Racconti nella Rete 2009 “Il pacco” di Alessio Degli Incerti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Peppe Mancuso mi doveva un favore. Per canzonarlo glielo dissi una volta e lui finì per convincersene davvero.
Era un uomo buono. Di quei tipi così buoni che la società moderna qualifica subito come fessi.
“Come è buono, signor Mancuso…”, e ti sembra in sottofondo di percepire un rumore, forse una pernacchia.
Quando lo conobbi mi venne spontaneo afferrargli un lembo della giacca. Peppe Mancuso era infatti in bilico pauroso sul parapetto di un ponticello e sembrava sul punto di spiccare il volo.
“Lasciami andare, lasciami andare, disgraziato! Fatti gli affari tuoi! Voglio farla finita!”, mi urlava cercando di divincolarsi.
“Se ti butti giù io verrò con te!”, tentai di dissuaderlo.
Al che i suoi occhi si illuminarono di una luce strana, come una vampata di gelosia. Si riassettò la giacca e con un balzo fu giù sul marciapiede.
“Ma perché, anche voi conoscete Antonietta Sparagnino?”.
“Veramente no. Chi sarebbe?”, chiesi incuriosito.
“Lasciate perdere, ormai è andata. Piuttosto offritemi da bere, sono ancora molto scosso dall’accaduto”.
A dire il vero mi sembrò molto al verde, ma quel tipo mi incuriosiva e accettai di scambiare con lui due chiacchiere davanti a un bicchiere di vino. Ci sedemmo in una trattoria e Mancuso sciolse la lingua in pochi secondi. Mi raccontò che il gesto sconsiderato al quale pochi minuti prima stava per abbandonarsi era dettato dalla delusione d’amore che Antonietta Sparagnino gli aveva inferto come una pugnalata.
“Sono mesi che non dormo, che il mio cuore soffre le pene dell’inferno. Quella donna mi ha illuso di essere un uomo felice, ma la felicità si ha solo accanto alla persona che si ama. E Antonietta non mi ama né mai mi amerà”. Così dicendo le parole franarono come le note stonate di un pianista ubriaco. Un pianto dirotto lo vinse.
Il suo racconto aveva suscitato la mia commozione e tentai di scuoterlo.
“Suvvia! Nella vita a tutto c’è rimedio”.
Peppe Mancuso riemerse il capo dalle lacrime, mi sorrise, poi mi prese le mani e le strinse forte.
“Signore, io vi ringrazio perché oggi mi avete salvato la vita!”.
“Ma no, ho fatto solo ciò che chiunque avrebbe fatto…”, mi schermii.
“Non siate così modesto, signor… signor…”.
“Passascuorno, Vito Passascuorno…”, completai.
“Vito, oggi la vita mi ha mostrato il suo lato peggiore, ma mi ha anche fatto capire che ad essa non si deve rinunciare”.
Mi sembrò tornato in sé, di nuovo padrone del suo equilibrio. Così mi alzai per congedarmi, ma Mancuso mi trattenne ancora per un istante.
“Signor Passascuorno, come posso sdebitarmi?”.
“Ma per carità! Non lo pensate nemmeno…”.
“No, no, io insisto! Voi mi avete salvato la vita e io sento d’esservi debitore”.
Per liberarmi da colui che stava diventando un vero e proprio scocciatore, provai ad assecondarlo.
“E va bene, come volete. Diciamo allora che mi dovete un favore, ma senza fretta, per carità! Il destino stabilirà quando. Ora, se non vi dispiace, ho molta premura. I miei ossequi”.
Peppe Mancuso prese alla lettera le mie parole e nei giorni seguenti mi tese vere e proprie imboscate per la strada.
Si era a tal punto convinto di questa storia del debito, che ogni volta gli riusciva di incrociarmi mi si parava dinnanzi spalancando le grandi braccia in segno di giubilo: “Vito, amico mio, è il destino che ancora una volta ci mette uno di fronte all’altro, e credo proprio che abbia in serbo per voi una bella sorpresa”.
Dopo tre dinieghi che avevo opposto con molta cortesia, al quarto incontro fui costretto a capitolare. Così, in un batti baleno mi ritrovai nel suo piccolo appartamento, di fronte a un piatto di pastasciutta fumante.
Mentre assaggiavo quella pasta squisita notai che Mancuso mi lanciava furtive occhiate, come se aspettasse il momento propizio per dire qualcosa.
“Siete soddisfatto del pranzo?”, mi chiese.
Con ancora il boccone in bocca riuscii soltanto ad annuire.
“Bè, devo confessarvi un segreto: non sono io l’artefice di questo pasto delizioso… il merito è tutto femminile…”.
Dopo aver pronunciato queste parole il suo sguardo si spostò verso la soglia del salotto, dove un grosso e pesante orologio a pendolo nascondeva in parte una figura femminile, immobile e col capo reclinato sul petto.
“Vito, permettete che vi presenti mia sorella, Giustina Mancuso”.
Come se avesse azionato la manovella di un carillon, le sue parole fecero scattare, diedero vita a quella creatura femminile, la quale, sollevando lentamente il capo, esibì un sorriso carico di dolcezza infinita. Il corpo minuto, gli occhi chiarissimi e pieni di bontà, i capelli delicatamente riposti in uno chignon perfetto: fu un colpo di fulmine per me.
“Vito, credo d’aver indovinato ciò che manca nella vostra vita: un amore che vi accenda. Ebbene…”, sussurrò al mio orecchio, senza temere di risultare indiscreto.
Il caro Mancuso si era ben informato sulle mie abitudini e aveva fatto presto a individuare un buco, una mancanza nella mia vita tutta votata al lavoro. L’amore che non conoscevo mi colse all’improvviso e fu proprio l’ex aspirante suicida a offrirmelo su un piatto di pastasciutta, o meglio, d’argento. Giustina Mancuso era la moglie perfetta: amante della vita domestica, parca di parole e, soprattutto, premurosa.
Un mese dopo io e Giustina ci sposavamo in una chiesetta di Sorrento. Durante il pranzo di nozze Peppe mi prese in disparte, mi abbracciò e mi disse: “Vito, amico mio, tu mi salvasti la vita e io, come vedi, non l’ho dimenticato. Giustina è il mio regalo per te”. Le lacrime solcarono il mio viso. Lo abbracciai con impeto.
“Grazie, fratello mio”.
Lo vidi poi allontanarsi, accendersi una sigaretta, di colpo voltarsi verso di me.
“Ah, Vito… ricordati. Con questo io e te ora siamo pari”.
Lo disse fissandomi per alcuni attimi, come a voler imprimere nella mia mente quelle parole. Il suo tono mi giunse enigmatico. Una nuvola di fumo inghiottì il suo volto. Dopo una splendida luna di miele il mio matrimonio divenne sempre più inquadrato, nel senso che si sviluppò prevalentemente tra le quattro mura domestiche. Ciò non era dovuto a una mia scelta, bensì ad un obbligo: quello di accudire Giustina, che scoprii di salute cagionevole, soggetta a febbri brevi ma frequenti. Venni a sapere che mia moglie fin da piccola pativa uno stato fisico precario, e mia suocera al telefono mi ripeteva di prendermi cura del suo povero cardellino. I primi sei mesi di matrimonio trascorsero così tra visite al medico di famiglia e nottate in farmacia in cerca dell’ultimo, efficace antibiotico. Pazientai a lungo perché amavo molto Giustina. Tuttavia, dopo due anni la situazione non accennava a migliorare, anzi raggiunse livelli parossistici. Giustina necessitava infatti di lunghi periodi di riposo in un sanatorio nel Trentino poiché il suo equilibrio mentale era vittima di saltuari ma acuti stati depressivi. Mi ritrovai così a dover trascorrere la mia tanto agognata vita coniugale in solitudine, come se avessi sposato un fantasma.
Una domenica ricevetti la visita di Peppe Mancuso, che non vedevo da molti mesi, al quale, in un momento di profondo sconforto, confidai le mie pene.
Egli mi ascoltò in silenzio, aspirando lunghe boccate dalla sua sigaretta. Al termine del mio sfogo mi venne vicino, appoggiò una mano sulla mia spalla.
“Vito, mi dispiace saperti amareggiato… Si tratta oltretutto di mia sorella… In fondo però l’hai voluto tu…”.
Avevo capito bene?
“Come dici, scusa?”, gli chiesi interdetto.
“Proprio così. Sei tu che hai giocato col tuo destino. Se invece di prodigarti scioccamente per gli altri, due anni fa, ti fossi fatto gli affari tuoi, a quest’ora forse saresti un uomo felice. Da quel ponte avresti dovuto lasciarmi cadere giù anziché afferrarmi per la giacca! Non capisci? Tu credesti di avermi salvato la vita, ma io avrei preferito morire e dimenticare le mie pene d’amore. Così invece mi hai lasciato sopravvivere ad una vita anonima, dove ci sarà sempre il fantasma di Antonietta Sparagnino a tormentarmi. Mi dispiace Vito, ma io ho dovuto restituirti ciò che mi avevi fatto”.
Di colpo tutto mi fu chiaro. Peppe Mancuso, accecato dal dolore per non essere riuscito a porre fine alle sue pene, si era voluto vendicare di me raggirandomi, dandomi in sposa la sorella perennemente malata e sofferente, di cui finalmente si era sbarazzato. In tal modo anch’io avrei trascorso un’esistenza grigia, anonima, priva d’amore.
Diavolo d’un Mancuso! Mi aveva rifilato una moglie come si fa con un vero e proprio pacco.
Il suo regalo non lo avrei mai dimenticato.
Ottimo racconto, complimenti.
Emozioni le parole che scrivi con notevole dimestichezza della sorpresa…
All’anima del pacco! Vito Passascuorno… un nome, una garanzia 🙂 un pò come Pozza passà nu juaio… simpatico, a tratti pirandelliano. Complimenti!