Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Par che m’inviti ad amarlo, stasera, il mare” di Sergio Compagnucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Squillò in piena notte e, benché il tempo mi sembrasse tutt’a un tratto sospeso, ricordo che mia madre parlò al telefono per poco: quindici, al massimo venti secondi, la recita di un’avemaria. Con l’amen riagganciò, e il suo dolore lamentoso fu il grano successivo.

Neppure oggi saprei descrivere cosa provassi in quel momento, ma quando la mamma, qualche giorno dopo, mi supplicò di non andare, capii di aver ereditato la cocciutaggine di mio padre e, pedalando verso il futuro, iniziavo a sospettare perché esistessero Pinocchio e la simbologia del naso: con il ricatto dell’ubbidienza i grandi tentavano di trattenerci più a lungo con loro.

Pedalavo e pedalavo, il cuore in gola, incurante del sudore che mi ghiacciava la schiena e, ignorando che si trattava di una fuga, mi ripetevo di dover fare in fretta quasi avessi una meta vera, senza poter immaginare che non sarei arrivata neppure oggi – trent’anni dopo.

Conoscevo la strada, papà, ti avevo seguito in bicicletta tante volte, sino all’incrocio con la provinciale. Ma poi imboccavi la via del mare, dritta, fino alla pineta, e lì ti perdevo.

Va al mare, il mio papà, lui ama il mare, mi rassicuravo, nel guardare la moto che rimpiccioliva in lontananza. Poi un punto nero, poi più nulla.

Me ne tornavo indietro senza capire perché provassi gusto a schiacciare i trattini della mezzeria con la gomma anteriore. Oggi lo so. Voglio dire, so che una bambina fiuta talvolta le cose senza toccarle, come i cani ululano un istante prima che la terra inizi a tremare. Nello sfrigolio della gomma sull’asfalto, simile a una patatina frizzante nell’olio, presentivo la colpa di quei piccoli traditori bianchi.

L’asfalto squagliava come oggi nell’afa densa e immobile di agosto. Frenai di scatto tirando forte le leve con entrambe le mani e, quando la ruota davanti iniziò a sbandare, d’istinto misi giù i piedi planando sull’asfalto, ritrovandomi all’interno della sagoma bianca disegnata sulla strada. Un attimo dopo – carponi sulla carreggiata, le mie lacrime che svaporavano sull’asfalto – accarezzavo la tua impronta, papà.

Era la prima volta che scoprivo la cupezza del nero e, senza rendermene conto, la più classica delle combinazioni cromatiche si stava in me tabuizzando, così che d’ora in avanti non sarei mai più riuscita a scrivere sulla lavagna con il gessetto bianco.

Nel fissare rabbiosamente la linea della mezzeria, ripensai con amarezza al giorno del funerale, ai mormorii levatisi da un capannello alle mie spalle sulla scalinata della chiesa.

“Com’è successo?” – Don! – “Dicono una macchina…” – Don! – “Dove andava?” – Don! – “Sicuramente da lei…” – Don!  Cadenzati e grevi come i rintocchi a morto che piovevano dal campanile.

Oh, certamente erano venuti anche loro a curiosare sul luogo dell’incidente, papà, per raccogliere quanti più particolari possibili: la posizione della sagoma, le tracce dell’incredibile scarrocciamento sino alla banchina… insomma, per vedere. Ma la concupiscenza degli occhi non permette mai di vedere come stanno realmente le cose. Eppure era così evidente: quei maledettissimi pezzetti bianchi ti trafiggevano il petto. Qui, sul taschino del tuo giubbetto, papà, sulla mia foto che portavi sempre con te. Non avevano avuto pietà neppure del sorriso di una bambina: sfregiandolo per sempre, si erano macchiati del peggior sacrilegio.

Maledetti!

Ripresi a pedalare imprecando contro di essi, con una stretta sul manubrio nervosa e tremolante, verso il mare. Era là che andavi, vero, papà? Non esisteva nessuna lei.

Quando scesi dalla bici, volgeva ormai al crepuscolo.

Una voce di donna mi trafisse il cuore. E come riuscii ad aprirmi un varco nella siepe, vidi una lei anziché il mare.

Perché non c’era il mare, papà?

Mi rimisi in sella, pedalai forte come prima e ti sussurrai in segreto ciò che non avrei mai voluto dirti: non eri tu ad avermi abbandonato, papà, ero io che potevo fare a meno di te. Te lo dissi rabbiosa – una due tre mille volte – ma la paura non mollò la presa.

È la stessa di oggi. La paura di perdere ogni cosa e di non essere all’altezza, quella che su tutto, come sul rombo esuberante di una moto, possa calare all’improvviso un glaciale silenzio. Il terrore di non afferrare ciò che mi sfugge e quello che mi sfugga ciò che ho appena afferrato. Il timore opprimente di non acchiapparla, la felicità. E questo vuoto, che mi ha condotta troppe volte dentro braccia vuote, esposta a baci ostinati, intrappolata in dedali senza ritorno.

Forse stasera è diverso.

Ho ripreso la bici, la stessa di allora, ho pedalato sino all’imbocco con la strada dritta. Pedalerò e pedalerò e pedalerò, senza mai fermarmi fino alla meta.

Nel tornare al mio primo momento di donna, a quel primo maggio in cui la verginità mi si tinse di rosso, mi pare incredibile che, malgrado il tempo trascorso, stia ancora qui, a pedalare.  E se ripenso all’altro momento, in cui si sciolse nel rosso, mi assale la tristezza per aver bruciato i tempi. Mi dico allora per consolarmi che quasi mai l’età anagrafica coincide con quella vera, ma in realtà non riesco ad accettare di aver pedalato a lungo senza portarmi dietro tutto. Una parte di me è rimasta là, sull’asfalto, ad accarezzare la tua sagoma, papà. L’ansia conosce il valore della fedeltà, mastico amaramente, ogni volta che la smania mi fa sbagliare in anticipo.

“Cercare di sostituire il calore di una carezza paterna con il bacio di un fidanzato è l’amara illusione di un’adulta destinata a restare bambina.”

Non so neppure oggi quale fosse il suo scopo e ogni volta mi chiedo se feci la cosa giusta, ma quando, appena laureata, l’analista inquadrò così il mio problema, immaginavo alludesse a una specie di archetipo del carachiri stampato nel mio inconscio. Perciò lo interpretai come un epilogo anziché come un prologo e, vista la diagnosi senza scampo, decisi di troncare la terapia – tra l’altro very expensive.

Il sentiero è quello di allora, papà. Lo percorrerò tutto, stasera voglio andare sino in fondo.

Muovo qualche passo addentrandomi nella pineta finché il buio appiccicoso del sottobosco, con uno scarto repentino, mi scippa nel pugno della sua mano.

Sopra di me, la maglia fitta dei rami lascia trapelare solo spiragli di luce lunare. Proseguo a piedi nudi, le scarpe in mano, e sento gli aghi di pino afflosciarsi sotto le mie piante procurandomi qua e là un cenno di dolore. Allora, per farmi forza, mi figuro il giorno: gli aghi di pino non pungono più soltanto, ma ramano il sentiero; i fruscii nascosti e nervosi vibrano dentro la scorza verde di lucertole impaurite, mentre il frinire delle cicale impetra il sottobosco. Sopra di me, un ombroso viluppo di chiome fitte fitte in cui occhieggiano lembi irregolari dell’azzurro terso del cielo.

E la notte, come un sipario triste, cala nuovamente, finché da dietro le quinte mi raggiunge: il mare!

Prima il verso, e un istante dopo il salmastroso odore. Il mare! Biancheggia nel buio come l’ampia risata di un africano. Sorride, stasera, il mare, srotolandosi in capriole infinite e tendendo ogni volta il bianco della mano. I miei piedi affondano nella sabbia sempre più spessa morbida faticosa.

La temperatura è gradevole e adesso, con lo sciabordio delle onde che accarezza i timpani, noto l’arco di luna stagliarsi nel placido cielo. Mi siedo sulla battigia come una bimba infreddolita dinanzi al fuoco di un camino: non è forse il calore che chiedo al mare? Affondo una mano nella sabbia compatta e, quando faccio per asciugarmi una lacrima sulla gota, un granello mi trafigge il cuore. È la stessa sabbia dei castelli, delle corse trafelate con l’eco dell’innocente allegria… è la sabbia della clessidra che giravo di nascosto perché le favole non finissero mai. Avrei voluto spiarti mentre incantavi i miei figli con le tue magiche affabulazioni, per questo ti amerò o ti odierò per sempre – non so ancora decidermi, papà.

Mi manca ogni cosa fatta con te e, di più ancora, quelle non fatte, e le parole non dette. Una domanda su tutte, papà: perché hai smesso di considerare tua, la nostra casa, quando avevo solo tre anni? Te lo avrei chiesto una volta diventata grande, mi consolavo ogni sera da sola. Oggi che sono grande lo chiedo al mare come a un amico che non può tradirmi.

Niente di nuovo sotto l’arco di luna. Anche stasera sento che non ci sto riuscendo: mi chiuderò aridamente come una rosa di Gerico fuori dall’acqua, scoccando l’ennesimo no a rievocarmi quello che mi trafisse bambina. Ma sarà proprio la vita che sento pulsare nella stretta della rosa a tessere per me, domani e domani ancora, il filo della speranza.

Eppure sento che stasera è diverso.

No, non voglio più essere quella di sempre: sono stanca di contemplare la battigia come l’estremo confine. Par che mi inviti ad amarlo, stasera, il mare – ammicco impudica a me stessa – e un attimo prima della vergogna, è l’acqua a toccarmi. Nuda, le bisbiglio di prendermi fra le sue braccia. Chiudo gli occhi, allora, e mi abbandono alle sue carezze. Monta il piacere, a poco a poco, finché avvampa di colpo con uno scatto repentino: serro l’inguine e lascio che il corpo fluttui morbidamente nell’acqua, e la mente scappi dove le pare. Tutti i desideri del mio passato, tutti quelli che si sono affacciati lascivi senza appagarmi, quelli che ho tentato di acchiappare nelle più recondite fantasie dei sogni, quelli che mi hanno ammiccato crudeli dopo i giochi dell’amore, si sono fusi insieme e formano la cosa che sento crescermi dentro.

Apro gli occhi e vedo l’arco di luna tendersi tremolante sulla pelle dell’onda solo un attimo prima che la freccia mi trafigga.

Cos’è, ciò che sto provando?

E’ come aver sognato nel sogno, riso nel pianto, goduto nel dolore.

Tra gli opposti sentimenti vibra solo un battito di ciglia, medito in segreto. Ora che tutto tace.

«Buonanotte» sento uscire dalle mie labbra, mentre una lacrima mi riga la guancia.

«Buonanotte» mi fa eco la voce dell’uomo che ho accanto. Le linee del suo palmo – lunghe e diritte come sognavo la tua vita, papà – mi asciugano la guancia con l’odore fresco dell’amore che ci ha appena vinto. Sento il suo battito ancora inquieto ticchettarmi sulla schiena, e la mia rosa torna a chiudersi per covare meglio ciò che la luna le ha dato in dono.

 

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