Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Una vita fa” di Orietta Mele

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Provengo da un luogo privo di mare. Quando ero molto piccolo avevo memorizzato un nome, mi sembra fosse Caserta, o qualcosa di simile. C’erano case molto vecchie intorno alla mia e strade strette e un po’ scoscese, panni battuti dal vento e forti effluvi di cibo. A scandire giornate quasi sempre uguali. Quando fuori cadeva la pioggia, o nelle notti più fredde, la bimba con le trecce mi copriva con un panno morbido, caldo e peloso, ma io preferivo di gran lunga il posto sul soffice tappeto accanto al lettino. La mia giovane vita era avviata proprio bene quando, non molti giorni dopo, arrivò un insolito cambiamento. L’aria si era fatta caldissima, la luce accecante, persino il pelo bagnato non bastava a dare refrigerio. Il professore, la moglie e la mia piccola, fidata, amica riempirono enormi borse e in men che non si dica le trasferirono nel mio consueto posto nel retro dell’auto, misero me sul sedile accanto alla bimba e partimmo tutti verso non so bene quale destinazione. Io, che li ascoltavo sempre con attenzione ossequiosa assorbendo avidamente ogni sfumatura del loro linguaggio, riuscii non senza fatica a percepire che eravamo diretti verso un posto che aveva nome Vacanza, ma forse anche Anzio, dove ci aspettava una nuova casa e un non meglio identificato mare. Un po’ mi intristì l’idea che forse non saremmo mai tornati alla nostra primitiva tana, ma maggiore sarebbe stato il mio turbamento se avessi anche solo lontanamente immaginato ciò che mi aspettava.

I primi tre o quattro giorni furono per me, come disse il professore, di difficile ambientamento. Sì vabbè… La casa era comoda, il giardino spazioso, di notte ci si poteva sdraiare e russare sull’erba bagnata, ma la piccola con le trecce passava quasi tutte le giornate in un posto chiamato Stabilimento balneare ed io rimanevo lunghe ore ad aspettarne il ritorno.

     La sera le cose miglioravano decisamente; la signora, ancora calda di sole e leggermente salata, dopo la mia consueta, scomposta dose di coccole, mi conduceva verso quella che chiamava Spiaggia libera, dove finalmente poteva slegarmi e assistere sorridendo con pazienza – che bello quel sorriso, lo stesso della piccola di casa – alle mie folli evoluzioni tra la sabbia tiepida e la riva di quell’insieme piacevole, schiumoso, francamente bagnato, così diverso da quell’odioso bagno mensile al quale dovevo assolutamente sottopormi. Sicuramente avrei finito per adattarmi alla nuova situazione, se non ci fossero stati quella sera e quell’incontro. La spiaggia vuota, quella bellissima luce color arancia matura laddove finiva il mare, la mia accompagnatrice distratta da un incontro occasionale: tutto cospirò per favorire la mia involontaria fuga. Avvenne in pochi istanti: la vidi scodinzolare sul lungomare, sola, bellissima, altera, il manto rosso acceso di riflessi d’oro dagli ultimi raggi del sole. Non ebbi esitazioni, mi diressi veloce verso di lei, l’annusai discretamente e, visto che non disdegnava, presi a seguirla passo passo. Quella passeggiata lunghissima e faticosa segnò la fine della mia prima fase di vita e l’inizio di una nuova avventura, anche se allora non ne ero consapevole. Era già scesa la notte quando ormai, superati diversi quartieri, giungemmo in una zona interna, lontana dal mare, dove le case si diradavano e sorgevano quelli che sentii poi definire Cantieri.  Proprio in un edificio non ancora ultimato viveva la Fulva: così ribattezzai il giorno dopo la mia nuova amica, ascoltando degli uomini in tuta che alzavano muri: «Ehi Mastro Nicola, ha visto che la vecchia cagnetta fulva si è trovata un nuovo amico? E tu da dove sbuchi? Sta a guardare che adesso dobbiamo sfamare anche te!». Tutto sommato quello fu un periodo niente male, anche se il cibo non era molto e i miei iniziali tentativi di ritrovare la famiglia del professore si risolsero tutti in inutili, fallimentari ricerche. La Fulva mi seguiva compiacente e silenziosa in quello sterile, sfiancante peregrinare, forse chiedendosi quale ne fosse lo scopo. A volte, nei primi giorni, avevo persino la sensazione di ritrovare le mie fattezze in alcuni fogli appesi su tronchi d’albero, muri o vetrine lungo il nostro andare, ma mi ero convinto che ciò non avesse alcun rapporto con me. La sera però si stava bene: il cantiere si svuotava e noi restavamo accucciati in un antro fresco, vicini vicini, a strofinarci il muso l’uno con l’altra. Solo quando le foglie cominciarono a cadere, le piogge si fecero frequenti e sbiadirono i fogli appesi, quel cantiere fu chiuso e dovemmo cercarcene un altro, cominciai a capire che non avrei mai più rivisto la piccola con le trecce. E così piano piano cominciai a dimenticare, passarono i mesi, poi gli anni (credo almeno un paio), e io e la Fulva, sempre inseparabili, cambiando spesso rifugio, a volte cacciati in malo modo, esposti ad intemperie e privazioni, abbiamo visto scorrere diverse stagioni facendoci reciproca compagnia, cercando arditamente il molto e dividendo il poco. Da alcune settimane però c’è una triste novità: sono solo, la Fulva un bel mattino non si è più svegliata, fredda e rigida al mio fianco, non ha risposto alle mie effusioni. Inutilmente ho cercato di scaldarla. Doveva avere ragione mastro Nicola quando diceva che io ero molto più piccolo, e presto lei che aveva già dei fili d’argento e il nasetto scorticato mi avrebbe lasciato solo. Gli abitanti delle nuove villette, dopo molte ore, sentendomi uggiolare disperato l’hanno messa in un lenzuolo e portata non so bene dove. Io non l’ ho più vista. Ora le mie giornate sono assai più lunghe e, visto che sono molto cresciuto e la mia mole non passa proprio inosservata, difficilmente gli umani mi allungano una carezza. Del cibo invece non mi importa molto; prima lo cercavo anche per Fulva, essendo lei più esile e ritrosa, ma ora me ne basta pochissimo, magari anche di pessima qualità. Per la sete c’è sempre la fontana. Spesso, come oggi, mi allungo verso la strada che collega la periferia di Nettuno con Anzio, verso il nuovo ospedale di fronte al quale, nella zona dei cantieri, tra sterpaglie e materiali edili, ho passato gran parte della mia vita fin qui trascorsa. Vedo che qualcuno, tra gli operai, mi riconosce al passaggio e magari mi indica, ma nessuno fa per avvicinarsi, al massimo mi tirano un pezzo di pane o un osso non ancora spolpato. Oggi fa veramente caldo, deve essere di nuovo tornata la stagione delle vacanze, faccio fatica a camminare, ma se riesco ad avvicinare l’ospedale, accanto alla fermata del bus c’è una serie di cassonetti ben forniti o qualcuno di buon cuore che magari, mosso a pietà, si priva di un pezzo di pizza o di un biscotto. No, non vedo la macchina che giunge veloce in sorpasso, mentre un po’ troppo lentamente attraverso la via trafficata. Non sono così stupido, se l’avessi vista avrei tentato di accelerare l’andatura o di scantonare. Invece finisco sotto le ruote in un turbine di peli, polvere e schegge di chissà cosa. Che botta! Forse è quello che gli umani chiamano Avere un gran dolore. Di provare a rialzarmi no, non se ne parla proprio, mentre qualcuno si avvicina e dice parole strane, senza senso, guardando un po’ me e un po’ la parte danneggiata della sua auto. Accanto a me, dalla corsia opposta, è appena arrivato un motorino, e meno male che si è fermato in tempo, sfiorandomi, senza colpirmi anche lui. Ne sono scesi un ragazzo e una ragazza molto agitata. Lei gli urla di fare in fretta mentre lui sembra parlare dentro una scatoletta, accostata al suo orecchio, chiedendo a qualcuno se possono portarmi non so bene dove, con l’aiuto del tizio della macchina. Il ragazzo gesticola un po’ mentre aspetta non so bene che risposta, sembra molto preoccupato per me ed è circondato da diverse persone che parlano tutte insieme. Io, da parte mia, vorrei dirgli di stare tranquillo perché ora sto proprio bene e avverto persino meno dolore visto che la ragazza seduta sulla strada accanto a me, ignara della lunga fila di macchine, mi ha coperto con qualcosa di morbido e profumato, ha messo la mia testa sulle sue gambe e mi accarezza lievemente senza alcun timore o repulsione, anche se certo non devo avere un bell’aspetto ed è molto che non faccio un bagno. Mi guarda fisso, mi parla dolcemente senza staccare lo sguardo dal mio. Vorrei che non si preoccupasse così per me. Va tutto bene. Se ho ben capito, se la storia si mette male potrei magari raggiungere la Fulva, ma se tutto andasse per il verso giusto forse avrei trovato una nuova amica. Conosco questo sguardo e il tono affettuoso con il quale mi dice che andrà tutto bene e che lei non mi lascerà un istante. Ha occhi bellissimi, acquosi e profondi ed ecco che un ricordo che credevo sepolto affiora dal passato. Qualcuno in un tempo lontano mi ha già guardato nello stesso modo, anche se gli occhi erano diversi per forma e per colore, forse una bimba con le trecce quando ero ancora amato, coccolato, importante.

Una vita fa.

Da cucciolo.

 

Loading

1 commento »

  1. Non rimango quasi mai indifferente quando si parla di animali. Se leggi i miei racconti, anche quelli che hanno partecipato alla precedente edizione di questo concorso, capirai perché. Spesso l’umano tende all’animalesco e l’animale all’umano. Una cosa importante si evince da questo tuo bel racconto: anche gli animali hanno un’anima.

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.