Racconti nella Rete 2009 “L’utopia del sogno al tramonto” di Lorena Leonardi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Fa freddo, anche se è da poco finita l’estate.
I primi acquazzoni ci sorprendono imprevedibili, in queste giornate dall’aria fresca in cui mi sento straordinariamente libera a camminare per strada.
Sembra che l’autunno abbia aspettato troppo a lungo e ora ogni respiro è già una foglia rossa.
Strano effetto,questa stagione dagli occhi lucidi, ogni giorno posso amarla e detestarla, il sole oscilla con il mio umore tra una nuvola e la montagna.
Ora è tristezza, lungomare grigio e panchina, un attimo dopo è tepore di una serata casalinga e thè caldo.
Ora è guscio, dopo è fuga…
Alzo già stanca la serranda e l’aria vellutata sul viso mi riempie di valorosi proponimenti per la giornata: mi sporgo dalla finestrella del mio monolocale e mi sento davvero disposta a concludere qualcosa di buono oggi.
Da sola le giornate sono più diluite, a volte interminabili: ho i miei ritmi, posso lasciare il letto disfatto, gli abiti in giro e il disordine può regnare sovrano, ma io mi sento assolutamente padrona della mia esistenza, di ogni singolo inutile granello di polvere che soggiorna sulla scrivania, mi incorono regina della finestra dimenticata aperta, degli utensili a marinare nel lavello, del dentifricio spremuto male e dei cerchi di the accanto ai libri ammassati a pila.
Lo stress condensa i miei tempi: cammino senza sosta dalla mattina alla sera e poi in casa ritaglio minuti per organizzarmi tra studio, lavoro e solitudine.
Qui che la mia vita di prima è vanificata non è facile trovare qualcuno con cui parlare: non conosco nessuno e forse non mi interessa conoscere nessuno, mi piace camminare con lo sguardo alto, perso e lontano, tanto non posso incontrare nessuno da salutare, mi piace fare colazione al bar e suscitare curiosità, andare in edicola sapendo che non ci tornerò mai più.
Discorsi intavolati con chiunque possa consacrarmi un briciolo di interesse, promesse e sorrisi, e poi non ci saremo più.
Penso ogni volta che appena tornerò a casa, nella mia vita, questa gente per la quale ora io sono un’abitudine si renderà conto all’improvviso che non mi faccio vedere da una, due, quattro settimane…e dopo un attimo di riflessione decreterà che non mi si vede da un sacco, chissà che fine ho fatto.
E poi non mi penserà più nessuno, e io probabilmente farò altrettanto.
Stupefacente come le vite possano intrecciarsi fitte spontaneamente e con altrettanta facilità sciogliersi per sempre.
Anime in affitto, nient’altro che questo.
Lui di ieri l’ho incontrato, visto crescere, abbandonato e ora non so che vita abbia, che luce negli occhi, che libri sul comodino, che treni prenda, se pensa mai le cose che diceva a me, se crede ancora nella giustizia e nel romanticismo, chi ascolta ora le cose che dice…
Non so se tra un rigo e l’altro di un libro di poesie, o naufrago dentro le note di una canzone di qualche anno fa, pensi a me con un pizzico di nostalgia e si chieda cosa ne sia stato della mia vita, dei miei sogni, se siano ancora vivi i miei desideri.
Non voglio sapere con chi fa l’amore e dove dorme, se la mattina si alza subito al suono della sveglia o rimane a letto coperto fin sopra la testa dal piumone, non ho mi riflettuto sulla sua quotidianità, tanto non mi appartiene.
Per me è solo nostalgia.
Per me è una spiaggia lunga immersa nella foschia, dove si scorgono solo tre pescatori e un cane.
Lui di oggi è un’isola dispersa a chilometri dalla terraferma.
Sospiro e per un attimo trattengo il fiato, poi esco di corsa e prendo il tram.
Oggi è sabato, lo si sente nelle voci dei ragazzi che escono da scuola, lo capisco dai papà che aspettano fuori dalle scuole elementari,dai sorrisi degli impiegati che vanno via dagli uffici, dalla ragazza che sorridendo raccoglie i mille fogli sfuggiti dalla carpetta, dai toni delle discussioni ai telefonini, dai carrelli al supermercato.
Per me forse sarà un giorno come un altro, anzi più proficuo perché domani riuscirò a dormire e a studiare un po’ di più e se mi impegno riuscirò anche a non sentirmi troppo sola.
Chiamo le mie amiche ogni tanto ma ognuna ha la sua vita e i suoi interrogativi: per venti minuti o anche un’ora a volte parliamo, ridiamo quasi illudendoci di essere vicine, inzuppare biscotti nel the aromatizzato al tavolo di un bar del centro, il cameriere mi sorride e tutt’intorno brulica di entusiasmo e vita, un panorama impressionista di uomini in giacca e cravatta, signore avvolte in lunghi vaporosi foulard di seta, una ragazza con lunghi capelli ricci che parla troppo appassionata di politica a colui che di fronte vorrebbe averla solo per un allegro intermezzo serale, un anziano professore in pensione, donne troppo truccate e tristi, profumi e onde psichedeliche, ma quando il telefono rimane muto mi guardo intorno e vedo alberi, vuote panchine di marmo e qualche viso estraneo a me e imperturbabile rispetto a tutto il resto.
Non vedo strade piccole con balconcini stretti e ringhiere sottili e arrugginite contro cui sventolano abiti troppo usati ma appesi con grazia, non ci sono porte che danno sulle strade, da cui si intravedono tende gonfiate dal vento e interni umili che sprigionano odore di minestrone e cipolle.
Nessun palazzo dietro la pescheria con l’intonaco che sembra essere stato strappato via per rabbia verso una vita misera, nessun ingresso buio anche di giorno e odore di frittura per le scale dagli spigoli arrotondati per l’usura, e soffitti alti e lucernari e vicine coi bigodini affacciate.
Nessuna strada bagnata e arancione dei lampioni riflesso sul basolato.
Cerco tra i vicoli angoli nuovi come i gatti randagi, odoro il pane di un panificio sporco, i medici dell’ospedale camminano con in mano le arance omaggio dell’ambulante con la motoape.
Città sei bella perché credevo di averti persa.
Ti fotografavo di notte, in movimento sull’automobile, eri diventata lampioni e portoni sfocati da appendere a un muro di una cittadina straniera e invece sei di nuovo mia, come se ti scoprissi ogni giorno proprio io per la prima volta.
Abbastanza piccola per non sentirsi soli e abbastanza grande per coltivare l’illusione di essere liberi e sconosciuti, abbastanza luminosa per alzare gli occhi e mangiare il sole, buia a sufficienza quando non si può rimandare un bacio.
Per amarti non bisogna conoscerti troppo a fondo per non soffrire di ogni tua sofferenza.
Passeggiando osservo ogni cancello, sento la vita palpitare nella tromba delle scale, nelle porte che sbattono, nel campanello che suona, nelle persiane che vengono alzate, nelle rughe delle vecchie e in quelle dei tuoi muri.
Mi manchi, vorrei che tu sapessi che mi sei mancato.
Le foto insieme non le guardo da troppo tempo, ho paura che tu possa farmi male, ma ora che sono lontana dai nostri luoghi riesco a definirti meglio dentro di me.
Due ore di treno e la stazione di Milano è grigia come dal lunedì al venerdì e qualcuno evidentemente di fretta mi spintona con violenza, il capostazione coglie il mio sguardo di disapprovazione e fastidio e sembra volermi dare ragione con una leggera scrollatina di spalle che al tempo stesso lo esonera dall’espressione di un giudizio.
Cammino saltellando leggermente e mi sento per un attimo felice e profondamente radicata nella mia persona, in quel luogo, dentro i miei vestiti, nei miei pensieri, tra una nuvola e un foglio di giornale che vola per la strada.
Ti vedo appoggiato al grande ingresso della stazione, sembri non pienamente corporeo, un po’ di fronte a me, un po’ fantasma di te stesso, perso nel vapore denso dei tanti anni passati.
Il pomeriggio trascorre assai lietamente, ma ogni minuto lo sento scorrere come gocce di sangue perdute da un dito ferito, tra la confidenza dell’aver condiviso tanto e l’incertezza di essere assai cambiati, delusi da questo fluire non sempre regolare, traditi dalle promesse fatte a noi stessi prima che agli altri, sfiduciati per la mancanza di un paio di occhi nudi che chiedono speranza.
Ma che senso ha scommettersi sapendo di perdere, cambiarsi pur coscienti di non potere essere compatibili, amarsi sapendo che poi sarà solo un sordo rancore o forse l’indifferenza a consumare il tempo davanti un vetro con gocce di pioggia che scendono scavando percorsi irripetibili?
Sognavo te, me e un mondo nuovo, e dopo tanto parlare e arrabbiarsi, discutere e ricominciare, niente più voci alte e occhi lucidi, solo lacrime sulle guance rosse.
Ti riconosco mentre sei odore peli e denti e io ti respiro nell’orecchio e penso intanto a come tenerti stretto, a come graffiarti, vorrei farti sanguinare, mi chiedo a cosa pensi, che nome sussurrano i tuoi ricordi quando con la lingua vai sempre più in fondo.
Pian piano sparisce tutto, mi sento sola e non ho più fiato né voglia, ho paura di quello che provo.
Più ti perdo e più ti vorrei, più mi sfuggi e più ti rincorro, speranza del mio passato, riserva di sorrisi e stelle…
Tu sapevi che c’ero quando non c’eri e ho saputo che c’eri quando tu non potevi esserci.
E ora che tu non sei più tu e io sono ombra di quel che ero, o forse statua di marmo bagnato, cosa ne faremo dei fiori secchi e dei sassi sulla mensola, del pallone abbandonato nel prato tra gli oleandri e del muretto sul mare ad ottobre?
Non sai chi eri, sei solo dentro di me, tra panorami e calligrafie ti vedo ancora e capisco che non ti avrò mai più..
Dove ti sei nascosto, eri diverso, lacrime e sale, ora dove vai non lo sai nemmeno tu…
Candela e sogno, io che volevo esplodere in una rivoluzione sono forse rimasta fedele a me stessa e tu non hai il tuo sapore e fiato…
Meglio non averti cercato, avrei dovuto perderti, o avevo bisogno di distruggerti dopo averti plasmato?
Non capisci le parole che ti attraversano, tu che vivevi in bilico delle mie frasi a metà e sapevi completare e aggiungere e sottolineare sfumature che neanch’io sapevo di poter pensare…
Tu che soffiavi sulla polvere dei miei quaderni a metà e stringevi le mani sul treno mentre attraversavamo montagne di presepi notturni…
Tu che dormivi piano contro le mie spalle e mi coprivi gli occhi e li aprivo e ridevi, io che parlavo sapendo che almeno uno mi capiva come io stessa non avrei saputo…
Piove e l’ombrello vorrei dimenticarlo in libreria, camminare e bagnarmi perdendo l’autobus e imprecare contro tutti, poi piangere su una panchina fin quando non si ferma qualcuno.
Piove e io vorrei non essere qui o rimanerci tutta la sera, ritroverei ancora un quartiere nuovo, una pizza fredda e sorrisi ciechi?
Vorrei dirti di nuovo addio, arrabbiarmi e annegarti nel mio rancore ma è tutto troppo amaro e non mi basta pensare che sei sempre stato così…cartapesta e libri, voglia di condividere e orizzonti infiniti.
Non possiamo scegliere noi quante possibilità darci, è rimasta solo cera tiepida e dita bruciate.
Rimango qui nel sottopassaggio e tutti mi passano accanto, tu non saprai, appoggiato al finestrino, cosa mi passa tra le mani e i piedi.
Bruciano gli occhi e la penna vacilla, spengo questo giorno e vorrei non averti mai perso, anzi non averti mai avuto.
Vuoto dei miei pomeriggi, voce sulle note di un’alba fresca e sudata, dove riposerai adesso che la luna non ci guarda, allucinazione di una notte stordita…?
Non saremo mai più quello che eravamo, la nostra forza è sepolta sotto i mari, e gli scogli e le onde rimescolano anni di passeggiate al buio.
“Però ci rivediamo settimana prossima, arriverò a questa stessa ora, tu aspettami” e sento il treno, come una lumaca squagliata dal sole, lentamente muoversi.
Molto bello….complimenti…ottimo stile,molto delicato…davvero brava…