Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Federico” di Elisa Generoso

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Le falene sbattevano ansiose le ali contro la porta a vetri dell’ospedale. Lei osservava la scena immobile, nascosta nel buio, le spalle incollate al muro bagnato di una strada deserta. Aspettava da ore. Appoggiata a quel muro aveva visto la pioggia andarsene verso sud e la giornata spegnersi lentamente.  Aveva visto infermieri uscire per fumare una sigaretta, e piccoli gruppi di dottori ridere e parlare in disparte. Da lì aveva visto arrivare i primi visitatori. Persone che entravano e uscivano. Famiglie, bambini, donne sole, vecchi, tanti vecchi e la porta a vetri dell’ospedale che si apriva e chiudeva in continuazione. Poi, improvvisamente la sera si era messa accanto a lei e, mentre respirava silenziosa appoggiata allo stesso muro, lo spiazzo davanti all’ospedale si era pian piano svuotato e la porta a vetri aveva smesso di aprirsi con tanta frequenza. Quando infine anche la sera la lasciò sola, dalla notte che saliva su dai campi lì attorno arrivarono le falene. Seguivano sentieri tortuosi, dall’ombra odorosa e umida fino alla luce bianca che da dietro le porte dell’ospedale straziava l’oscurità immobile. Lei appoggiata a quel muro umido le aveva viste arrivare. Tre, venti, cento, mille falene. Il cielo nero sopra la sua testa pulsava dei battiti polverosi delle loro ali, i loro occhi rispecchiavano la stessa luce che accecava anche lei. Era una questione di attimi e quell’attesa sarebbe finita. Nascosta nel buio, le spalle incollate al muro bagnato di una strada deserta, lei era come le falene, aspettava. Poi dal fondo della hall vide arrivare due ragazze. Le falene, man mano che le ragazze si avvicinavano all’uscita, si contorcevano e sbattevano le ali sempre più violentemente. E ancora di più, come dei dervisci impazziti giravano su se stesse, picchiettavano la superficie dura e fredda del vetro. Poi le ragazze si fermarono. Un sorriso largo e muto sulle loro labbra, due baci e un abbraccio che sembravano non finire mai. E ancora le falene a sbattere più forte contro il vetro freddo. Solo il tempo di un altro sorriso. Poi la porta si aprì automaticamente, e finalmente le falene furono risucchiate dentro.

In quell’istante la sua schiena ricurva sentì la forza irresistibile del richiamo, e si staccò di qualche millimetro dalla superficie bagnata del muro. Ma fu solo un istante, e il peso dell’immobilità la fece ricadere indietro. Un brivido le entrò dentro le ossa. Tremava. I vestiti zuppi di pioggia, lo chignon disfatto, le scarpine di pelle consumata annerite dall’acqua. Il temporale ormai era lontano, e la notte rapida e fredda preannunciava la fine di un’ altra estate. L’inizio di un altro inverno. Inaspettatamente la vecchia abitudine di pensare all’autunno come a un nuovo inizio la colse di sorpresa. Le succedeva fin da bambina, quando aveva cominciato ad andare a scuola, e continuò a succederle anche dopo, quando ormai entrava nell’aula non più per sedersi al banco, bensì dietro a una cattedra. Allora Settembre la inebriava col profumo di un futuro possibile. La vita come desiderio, come una promessa che in fondo non importava mantenere, finché semplicemente bastava desiderarla. Un incantesimo. Per questo le era sempre piaciuto Settembre. Anche in quel momento, quando in un angolo buio di una strada deserta tornò a sentire tangibile la speranza di una vita piena senza bisogno di essere vissuta e le salì in bocca quella stessa gioia antica che pensava aver dimenticato. Da tanto non le accadeva di sentire il domani. Gli anni, i mesi, i giorni, ogni singolo minuto, ogni secondo vissuto le era rimasto appeso ai fili grigi dei suoi capelli annodati, distrattamente. E ormai che la linea del tempo era stata innaturalmente spezzata, pensare al futuro o al passato era come scrivere con una penna senza inchiostro. Solo il presente le restava, l’accudiva, proteggendola nella sua bolla effimera, riflettendo un’immagine che era sempre uguale a se stessa. Ogni mattina quel presente aspettava paziente il suo risveglio, versava il caffè nella tazza vuota, guidava il suo bastone nel parchetto sotto casa. Anche quel giorno era salito con lei sull’autobus, e l’aveva accompagnata fino a lì, necessario e sordo, un istante dopo l’altro fino a quel momento. I vestiti zuppi di pioggia, lo chignon disfatto, le scarpine di pelle consumata annerite dall’acqua. Appoggiata contro il muro umido e buio anche la gioia appena ritrovata di avere un domani le si spense muta nel petto. La bocca socchiusa in un urlo vuoto, vuote le braccia, vuoti gli occhi che ripresero a guardare il cielo. Dalla notte scura altre falene invisibili stavano arrivando, dondolando incerte verso la luce. Presto anche quei piccoli corpi avrebbero lasciato sulle porte della hall dell’ospedale nuove impronte di ali ferite, e la loro essenza umida e viva si sarebbe appiccicata al vetro freddo e indifferente. Non potevano resistere, e lei, ormai sprofondata in quel muro immobile, non poteva più aspettare.  Era il 12 Settembre, ancora una volta, e quella luce oscura la chiamava, così come chiamava dall’ombra le falene ipnotizzate. Era il 12 Settembre. Chiuse gli occhi. La luce continuava lì davanti a lei. Allora, tenendo di nuovo gli occhi ben aperti, guardò dritto davanti a sé e, come quando da bambina stava per tuffarsi dallo scoglio più alto e le tremavano le gambe, trattenne il respiro, ed entrò.

Dentro si lasciò sommergere dalla luce. Per un attimo non ci fu che lei, luce che confondeva e nascondeva quello che era stato. Poi piano piano cominciò a ricordare e a vedere. Al posto dei telefoni a gettoni messi in fila alla parete, brillava una vetrina piena di peluche e libri dalle copertine colorate. E là, dove prima c’era il tavolino del portiere, Salvatore si chiamava, troneggiava alta e monumentale la Reception illuminata da una fila di faretti alogeni. Solo l’ascensore era rimasto uguale. Salvatore non permetteva mai che fosse lei a schiacciare il bottone per chiamarlo. Arrivava trafelato trascinando la sua gamba morta, poi si toglieva il cappello e impacciato faceva una specie d’inchino aggraziato con la testa. Avrebbe fatto di tutto per farla sorridere, Salvatore. Anche quando lei la notte percorreva di stanza in stanza la grande casa vuota sulla collina, Salvatore, dimenticato in un quartiere popolare della città bassa, seduto in silenzio su una sedia dai bordi sbeccati cercava storie da raccontarle, sperando che il giorno dopo l’ascensore ci mettesse più tempo ad arrivare.  E a volte ci riusciva a strapparle un sorriso, prima che l’ascensore la portasse via.  Poi un giorno Salvatore smise di venire a lavorare e lei non se ne accorse. Non si chiese perché lui non era lì a farle il suo stupido inchino, non le mancò, non ci pensò. Il tempo era già diventato solo l’attimo presente in cui Salvatore non c’era più. E per anni si scordò di lui, fino a quel giorno quando, abbagliata dalla luce nuova e inclemente della hall, a fatica ritrovò nella parete il vecchio pulsante consumato dell’ascensore. Le tremavano le mani. Quando il puzzo di disinfettante la colpì in pieno viso, seppe che le porte dell’ascensore si erano aperte. Seguendo quell’odore stranamente famigliare, entrò e senza esitazione schiacciò sul 5. L’ascensore diede uno strattone. Sentiva le vecchie corde scorrere sulla sua testa di vecchia. Il display pigro indugiava ancora sui numeri dei piani. Come allora

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chiuse gli occhi.

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Reparto Ortopedia. Su una sedia del secondo piano Federico, sul viso la mascherina di Zorro, il mantello nero che pendeva dietro lo schienale. Ancora una volta il Sergente Garcia aveva avuto la meglio, e dal mantello spiccava il braccio ingessato come un taglio in una tela nera. Federico che la guardava arrivare, Federico che non piangeva, Federico vestito da Zorro in una giornata di Giugno di tanti anni prima. Le dita di lei appena arrivate si intrecciarono tra i suoi capelli sudati, riconoscendoli uno a uno. Sentivano il dolore, la vergogna, la solitudine asciutta di chi non vuole piangere. E poco importava in fondo se lui se n’era andato, se era tornato da sua moglie, se lei non aveva implorato, se Federico era salito su quello sgabello che lui non aveva fatto in tempo a buttare e ora se ne stava lì con una ferita bianca nel mantello nero. Federico seduto immobile su una sedia la guardava senza piangere. E lei, gli occhi ben chiusi, adesso tremava nel vecchio ascensore. Di Federico bambino le restava ancora il profumo della sua testa sudata tra le dita.

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Federico, che sapeva della cosa più dolce. Ma a illuminare le pareti della stanza erano stati quei fiori o i suoi capelli biondi?

Una risata di vecchia improvvisamente le fece riaprire gli occhi sognanti. Nello specchio davanti a lei i lunghi capelli biondi sparsi sul cuscino della sua stanza al terzo piano, reparto Ostetricia e Ginecologia, erano di colpo diventati bianchi. La luce al neon appesa al soffitto dell’ascensore era un’aureola che cingeva la testa canuta, e rifletteva sfrigolando intermittenti e incomprensibili messaggi luminosi. Gli occhi presero a pizzicarle a causa di quella luce falsa e stupida, che ancora una volta si divertiva a confonderla, a stuzzicarla. Allora richiuse gli occhi. E nell’ombra rosata delle sue palpebre stanche si rivide sdraiata in quel letto d’ospedale, i lunghi capelli biondi sparsi sul cuscino, un mazzo di fiori gialli, e una ragazza arrabbiata sdraiata nel letto accanto al suo. I ricordi erano tornati finalmente come fuochi di artificio nella notte senza luna di San Lorenzo. Il passato la cercava ancora una volta, come ogni 12 Settembre, la cullava nell’ombra dolce di due occhi chiusi, mentre lei saliva, come le falene, avvolta nella bolla di luce stupida e falsa dell’ascensore.

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E vide sua madre che guardava i sandali verdi diventati corti mentre un’ape ronzava via veloce lontana nel giardino non riusciva a respirare lui la baciava e il freddo le entrava nel naso nella nebbia fino all’università lui le sfiorava il braccio attraverso il cappotto spesso e le diceva piano piano all’orecchio

così

e la musica alla radio Federico che cantava stonato rideva la macchina tagliava dolcemente l’aria tra le dita e lei bambina sullo scoglio più alto suo padre in acqua la chiamava

Elena!

 

Il mare scintillava di mille luci là sotto. Era bello. Era un sogno la sua vita vissuta, mentre l’ascensore continuava a salire piano, piano

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piano aprì gli occhi, e le porte dell’ascensore scivolarono via. Era arrivata.

Il bastone fu il primo a muoversi, ad avanzare. Lei lo seguì senza volontà, come se non spettasse a lei decidere. Stanca trascinava i suoi piccoli passi lentamente. Tre passi. Uno. Due. Tre. E sentì le porte richiudersi dietro di lei. La sua vita vissuta ormai l’aveva lasciata lì, nell’ascensore vuoto. Il corridoio silenzioso la stava aspettando, le venivano incontro lentamente le sue porte chiuse. E lei piano piano avanzava senza fermarsi. Un passo dopo l’altro fin dove doveva arrivare, fino a quell’ultima porta chiusa in fondo al corridoio.

Allora si fermò. Un rumore di passi in lontananza si faceva sempre più vicino. O forse era il suo cuore che batteva più forte? La maniglia la guardava, le diceva

Aprimi!

Ma lei sapeva che la maniglia scottava. O forse era la sua fronte sudata? Non voleva e la sua mano già stringeva il pomo di ferro che le fece urlare un dolore profondo nelle nocche sporgenti. Piano, piano la porta si aprì e lei riconobbe ancora una volta l’alito caldo che le batteva sul viso. Era passato un anno dall’ultima volta che era stata lì. E per un anno si era alzata dal letto tutti i giorni, aveva accarezzato il suo gatto rosso che la guardava ogni mattina dal comò, si era lavata, vestita, aveva guardato dalla finestra i piccioni che volavano sul parchetto sotto casa. Ogni giorno uguale agli altri aspettando che il presente passasse, istante dopo istante, fino a un altro 12 Settembre. Dieci ne erano già passati. Il 12 settembre di dieci anni prima il sole splendeva. Era il primo giorno di scuola e lei avrebbe spalancato le finestre dell’aula per lasciare entrare un po’ dell’estate che ancora restava. Poi sarebbe tornata a casa e avrebbe aspettato Federico che rientrava dall’università e lui sarebbe stato contento di trovare il suo piatto preferito. Le avrebbe sorriso?

Di nuovo sentì brividi di febbre correrle su per la schiena. Quel giorno era un altro 12 settembre, e lei se ne stava ancora una volta ferma davanti alla porta aperta di una stanza al quinto piano dell’ospedale. Continuò ad avanzare, e poi ancora, fino in fondo alla stanza. Poi si fermò. Era diventata pesante ora, non riusciva più a muoversi. Immobile come il corpo affondato nel letto davanti a lei, solo l’addome che si alzava e abbassava sotto il lenzuolo. Lo stava fissando da attimi, o ore, o giorni, o anni, non lo sapeva. Il lieve e ipnotico su e giù del torace. L’aria che entrava da sola. La stessa aria, lo stesso maledetto ossigeno che adesso entrava anche nei suoi polmoni stanchi. Poi guardò il cartello appeso allo schienale del letto. E si perse nel vuoto di un nome senza risposta.

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1 commento »

  1. Dolcemente triste, una progressione esistenziale sul filo delle reminiscenze che si legge con piacere

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