Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Un’avventura sotto e sopra la luna” di Franco Salvatore Delrio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Distante circa un chilometro dal nucleo centrale del paese, il rione era immerso nel verde, nascosto tra i monti della Barbagia di Belvì. Non era lontano da una frazione ad esso sottostante che, proprio ai tempi della nostra storia, per via del progressivo smottamento del costone sul quale sorgeva,veniva progressivamente abbandonata dai suoi abitanti. Pochi tra essi confluirono nell’agglomerato principale, mentre i più si stabilirono proprio in quello vicino.

A quel punto il nostro minuto sobborgo conquistò, a buon diritto, l’accademico titolo di rione più lontano dal paese, cosa di cui gli abitanti presero ad andare molto fieri. Li faceva sentire appartenere ad un mondo a sé stante, diverso, isolato, ma proprio per questo incontaminato.

Con l’arrivo dei transfughi, il rione raggiunse alla fine la ragguardevole cifra di trecento anime.

Vivevano tutti in casupole appoggiate le une alle altre che si affacciavano su vicoli molto stretti. Quasi tutte avevano minuscoli balconi in legno dai quali si poteva affacciare solamente una persona per volta. La casa del calzolaio si trovava all’incirca a metà dell’abitato.

Ziu Trabadore era un reduce della Grande Guerra. Durante la ritirata di Caporetto la scheggia  di una granata gli tranciò di netto le dita del piede destro. Aveva realizzato personalmente uno speciale scarponcino imbottito che gli permetteva di camminare agevolmente e superare così la sua menomazione. Il suo riconosciuto e connaturato humor non fu intaccato dall’incidente. Era un facondo narratore. L’opportunità di sentirlo raccontare aveva fatto della sua abitazione,  un riferimento pressoché quotidiano per tutti. Dunque la sua piccola casa anch’essa su due piani, era il ritrovo di quanti amavano fantasticare con le storie che lui dispensava a quell’antico e piccolo mondo. Il suo posto di lavoro, situato al piano terreno, guardava su una stradina che attraversava tutto il rione; questa era abitualmente animata da un frequente brulicare di persone che si susseguivano a turno, alternandosi quasi  per tacito accordo, in modo che il passare del tempo si distribuisse equamente. Così,  democraticamente, tutti potevano godere delle  sue narrazioni. La bottega del nostro intrattenitore era  il locale centro di socializzazione. Quel tavolino, dal quale officiava il rito de “is contos”(i racconti), faceva parte integrante del paesaggio e, assieme  all’angusta osteria e lo striminzito negozio-bazar, rappresentava la sola occasione per evadere dalla inesorabile routine.

Con l’arrivo delle tiepide giornate primaverili, una vivida luce riusciva finalmente a penetrare tra gli angusti viottoli, strappandoli ai chiaroscuri autunnali e alle penombre invernali. Ciò favoriva un ancor più frequente viavai. Altra occasione per le relazioni sociali era il rito domenicale presso la malferma e pericolante chiesetta, segnata frontalmente da una lunga spaccatura, regalo indesiderato di un terribile fulmine.

Un visitatore forestiero che fosse entrato durante la messa, si sarebbe di certo chiesto perché   i fedeli sostassero tutti in prossimità dell’uscita. Il modesto cimitero annesso, infine, riceveva le sepolture dei locali. I familiari dei defunti mai avrebbero accettato le inumazioni presso il grande camposanto più a monte.

La sera del 2 Novembre del 1933, nonostante la stagione già precocemente rigida, imbacuccati alla bella  meglio, un folto gruppo di vicini sostava presso il desco del ciabattino affabulatore. La ricorrenza, esaurite durante il giorno le incombenze in onore dei morti, veniva infatti consacrata a fine giornata all’ ascolto delle vecchie e nuove fantastiche storie del calzolaio che attraevano ed impaurivano allo stesso tempo.

Si avvicinava l’ora del commiato quando  ziu Trabadore , con voluta nonchalance, riferì  che la notte prima un anziano del rione, defunto da tanto tempo, gli aveva descritto in sogno il luogo dove si trovava “un’ ischisorgiu” (un tesoro), aggiungendo che entro la mezzanotte, e solo entro questi precisi termini di tempo, lo si poteva andare a cercare e recuperare. Passato tale periodo sarebbe stato inderogabilmente risucchiato nelle viscere della terra. Per portare felicemente a termine l’impresa occorreva che durante le operazioni di scavo venissero recitate precise orazioni, diversamente una terribile turba di diavoli sarebbe  risalita dalle profondità della terra trascinando, sin nelle più profonde grotte dell’Inferno, non solo il tesoro, ma anche i trasgressori delle regole assegnate. Concluse la storia dicendo che lui, benché attratto, si tirava fuori quell’impresa per l’alto rischio che essa comportava.

A fine serata, più o meno impressionati da quella misteriosa storia, con le parole del calzolaio ancora nella mente, tutti  si ritirarono  in  casa .

Due tra essi però poco dopo ne uscirono guardinghi. Pala e piccone in spalla, presero la via dell’Eldorado. Per ziu Trabadore non fu una sorpresa. Non  gli era infatti sfuggito che i due, marito e moglie, durante il suo racconto si erano mostrati oltremodo scettici. La loro  insistente opera di dissuasione presso i compaesani, circa la fallacia di superstiziose leggende, gli era parsa eccessiva. Il calzolaio aveva artatamente gettato la sua esca catturando la coppia di stagionati tonni. Ora, non visto, li seguiva discreto. Arrivati  sul posto i due presero a contare i passi, come indicato dal divinatore. L’uomo individuò quello che riteneva essere il punto preciso in cui scavare per recuperare il fantomatico tesoro:  a ridosso di un enorme, granitico masso. Mentre Antonio, questo il nome del cercatore, a fatica, infilava il badile sulla dura terra, Margherita, sua moglie, recitava le preghiere raccomandate. Ora, l’indicazione precisa e completa fornita dal calzolaio prevedeva che, alla fine di ogni sacra cantilena del recitante, lo scavatore dovesse dire “Amen” e tempestivamente chi recitava doveva a sua volta ripeterlo, pena la già citata sortita dei diavoli con conseguente trascinamento delle improvvide anime dentro l’orrido ed infero baratro.

Antonio scavava oramai da ore, sudava e sbuffava come un mantice. Margherita, inginocchiata al suo fianco, aveva già nominato, invocandoli a protezione, non meno di trecentocinquanta tra santi, beati e pie donne Passarono altre due ore. Nel frattempo una meravigliosa e luminosa luna inondò d’argento quel paesaggio bucolico e sabbatico al tempo stesso. Complice il conciliante chiarore lunare, pian piano la palpebre della donna diventarono pesanti e la sua voce, impastata dal sonno, sempre meno percettibile. Ziu Trabadore, nascosto dietro un albero, attendeva paziente. Ad un tratto Margherita si destò di soprassalto.  Antonio gridava terrorizzato: “Margherita, ischida (svegliati) appo nau (ho detto) Amen, Amen, Ameeeen!”. La donna, disorientata, strabuzzò gli occhi. Quel marasma segnò il momento atteso dal calzolaio. Infilate le mani in tasca, cavò fuori dei piccoli petardi, diede fuoco e li lanciò, non visto, tra le gambe dei due malcapitati. I botti presero a scoppiare in successione; i due, come una sola persona,  indemoniati, si diedero ad una forsennata e  precipitosa fuga lungo gli impervi sentieri. “I dimonios!!” (Idiavoli!!) urlava Antonio impazzito di paura. Lanciò per aria il badile che ridiscese perpendicolarmente al suo lato sfiorando la testa di Margherita che  rapida, dimentica della sua stanchezza lo aveva oramai  affiancato e si accingeva  a superarlo.

Raggiunsero trafelati la loro abitazione e vi si barricarono. Accesero tutte le candele a disposizione. La mattina seguente uscirono circospetti. Margherita, volle ripristinare la solita normalità, versò una catinella d’acqua a terra per evitare che si sollevasse polvere, presa poi la ramazza, si mise a spazzare davanti all’uscio. Lo fece direttamente sulle scarpe bagnate del marito. Questi a sua volta, prima di avviarsi verso il suo orticello, si fece non il solito segno di croce, ma ne sfoderò addirittura almeno dieci in rapida sequenza. Vedendolo passare sfuggente, Ziu Trabadore lo chiamò dicendogli di aver rivisto in sogno l’anziano defunto che gli aveva dato ulteriori ed interessanti dettagli. Ma Antonio era già scomparso fulmineo, dietro l’ultima casa del rione. Gli giunse però, seppur ormai lontano, l’inconfondibile, potente e sardonica risata che il ciabattino riservava alle speciali occasioni di divertimento.

L’estate del 1969 la trascorsi nel solitario rione. Era la fine di luglio. Ricordo che ebbi con lui  una lunga disputa che verteva sul mio essere, a suo dire, troppo credulone. Pose fine allo sfibrante match dicendomi: “ho passato tutta la mia vita ad inventare e raccontare storie inverosimili ed oggi, alla mia non più tenera età, dovrei crederti quando dici che dieci giorni fa l’uomo ha passeggiato sulla luna! Che fai mi prendi in giro?”. In autunno partii per l’Università e quella fu l’ultima volta che vidi mio nonno.

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15 commenti »

  1. E’ un racconto surreale, dove magia e realtà si intrecciano come nella vita di fatto della Sardegna più vera. Non c’è invenzione, ma conoscenza dell’anima sarda.

  2. un racconto divertente sul filo dalla memoria,

  3. Bravo, molto carino e interessante questo racconto, memoria, un personaggio molto ben disegnato e il richiamo alla lingua.Sarebbe bello poter sapere altro di questo spaccato qui intravisto, magari dopo che avrai vinto potrai scriverci qualcosa di più lungo? Auguri. Se vuoi puoi leggere la mia storia per corti qui: http://www.raccontinellarete.it/?p=5424
    saluti Francesca

  4. Un ottimo esempio di come memoria e narrativa possano fondersi creando una storia avvincente e catartica.

  5. Davvero un bel racconto nel quale, oltre all’originalità del tema trattato, si aggiungono una grande capacità descrittiva e uno stile molto personale. L’uso di termini sardi caratterizza il testo, conferendogli una valenza storica e ambientale. Sembra rinviare ad alcune novelle di Pirandello per l’ironia che l’attraversa e per la singolarità dei personaggi, al contempo reali e fantastici.

  6. Ringrazio Alessandra per l’apprezzamento. Ho piacere di comunicare con tutti voi, trovo che si respiri un clima rilassato e stimolante e che ci sia un reciproco rispetto anche se si valutano temi e stili i più diversi . Sono scappato da altri contesti perchè si finiva per disquisire su come collocare nel testo le avversative o le congiunzioni. Per carità, non voglio dire che la grammatica non sia importante e non debba essere curata, ma le idee e l’originallità non possono essere marginalizzate dai soliti pedanti professori a vita. Sono un neofita, perlomeno nell’ambito della scrittura di racconti e romanzi e dunque sono molto interessato a leggere quanti più racconti possibili. Ciao a tutti.

  7. Bel racconto, ironico e ben scritto. Le immagini del paese e dei personaggi sono rese benissimo. Complimenti!!

  8. Un racconto ben strutturato dove il fantastico è incastonato con maestria nel reale. Viene in mente il “non è vero ma ci credo”. Non manca la morale: molti sono disposti a credere anche al soprannaturale e alla magia se pensano di poterne trarre un profitto. Mi ricorda il desco del calzolaio che anche nel mio paese, così lontano dalla Sardegna, era posto sulla strada. Azzeccato il richiamo a Pirandello di Alessandra Ponticelli, a me però ha fatto pensare ad Ambrose Bierce.

  9. Mi è piaciuta l’atmosfera fiabesca e primitiva di questo racconto. E’ il mondo della prima giovinezza del protagonista, quello in cui il tempo si è fermato e fissato nel ricordo. Credo che molti di noi vagheggino una sorta di mito personale di un certo periodo della propria vita e dei personaggi che l’hanno animato. Qui il nesso tra mito e autobiografia viene abilmente chiarito nel finale che rivela l’identià dal ciabattino.

  10. nel finale ziu Trabadore ha difeso il suo mondo. si empatizza immediatamente con i personaggi. è un racconto molto bello e ben scritto. colpimenti.

  11. Ho letto volentieri il racconto, ricco di caratterizzazioni e accattivanti particolari descrittivi : Ziu Trabadore è un personaggio che ti conquista immediatamente, simpatico, burlone, pronto a vivere la vita senza prendere tutto troppo sul serio e capace ad insegnarti a fare altrettanto.Ha ragione lui, possiamo credere a tutto o a niente, l’importante è sentirsi bene e a proprio agio nelle proprie convinzioni…E poi, siamo davvero sicuri che l’uomo abbia passeggiato sul suolo lunare in quel lontano Luglio del ’69 ? Complimenti Franco e…buona lettura !

  12. Grazie per il tuo commento. Non si tratta di una storia autobiografica. Per fortuna! Di vero c’è il mondo della scuola, dove sono quotidianamente impegnata, con le sue luci e ombre. Complimente per il tuo magico racconto.

  13. Mi piace lo stile: essenziale e ricco nello stesso tempo, fortemente descrittivo e gradevolissimo nel raccontare, soprattutto mi piace l’ironia sottile sparsa sulla storia!!
    Auguri!! E grazie per il commento fatto al mio racconto.

  14. E’ un bel racconto in cui si intrecciano favola e realtà.
    Sullo sfondo un borgo della barbagia, che conta trecento anime, in cui le casupole sono addossate le une alle altre.
    Il protagonista è un uomo ricco di creatività, inventiva e ironia. Inoltre narratore generoso, con il gusto per lo scherzo e il divertimento.
    Ne sanno qualcosa Antonio e Margherita, che hanno fiutato aria di monete sonanti e hanno risposto al suo appello per dar vita alla caccia al tesoro. Ma certo non si lasceranno convincere a riprovarci un’altra volta.
    Anche se agisce da solo e in una differente ambientazione geografica, la Sardegna, lo scherzo del protagonista ricorda quelli degli autori delle “zingarate”, i personaggi della serie cinematografica di Monicelli.
    Molto bella la chiusa, in cui viene rivelata l’identità di Ziu Trabadore.
    Legittimo il suo scetticismo, di fronte a quella notizia della “passeggiata sulla luna”.
    Nel contesto del racconto, in fondo anche al lettore viene il dubbio che sia frutto della stessa inventiva che il nipote ha sicuramente assimilato dal nonno.

    Nikki Simonetti
    Gioacchino De Padova

  15. Bel racconto, farcito da delle ottime descrizioni paesaggistiche. è bello, in questo centocinquantennio dell’unità d’Italia, avere la possibilità di poter saper qualcosa in più delle singole regioni che danno consistenza alla nostra nazione. A maggior ragione quelle che, sfortunatamente, non è ancora stato possibile visitare di persona. E, ancora più delizioso è scivolare, con la docile ironia che caratterizza il tuo racconto, nel passato del nostro Paese: un passato in cui il miglior intrattenimento per la comunità risedieva nelle mani degli anziani, i quali potevano permettersi il lusso di prendere in giro i più creduloni, senza catastrofiche conseguenze.

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