Premio Racconti nella Rete 2012 “La scadenza” di Brunella Monti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Anna arrivò a casa parecchio contrariata. Sull’autobus che la riportava a casa dopo il lavoro, era successo un fatto inaspettato. Quel balordo dell’autista ad un certo punto aveva fermato il veicolo lungo la strada e senza neppure degnarsi di fornire una qualsivoglia spiegazione ai passeggeri, che pure avevano pagato il biglietto, si era allontanato di corsa. Non le aveva fatto certo piacere scarpinare sotto il sole ancora arroventato del pomeriggio. Si era nel pieno dell’estate e c’era voluta tutta una mezz’ora buona di patimento per arrivare alla fine a casa, rossa, stanca e scarmigliata. Anna era una donna di mezz’età, spigolosa, segaligna ed energica che viveva una vita tranquilla in una piccola cittadina di provincia nel nord. Aveva un marito: Paolo, cui la legava un solido rapporto di tiepido affetto e consolidata consuetudine e due figli Luca e Michele di quindici e undici anni, che crescevano forti e robusti. Aveva anche un lavoro, che non le piaceva molto, ma era ragionevolmente sicuro, poche fidate amicizie e una scarsa vita sociale. Fino alle 18.44 di quel formidabile pomeriggio d’estate la vita si era svolta inevitabile e sonnacchiosa come sempre e tutto sembrava procedere normalmente. Ma quella volta, a scombinare la quotidianità di Anna sarebbe arrivato un fatto straordinario, che avrebbe rivoluzionato da quel momento in poi e per sempre la sua realtà introducendo un elemento d’imprevedibilità fantastica. Esattamente alle 18,45 di un mercoledì pomeriggio, Anna cominciò a vomitare parole. Un attimo prima stava serenamente preparando la cena, sgranando i piselli in cucina, un attimo dopo sentì sgorgare dalla gola un fiotto inarrestabile di parole. Le riempivano la bocca, spesse qualche millimetro, scritte in stampatello minuscolo, le spuntavano tra le labbra di un bel nero brillante e mentre uscivano, s’impigliavano tra di loro, emme con enne, erre con ti e si aggrovigliavano creandole ingorghi nella bocca. Lei si spaventò non poco di quello che le capitava, abbandonò i piselli e la cucina e si mosse in direzione del telefono ma non vi arrivò nemmeno … ben presto non ebbe più il tempo di fare nulla, se non favorire quel parto straordinario, estraendo essa stessa con le mani tutte quelle parole aggrovigliate. Parole lunghe, parole corte, parole bislacche che non si ricordava di avere mai saputo, e poi le parole di suo padre e quelle di sua madre, le parole che aveva letto e quelle che sognava di sentire, in un fluire continuo e inarrestabile. Quando alle 19.30 il marito rincasò, ebbe difficoltà ad aprire la porta di casa e dopo molta fatica gli si parò davanti uno spettacolo straordinario. L’ingresso, che era un tutt’uno con la sala ed il soggiorno, era completamente ingombro di lucidissime parole nere. Le montagne di parole avevano ormai raggiunto il metro d’altezza e coprivano quasi per intero i divani. Ora, qualunque altro uomo normale si sarebbe spaventato nel vedere la consorte impegnata in una simile produzione. Ma lui conosceva bene Anna, per averla studiata a fondo prima di sposarla, e sapeva che era una donna non comune, capace, per esempio, di arrotolare grossi boli di ripieno in piccolissimi involtini o di ricucire brutti strappi sui suoi pantaloni così bene che i pantaloni tornavano nuovi. Però era anche un uomo pratico e capì che non avrebbero potuto più sedersi se non avesse provveduto in qualche modo. Così andò in garage, dove teneva grossi scatoloni vuoti per ogni evenienza, ne prese un bel po’ e li portò in casa. Giunto in sala cominciò a raccogliere parole e a riempire scatole, e siccome era un uomo ordinato, iniziò a mettere insieme tutte le parole che cominciavano con la stessa lettera: ansimare, arpia, assetto, assillo, astuto ecc. E Anna rincuorata dall’atteggiamento razionale del marito si rinfrancò e iniziò a destinare ogni parola, man mano che le usciva dalla bocca, nel gruppo opportuno. Arrivarono i figli e cominciarono a collaborare pure loro, nemmeno troppo preoccupati, forse convinti che si trattava di un gioco, forse persuasi che gli adulti hanno le loro stranezze o forse soltanto assuefatti alle logiche astruse di troppi cartoni animati. Ma il gioco sembrava non voler finire mai. Michele, il figlio più piccolo, confuse l’ordine alfabetico un paio di volte, infilando a casaccio qualche parola che non conosceva negli scatoloni spalancati come bocche, ma nessuno se ne accorse; ormai tutti erano presi dalla necessità di finire velocemente il lavoro. Dopo parecchio tempo i ragazzi cedettero alla stanchezza. Michele, poggiò la testa sul bracciolo del divano ormai sgombro e lì si addormentò. Luca, il più grande, durò un po’ di più. Poi sparì. Anna capì che era andato a letto, per una volta senza protestare. Alla fine il fiume di parole si seccò. Erano quasi le tre quando Paolo, il marito di Anna, chiuse con nastro adesivo l’ultima scatola: zefiro, zanzara, zampillo, zuccone ecc. Le scatole, ordinatamente sovrapposte riempivano una parete. Anna guardò il marito, aveva gli occhi rossi e la barba lunga. Allora gli tese la mano, che non poteva dirgli più niente e finalmente andarono a dormire…La sala divenne immobile e buia, come in attesa. Mentre Anna e il marito dormivano, nel silenzio della loro casa pacificata, le parole nelle scatole iniziarono a fremere. Dapprima fu un sussultare leggero che poi crebbe d’intensità e frequenza. Michele dal divano brontolò. Sognava. Dai suoi giovani sogni, pieni di vita allo stato nascente, si sviluppavano grandi onde di emozioni piene di energia. La temperatura nella stanza si alzò. Presto la vibrazione delle parole fu incontenibile, i sogni di Michele agivano da catalizzatori. I pacchi iniziarono ad agitarsi, si rovesciarono e alcuni si aprirono. Molte delle parole partorite da Anna si misero in moto, strisciando s’infilarono sotto la porta di casa e si riversarono libere per il mondo. Ciascuna di loro cercava qualcosa. Che cosa? Si chiederà il lettore. Cercavano una storia da raccontare. Non tutte l’avrebbero trovata, anche perché non tutte avevano ancora sufficiente esperienza. Si sa le parole disperse nel vento non durano molto, se non riescono ad ancorarsi ad un foglio qualsiasi svaniscono. Ma quelle più fortunate, badate, non le più belle, le più eleganti o le più originali, ma quelle davvero fortunate, avrebbero incontrato uno scampolo di vita e ci si sarebbero attaccate su per darle un senso. Avrebbero legato vite estranee. Avrebbero allontanato o unito persone. Michele si svegliò, si stava scomodi sul divano e faceva freddo, meglio andare a letto a dormire. Ancora mezzo addormentato non fece caso al disordine della stanza. In casa tornava nuovamente la quiete. Oltre il portone le parole evase si dispersero strisciando nel buio che favoriva la fuga, alcune di qua, altre di là. Una risalì lungo una ruota di automobile, vi si arrotondò e vi aderì in attesa di essere portata chissà dove. Un’altra si sistemò su una cartaccia abbandonata sul bordo della strada, ci si ancorò e partì con il primo refolo di vento verso una destinazione sconosciuta. Un’altra ancora girò l’angolo e si trovò di fronte ad un palazzo imponente, lo seguì fino a trovare un grande portone. Entrò, non vista. Iniziò a salire le scale, facendo un gradino per volta, attenta a non farsi notare: pedata, rialzo, pedata, rialzo … come fosse stata chiamata. Guardando meglio, mentre seguiva in contrasto il profilo geometrico della scala la si sarebbe potuta leggere:
“Alba”
“La notte ha dipinto tutto di un bel nero, non c’è nemmeno una stella stasera, solo un torbido cielo nero. E’ un nero umido e caldo che toglie il respiro. Da dietro i vetri guardo le macchine illuminate che tracciano scie luminose, chissà dove vanno, chissà chi le aspetta. Aspetto anch’io in questo caldo soffocante di sapere cosa sarà del resto della mia vita. Se lei muore, muoio anch’io, semplicemente. Altrimenti forse possiamo farcela. Io Claudio, con lei Alba, la mia donna. Lei è il mio inizio e sarà la mia fine. Lei ha mani morbide che completano le mie e una voce che rende musica tutto quello che dice. Ecco con lei è facile vivere, ovunque. E’ una donna, ma ha dentro una casa. Ovunque si ferma, lì è la mia casa. Anche stasera che è qui, nuda e piena di tubi non posso lasciarla. Non riesco nemmeno a guardarla, però non posso lasciarla. Il suono delle apparecchiature a cui è attaccata è una promessa di morte e l’odore di questo posto mi fa stare male, ma lei è di là. Io sono con lei. Stavo lavorando alle cinque, quando mi hanno chiamato al cellulare, ho aperto le porte dell’autobus e l’ho lasciato lì, con tutti i passeggeri che mi guardavano basiti. Per loro ero solo un autista, un autista che correva in mezzo alla strada. Nella testa mi rimbombava una sola parola “Incidente, incidente, incidente” che vuol dire incidente? Vuol dire che Alba non mi avrebbe aspettato a casa, la tavola apparecchiata e il profumo della cena, vuol dire che forse non avremo più un futuro. Abbiamo avuto un passato, però, e un amore che non si è consumato e forse non si consumerà mai. Il nostro è un amore speciale che ha profonde radici. Lo sento con grande chiarezza, così come sento il dolore fisico nel petto, da oggi pomeriggio, un dolore sordo e gelato. Ma la testa non riesco a spegnerla “Basta, ” penso “basta, smetti di pensare, ti prego” Ma già sto pensando di nuovo. Penso che dovrò avvisare suo padre, è vecchio e malato e non sarà facile. E intanto i minuti rotolano piano nell’orologio appeso alla parete, io non mi stacco da questa finestra e ripenso all’alito di Alba quando facciamo l’amore. Ha un alito caldo e un sapore di fieno, poi piega la testa e mi guarda di sotto e fa quella faccia che sembra che dica “allora che aspetti?” è quello il segnale ed io mi tuffo e m’immergo e poi annego. Lei ha occhi profondi e non li ho ancora esplorati fino in fondo, forse non hanno un fondo, forse non finiscono mai. Mai sembra finire questa notte in quest’ospedale, mai sembra finire il dolore che mi buca lo stomaco e il cuore. E intanto guardo cieco la notte e non mi muovo, non respiro nemmeno. Intuisco che sono io a trattenerla ancora, con quest’amore doloroso e necessario e temo di perderla se mi distraggo. Arriverà il giorno, io non mi muoverò di qui, da questa finestra assisterò al trionfo del sole che rinasce, l’orizzonte diventerà rosato e opalescente e il chiarore si dipingerà magico ovunque, e se il miracolo si compirà di nuovo, l’alba mi restituirà la mia Alba”.Il giovane guardava attraverso le lacrime il chiarore del cielo che cresceva oltre ai vetri. Non si accorse perciò della piccola parola nera sulla strada di fronte, scritta di traverso sul marciapiede. Non la vide nemmeno Marco, che correva. Il suo piede agile, calzato con una scarpa sportiva, la coprì e quando di nuovo si rialzò, sul marciapiede quella non c’era più … Ma se qualcuno avesse fatto in tempo a leggerla avrebbe scoperto che diceva:
“Specchio”
Marco aveva grandi mani, un corpo dinoccolato e snello, lo sguardo scoperto e vivace. Era sempre arruffato e sempre in ritardo. Sorrideva sempre, anche adesso, ad esempio, che correva dietro all’autobus, con la sacca di stoffa, piena di libri e quella batteva ritmica sul fianco e lui alzava grandi passi atletici, senza stancarsi, senza scoraggiarsi, mentre l’autista dell’autobus, che pure lo aveva visto, faceva finta di niente. Ma alla fine ci sono pure i semafori e così, approfittando di un rosso provvidenziale bussò con forza alle porte di fondo, gli fu aperto e salì. Con il fiato appena più spesso, indirizzò subito gli occhi che ridevano, a un punto preciso. L’autobus delle 7.45 non era un autobus normale: sul seggiolino di sinistra, dietro a quello dell’autista c’era lei. Lei saliva al capolinea, tutte le mattine alle 7, 30 e si sedeva lì. Lui risalì piano l’autobus, agganciando con le mani aperte in rapida successione, a destra e a sinistra i due corrimani alti, determinato a raggiungere “quella” posizione. Bastarono pochi agili movimenti e si posizionò in piedi di fianco a lei seduta. Le sorrise. “Ciao, “ disse con nonchalance. Lei alzò lo sguardo inespressivo e ricambiò il saluto. “Ho rischiato di perdere l’autobus, stamattina” E lo diceva dondolandosi appena. Erano mesi che prendeva quell’autobus e parlava con lei del più e del meno senza riuscire a penetrare quella cortina d’indifferenza gentile che la circondava. Oggi non sembrava un giorno diverso, se non forse per quella corsa, a cui non aveva rinunciato e che alla fine aveva svelato a entrambi il peso diverso che aveva la loro frequentazione. Oggi si sentiva un po’ più nudo, un po’ più scoperto. Non ne era consapevole del tutto, se non per un certo imbarazzo che provava. Così tacque. L’autobus ci metteva circa trentacinque minuti ad arrivare alla fermata della scuola, dove entrambi scendevano. La città passava fuori dal finestrino e lui fingeva di non pensare a lei, seduta lì a un soffio. Ad un tratto il vetro, come uno specchio veloce, nel buio del mattino li rifletté entrambi, l’amore e il suo amante. E per un attimo lui percepì chiaramente la sproporzione di disponibilità, e subito la accettò come inevitabile, assolse lei e se ne fece carico. L’autobus arrivò sfiatato alla meta. I ragazzi si rovesciarono fuori con i loro jeans, i loro sorrisi nuovi di zecca, i visi tondi e tutta quell’ansia di vivere, che almeno in parte rimaneva attaccata ai sedili dell’autobus, cosicché qualche pensionato, salito nella corsa successiva, se la ritrovava lì come un regalo … Marco avrebbe dolorosamente capito poi, che non era cosa. Ci avrebbe provato ancora, molte volte, a ricrearle intorno quella magia (prima di accettare che in quell’attimo, sull’autobus era stato solo, lui, così pieno d’amore, con un riflesso, solo un riflesso vuoto, di quello stesso amore). Anna, seduta al suo posto sull’autobus, guardava dal finestrino i ragazzi sciamare; si era svegliata presto quella mattina e non ci aveva pensato più alle parole che il giorno prima le erano scappate di bocca. Il marito, che era abbastanza bravo a fare finta di niente, non aveva fiatato. Lei si era alzata dal letto e non le era sembrato un giorno diverso dagli altri. All’inizio le sue mattine erano tutte uguali. Preparava la colazione per tutti. Salutava il marito. Vestiva i due figli, li dotava di merenda e li accompagnava a prendere l’autobus. Quando scendevano alla loro fermata lei proseguiva per andare al lavoro. Si sarebbe potuto pensare che vivesse ogni giorno lo stesso medesimo giorno, se non fosse che il calendario diceva una cosa diversa … Anna guardò l’orologio mentre l’autobus accostava alla sua fermata . Scese veloce e infilò a tracolla la borsa. Non si accorse che dal vestito le pendeva un lungo filo nero … no, non proprio un filo: un’altra piccola parola sfuggita chissà come, alla archiviazione frenetica del giorno prima. Dondolava, come se fosse sul punto di cadere, invece era ben salda, diceva:
“Scadenza”
Anna sedeva impettita dietro ad un vetro scheggiato. Il suo lavoro consisteva nel dire sempre le stesse parole, in modo diverso, a diverse persone. Le persone affollavano la sala, fin dal mattino presto, sembravano indifferenti e silenziose, ma avevano un’ansia trattenuta che si palesava nel momento in cui arrivava il loro turno. Allora, uno dopo l’altro, si protendevano, quasi a sfiorare il vetro, allungando una pratica sporca e spiegazzata e cominciavano a salmodiare: “ speriamo che vada tutto bene … “. Qualche volta andava bene, qualche volta no. Lei allora sospirava, spingeva con l’indice gli occhiali da lettura, verso la fronte e si industriava per inventarsi un modo per non dire al malcapitato quello che non andava bene. Finiva per spiegargli quanto fosse fortunato perché ” la pratica va bene ad eccezione di una piccolissima mancanza che si può facilmente risolvere … ” A volte arrivavano degli anziani. Erano i più scorbutici, quelli che si lamentavano prima ancora di spiegare esattamente cosa volessero. Però bastava parlarci un po’ e soprattutto lasciarli parlare perché si sgelassero all’improvviso nella ricchezza di un sorriso sdentato. Quel giorno lei alzò lo sguardo e si ritrovò davanti due occhi azzurrissimi. Brillavano febbrili sotto una parrucca grigia. Non potevano essere capelli veri. Compatti e uniformi sembravano il cappello che erano. Una persona malata, tanto malata che non poteva più nascondere la sua malattia , stava lì, davanti a lei, invece così sana. Anna sentiva una grande compassione per quella persona così fragile, evidentemente provata, con il corpo così magro e le mani adunche. Ma sentiva anche che quella persona aveva diritto di essere trattata come se il suo stato non fosse evidente. E così fece, non lasciando trasparire la pena, usando un tono il più possibile neutro e privo di qualsiasi inflessione di sollecitudine. Il signore parlava, dimostrando una lucidità fuori dal comune, la consapevolezza di essere malato, e il desiderio di restare padrone di quello che restava della sua vita. Solo quando ebbe finito e prima di alzarsi, nell’apprendere che sarebbe dovuto tornare di lì a un anno per ripetere l’operazione, alzò su di lei quello sguardo azzurrissimo e nudo e biascicò un “… forse, se ci sarò ancora.” Le sembrò per un attimo che sparisse tutta la gente, il caldo, la fatica, il brusio di sottofondo e si trovò, nuda anche lei, di fronte al fatto che a un certo punto si può solo morire. Le parve di capire veramente per la prima volta che il tempo scivola di mano agli uomini come sabbia e nulla può trattenerlo. Tutta la pena che provava s’incanalò in un’unica lacrima che scese insopprimibile, mentre il signore si alzava e se ne andava. La spense imbarazzata con la mano mentre davanti a lei sedeva con affanno una signora grassa. Nel pomeriggio Anna rimase ancora in ufficio. Qualche ora di straordinario le faceva comodo. Lo sportello era chiuso e il lavoro diventava più monotono. Anna archiviò una gran quantità di pratiche e mentre lo faceva le tornarono in mente le scatole che aveva stivato in salotto con il marito e i figli il giorno prima. Le scappò un risolino stentato. Chissà da dove erano venute tutte quelle parole. “Non potrei raccontarlo a nessuno.” Pensò “Nessuno mi crederebbe.”Alle 17.30 Anna infilò il cappotto, timbrò il cartellino e spense le luci dell’ufficio ormai silenzioso. Si incamminò verso l’uscita. Alla fermata prese il solito autobus e si sedette vicino al finestrino, quando fu ora di scendere Anna premette il pulsante di prenotazione della fermata, si alzò e si avvicinò alle porte. Percorse veloce il tragitto verso casa, entrò dal cancello comune e seguì il vialetto che costeggiava i minuscoli villini Quando entrò in casa trovò subito i figli. Erano in salotto seduti sul divano giocavano con la play, chissà da quanto tempo.“Non è ancora ora di spegnere la televisione?” Brontolò. La irritava vederli giocare, come se niente fosse, tra tutte quelle scatole ammassate; qualcuna si era rovesciata e sembrava mezza vuota. Evidentemente alcune parole mancavano.”Perfetto” pensò Anna “Qualcuno potrebbe risentirsi con me perchè ho lasciato in giro qualche parola volgare o inappropriata.” Raccolse da terra quello che poteva e in qualche modo. Possibile che sembrasse strano solo a lei quello che era successo il giorno prima? Sospirò, si tolse di dosso la borsa e andò in camera a cambiarsi. Era già arrivata l’ora di preparare la cena, Anna si diresse in cucina e giunta lì cominciò a cucinare. Mentre spignattava sentì le voci dei figli salire di tono. Litigavano. “Basta” gridò attraverso la porta. “ smettetela”. Ma invece di ascoltarla quelli presero a gridare più forte. “Adesso è veramente troppo” decise Anna chiudendo gli occhi. In quel momento da dietro il tostapane emerse per metà una timida parola nera. Anna inspirò profondamente e nel sospiro la risucchiò all’istante. Sulla fronte di Anna, come un baffo di cenere apparve:
“Pazienza”
Quando capì che stava per esaurire la pazienza, Anna pensò che doveva agire immediatamente. Spense tutti i fuochi, si slacciò il grembiule, si sfilò la pettorina e appese al chiodo lo strofinaccio.”Io esco” disse rivolta alle nuche dei ragazzi , “torno subito”. Non aspettò una risposta che non ci sarebbe stata e si tirò dietro la porta. Stava calando la sera, Anna era uscita con il logoro abito che usava per casa. Era spinta da un’impellente bisogno e camminava frettolosa, le spalle ben diritte, senza guardare né a destra né a sinistra, non indulgeva in nulla. Svoltato l’angolo per poco non travolse il piccolo Nicola, il figlio dei vicini che tornava di corsa a casa. Lo afferrò precisa, lo scrollò un po’, giusto per l’abitudine di rimettere ogni cosa al suo posto e riprese la sua strada. Cosa passa per la testa di una donna che ha esaurito la pazienza? Quali orrori, quali abomini? A che livello di sopportazione, oltre il limite, può arrivare? In fondo, man mano che si avvicinava, la luce del negozio s’ingrandiva. E alla fine entrò come in una tempesta di vento, spalancando completamente la porta a vetri, in un turbinio di gonne. Poi si fece rossa in viso e si appressò al bancone, fregandosi le mani. “Signora Pina, un etto di pazienza, quella buona… ” La Signora Pina la guardò in viso e colse l’urgenza negli occhi lucidi di Anna. Si abbassò e aprì il piccolo frigo che aveva sotto il banco. Ne estrasse un grosso involto, lo aprì e ne trasse un umido rotolo rosa. La Signora Pina ne aveva viste di cose e sorrise, ma intanto le tagliava una bella fetta grossa di pazienza pura, la più bella, la più costosa…Anna tornò verso casa lemme lemme, stringendo al petto il prezioso involtino. La Mattina si affacciò esultante a tutte le finestre. “E’ tardi” sbraitò il marito di Anna scoperchiando il letto e disperdendo tutto il sonno e tutto il calore.“Mio Dio come è tardi” fece eco Anna buttando i piedi oltre l’orlo del letto.“Perché non mi avete svegliato?” strillò petulante Luca.“Mpfff …” Bofonchiò Michele e si rimise a dormire. Cominciava una giornata nuova. L’ennesima della stessa solita vita.
Al lavoro Anna arrivò in ritardo. Trafelata raggiunse la solita postazione, accese un sorriso stanco e affrontò l’orda. La gente entrava a frotte dal portone che si apriva su una strada molto trafficata; da una strada laterale emerse un uomo che si avvicinò ad un veicolo in sosta. Aveva in mano delle chiavi. Una macchina si accostò mise subito la freccia a destra e si fermò appena poté. L’uomo la vide e le fece cenno. “Sì, vado via”. Si muoveva lentamente e aveva gli occhi rossi, ma sorrideva. Claudio era rimasto vicino ad Alba per ore, caparbio e tenace e ora tornava a casa. Claudio guidava ed era stanchissimo. Di più, era sfinito. La tensione che l’aveva sostenuto durante tutta la notte si era finalmente sciolta quando Alba aveva aperto gli occhi. Era successo senza preavviso. Un attimo prima giaceva immobile. Un attimo dopo era tornata. Claudio aveva gridato il suo nome prima ancora di capire cosa stesse succedendo. Era confusa, naturalmente, la faccia era piena di lividi e gli occhi erano infossati nel gonfiore. Chissà se sentiva dolore. Aveva diverse costole rotte, le gambe fratturate, un trauma cranico. Ma si era svegliata e anche se non aveva detto nulla l’aveva guardato a lungo. Claudio sospirò. “Piano, piano” pensò “Ce la faremo piano, piano”.Adesso doveva organizzarsi, telefonare nel posto dove lavorava, chiedere dei permessi, predisporre dei turni con la sorella per non lasciare Alba da sola. Guidava lungo il fiume, mentre la mente era già arrivata a casa. C’erano documenti da cercare e da portare in ospedale, bisognava farle una valigia, portarle un pigiama, contattare i parenti. Anna tornò a casa alla solita ora, era stanca, ma non solo, era soprattutto inquieta. Continuava ad agire come sempre, ma all’improvviso avvertiva un nervosismo immotivato, fingeva che tutto fosse normale, ma non era così: aveva raggiunto un punto di sfilacciamento, era ormai prossima alla rottura. Però nessuno se ne era accorto, a nessuno era mai venuto il dubbio che lei non fosse la solita Anna. Nel pomeriggio finalmente tutte le parole ritornarono ad Anna. Arrivarono alla spicciolata, sbucando una per volta da sotto la porta di casa, così come erano partite. Quando lei incuriosita aprì finalmente l’uscio, vide che formavano una fila ordinata di piccole parole nere. Anna spalancò le braccia. “Ecco” disse “siete tornate a casa.” Iniziò a raccoglierle e quando furono troppe per poterle tenere alzò l’angolo della gonna per creare una specie di fagotto e lì le infilò. Poi rientrò in casa e si sentiva così gonfia e piena che capì di doversi liberare così sedette al computer di Luca e iniziò a scrivere …
“Imperfezione”
“C’era una volta una bellissima storia. Era nata per caso, senza essere davvero voluta. Ma che si fa quando capita una storia inattesa? Tutte le storie del mondo le fecero spazio, poco per la verità: era così piccina! Ma in quella piccola storia c’era qualcosa che non andava. Non tutto filava logicamente come avrebbe dovuto. C’era un errore per così dire veniale, niente di veramente eclatante e per questo nessuno lo rilevò. Si da il caso che dove avrebbe dovuto esserci un punto fermo c’era un’umile virgola. Per un po’ tutto filò liscio. Ma piano piano la piccola storia cominciò ad avvertire un certo malessere, la sensazione che qualcosa dentro di lei non funzionava bene. La fragile struttura che la costituiva si andò deteriorando silenziosamente. Un giorno un punto e virgola molto irritato e un pochino geloso, per via di quella virgola promossa sul campo, fece una violenta scenata a due puntini che facevano il loro solito lavoro. I puntini scoppiarono in un pianto dirotto e a furia di piangere quasi affogarono un articolo, un aggettivo e due verbi, prima di smettere. Ma il danno ormai era compiuto. La storia si andava inumidendo rapidamente, l’inchiostro scoloriva, la trama mancava di senso compiuto, i personaggi perdevano di spessore e assumevano contorni sfumati e un aspetto sempre più trasparente. Era stata una così bella storia! Quando implose, crollò su se stessa, non senza aver lanciato con un ultimo potente rigurgito un getto fetido di pronomi personali possessivi addosso al malaugurato vicino di posto”. Anna rideva leggendo quello che aveva scritto. Era incredibile non si sentiva più triste. Aveva una voce nuova e tantissime cose da dire. Così aprì una pagina nuova e ricominciò a scrivere:“Questa vita mi ha portato fin qui e ora la sto portando io. Ho una mano che non trema e so cosa va fatto. Così provo e riprovo, cerco la storia perfetta, quella che canta, quella che vibra, quella in cui ogni virgola è essenziale, ogni parola necessaria. Io ce l’ho dentro, lo so che ce l’ho dentro. Ma è difficile davvero darle voce. Vorrei raccontare la vita.”Le parole collaboravano dense di nuovi significati, ma questo non era ancora abbastanza … Anna si lasciò andare allo schienale della sedia e si stropicciò gli occhi. “Raccontare la vita … Ma che cos’è la vita in fondo se non un lunghissimo giorno? Il giorno che finisce quando poggi la testa sul cuscino, o ti addormenti sul divano. Solo quel giorno, non come unità di misura, ma come l’unica realtà possibile. Il passato svanisce nelle nebbie incerte dei ricordi e Il futuro è solo una convenzione. Il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora. Tutta la vita è un presente continuo. Questo è anche il segreto per costruire qualunque cosa: modificare il presente (e ogni presente che verrà).” Il cielo scuriva mentre Anna scriveva, i figli in cucina addentavano grossi panini preparati in qualche modo, era tornato anche Paolo e la cercava un po’ spaesato chiamandola a gran voce. Anna non sentiva nulla,Anna scriveva e scendeva la sera, Anna scriveva e scendeva la notte …“La notte si addensa negli stracci che il nero appende alle finestre, nel freddo che taglia il respiro, nei sogni di quelli che condividono un sogno, nel fiato degli amanti, nel vuoto della mancanza. La notte è tagliente come il coltello che divide il figlio dal corpo della madre … “ La notte è la fine di questa storia.
Lo stile narrativo è perfetto per la trama; un racconto originale e commovente. E pieno di … parole. Una chicca.
Complimenti,
Lauretta
Grazie, ma ho sbagliato: non volevo che fosse pubblicato ancora, volevo accorciarlo un po’! 😉
Con “pieno di …parole”, non intendevo troppe. Anzi. Bello per come le hai intrecciate, amalgamate e lasciate parlare.
Le parole che divengono protagoniste in maniera giocosa ed elegante di un racconto innovativo. Si, un racconto in cui si nota grande rispetto verso le parole, che venendo trattate molto bene, svelano la loro natura di preziosa materia prima per far emozionare i lettori.
Siete troppo gentili, grazie… 🙂
Anche questo è davvero un bel racconto. Uno stile scorrevole che accompagna piacevolmente la lettura e un’idea narrativa interessante, ironica, intelligente. Complimenti!!!
Devo assolutamente farti i complimenti! L’argomento è originale e i vari episodi sono collegati come scene di uno stesso film. Si visualizzano i personaggi e i fatti mano a mano che si procede nella lettura. Storia coinvolgente. Bravissima!
Fa piacere ricevere complimenti ben motivati…