altri invece, bisogna pensarci qualche attimo di più per riuscire a capirli; infine ci sono quelli speciali che appena si notano, che si percepiscono soltanto, ma quando arrivano a destinazione lasciano fuoriuscire traboccanti emozioni. Quello della professoressa era uno di quelli che ti fanno credere e che ti danno forza.
Senza pensarci più di tanto, telefonai a casa Luzi. Nessuno rispose, così per l’intera giornata. Verso sera, affaticato e deluso, decisi, con la speranza d’aver più successo, questa volta; di telefonare al poeta:
– “ Pronto! Casa Betocchi… telefono-da-parte-di-una-sua – carissima-amica-professoressa-di-pedagogia-all’Accademia-di-Belle-Arti.- Potrei-avere-un-appuntamento-con-lei-a-casa-sua-stasera! “ – Bofonchiai di un fiato, per paura d’essere interrotto.
M’aspettai un cordiale ma netto rifiuto, oppure una risposta sui generi, evasiva, che non offende, ma che marca le distanze. Non fece nulla di tutto ciò, togliendomi dall’imbarazzo di dover con pena inventare qualcosa di convincente.
– “ Adesso… non so se potrò riceverla… “ – Ribatté esitante la voce dall’altro capo. Poi, dopo un attimo di pausa si lasciò convincere da quel mio silenzio da preghiera.
– “ Va bene, anche se é tardi…diciamo fra mezz’ora. Puntuale perché alle dieci, categoricamente vado a letto! “ –
– “ Io… certamente. Sarò puntualissimo. “ –
Posai trepidante la cornetta del telefono. Mi assicurai di avere appresso le poesie e mi avviai con indescrivibile gioia sul posto.
Avrei voluto gridarla ai quattro venti, questa mia felicità, baciare tutte le persone che incontravo. Abbracciarle ed informarle su quell’importante appuntamento, cui mi stavo precipitando: tra le braccia rassicuranti d’un attimo di cultura. Ci sono degli inconsci momenti, che riescono ad evadere normali situazioni, innalzandosi evanescenti, sopra a qualsiasi realtá; divenendo indefinibili eufemismi difficili da esplicare. Quelli che mi stavano accompagnando, senza dubbio, lo erano. Sognavo di arrampicarmi, con disinvolta leggerezza, nella parete più impervia di quell’irraggiungibile montagna della sapienza, incurante dei pericoli e delle difficoltá che avrebbero potuto ostacolarne l’ascesa: la non sperimentata paura dell’altitudine, e la magnificenza d’osservare immensi attimi di storia in quell’abbraccio all’infinito, senza capogiri ed incertezze, bensì con armonica disinvoltura, una volta arrivato sulla cima… fino a che non mi distolse l’assordante rumore del clacson e le nostromiche grida dell’automobilista che mi sollecitava a togliermi dal mezzo della strada. Ero in Borgo Pinti.
Suonai il campanello del portone da basso, entrai nell’atrio ed alzai lo sguardo in direzione della voce che mi pregava di raggiungerlo nei piani superiori. Salii velocemente i gradini di quel vecchio stabile dalle enormi rampe di scale. La voce che m’invitava, si materializzò nelle fattezze di un simpatico, cordiale signore di oltre settanta anni che attendeva davanti l’uscio dell’appartamento. Mi fece entrare facendomi accomodare nello studio, dove vi erano un’infinità di libri, da ogni parte: gli scaffali a muro che coprivano le pareti, n’erano colmi, e non solo quelli. Il mobilio che l’arredava, non molto in verità, sommerso da un’infinità di pesanti tomi, sembravano fossero delle anomale masse che disturbavano l’interno e sottraevano posto ad altri libri.
Nel domandarmi cosa, e se desideravo bere, mi chiese, questa volta, il motivo della visita.
– “ Sono colui che le ha telefonato poco fa! “ – Riuscii a farfugliare nel sorseggiare la bevanda che aveva preparato: uno sciroppo di menta con cubetti di ghiaccio, che mi riportò un pochino indietro nel tempo, quando mia madre, nelle giornate particolarmente fredde d’inverno ce la preparava dentro grandi bicchieri, ornandoli con un’infinità di ghiaccioli che staccava dalla grondaia. Ci azzuffavamo sempre: mio fratello ed io per accaparrarci quello più colmo di appuntite frecce d’acqua congelata.
Si rimase qualche attimo in silenzio, solo il soffuso e perpetuo ticchettio di un vecchio pendolo, nascosto dietro una delle tante pile di libri e riviste, s’udiva. Sicuramente abitava solitario da molto tempo quest’appartamento, grande, dalle pareti tirate su con materiale di reminescenze, illusioni, voci, luci, cimeli, forse più reliquie, di un’esistenza, rimasta concreta di ricordi, divenuti con il tempo rifugio per quelle abitudini, o manie, da anacoreta, cui venivano a stagliarsi soltanto le ombre dei libri, posti uno sopra all’altro, come catafalchi a discernere le immagini delle parole che li abitavano. Un rifugio senza pretese. Il suo rifugio dove ascoltare e creare, più che abitarci. La realtà scaturisce sempre dall’esperienza, che nel dimostrarla, si cambia sovente in epopeici racconti, e quell’arzillo vecchietto che mi sedeva accanto, stava divenendo parte della mia realtà.
– “ Sicuramente ti porti dietro una silloge che vorresti farmi leggere! “ Disse tendendo tremolante l’affusolata mano, prima di sedersi accanto. Trassi dalla tasca interna della giacca le poesie, e nel porgergliele iniziai a giustificare questa mia improvvisa intrusione. Ricordava, con affetto, la professoressa.
Prese la busta, mi fissò per un attimo, poi senza proferir parola, la depose, nell’unico spazio libero sopra il tavolino, si alzò e scomparve qualche minuto in un’altra stanza per ricomparire, tenendo tra le mani, come una reliquia, un Tomo rilegato in pelle color Magenta. Doveva essere qualcosa di speciale, per il modo in cui se lo coccolava, accarezzandolo di volta in volta.
– “ Raccontami qualcosa di te! “ – Solo questo disse, sollevando con armonia la mano dal libro, come a dirigere la musicalità della mia voce. Quel gesto, così confidenziale, in intimità, invogliò la mia eloquenza. L’informai sulla provenienza, sull’infanzia, gli studi, gli ideali, il futuro, senza tralasciare nulla, con pathos.
Ascoltò con attenzione questo mio incontrollato e nervoso modo di muovermi, senza interrompermi, per un bel pezzo. Prendendo poi a balzo alcune argute osservazioni, scivolò con suadente voce nella sua più che interessante vita.
Persone e situazioni rianimate da quelle parole, cosí vive, da poterle addirittura osservare muoversi con disinvoltura, protagoniste, in quella flora cartacea, sfogliando con delicatezza pagine dei libri accatastati, cogliere, qua e là citazioni, aneddoti, confrontarsi e svanire, ritornare emotive, sotto forma di ricordi, con ritmica musicalità, alla sorgente del loro esser divenute.
Il tempo sembrò trasformarsi, come una molla deformarsi, comprimersi e ed allungarsi sotto il peso di quell’esatta simmetria d’idiomi, per ritornare lo stesso, una volta che subentrava il silenzio.
Centellinai gluttuando rumorosamente, qualche sorso ancora; posai il bicchiere sul ripiano del tavolo, solo allora, aprì il libro, domandandomi, senza affondare i colpi.
“ Conosci il Leopardi? “ Disse guardandomi diretto al cuore.
Risposi con trionfale affermazione. Ripeté ancora la domanda, marcandone gli aspetti. “ È una vita che lo leggo e lo rileggo eppure, tutte le volte, riesce sempre a sorprendermi, soprattutto le Operette Morali. “
Disse nello sfogliarne le pagine.
“ … Il PARINI OVVERO DELLA GLORIA… “
Non li lesse tutti, sono dodici capitoli e sarebbe stato troppo lungo. Solo qualche brano del primo, come prologo.
“ Tu cerchi, o figliuolo quella gloria che sola si può dire, di tutte le altre… Giá primieramente non ignori che questa gloria, con tutto che dai nostri sommi antenati non fosse negletta, fu peró tenuta in piccolo conto per comparazione alle altre… “
Per proseguire, poi, con altri a seguire, che carpiva di capitolo in capitolo.
“ … Potrei per principio distendermi sopra le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialitá, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua reputazione, e gli altri infiniti ostacoli che la malignitá degli uomini…” ( Capitolo secondo ).
“ … Non è dubbio alcuno, che gli scritti eloquenti o poetici, di qualsivoglia sorta, non tanto si giudicano dalle loro qualitá in se medesime, quanto dall’effetto che essi fanno nell’animo di chi legge. In modo che il lettore nel farne giudizio, li considera piú, per cosí dire, in sé proprio, che in loro stessi… ( Capitolo terzo ).
Fino a che, come in ogni tragedia, non si arrivó all’epilogo.
“ … Forse in ultimo luogo ricercherai d’intendere il mio parere e consiglio espresso, se a te, per tuo meglio, si convenga più di proseguire o di omettere il cammino di questa gloria… Dirò brevemente… il mio parere. Io stimo cotesta tua maravigliosa acutezza … cotesta nobiltà, saldezza e fecondità di cuore e d’immaginativa … Ma il nostro fato… è da seguire con animo forte e grande; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtù, e di quelli che ti somigliano… “
Poi con mesto passo uscì di scena scomparendo nell’altra stanza, come un consumato attore, svanire nel retroscena.
Non vi furono applausi, solo il tenuo rumore della porta d’ingresso che si chiudeva con travaglio dietro di me.
Un vento fastidioso percorreva la città. Nel sistemarmi il bavero della giacca ripensai ai tempi passati dei primi anni di scuola, all’esuberante professoressa d’italiano, dai biondi capelli e le gonne succinte, al Leopardi dei CANTI che dovevamo citare a memoria. Ne assegnava ad ognuno della classe che si doveva, per cosí dire, adottare, e sovente convenire. Scelse per me:
LA FEUILLE
Lungi, dal proprio ramo,
Povera foglia frale,
Dove vai tu? – Dal faggio
Là dov’io nacqui, mi divise il vento…