Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Tra una castagna e una caldarrosta” di Anna Pau

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Era così piccola in confronto a lui, che col cigolio del sacchetto che si accartocciava tra le sue mani forti, le porgeva le caldarroste appena tirate su dal fuoco. Dopo quell’attimo di esitazione in cui pensava al giubbotto di pelle troppo stretto per le braccia forti dell’uomo, allungò le sue e abbracciò con uno scatto d’egoismo quella pallottola di profumo caldo.

E un secondo dopo camminava, passo spedito, verso di lei. Le si fermò davanti.

“Voglio essere come te.” Disse tutto d’un fiato. E l’altra subito la squadrò: era bassa e portava le treccine, ma lo sguardo non mentiva, mai saputo mentire. “E chi saresti scusa?” “Benedetta – il nome la tradiva – ma posso assicurarti, non dal Signore.”

Quella frase, fossero state delle navi, l’avrebbe “colpita e affondata”.

Da quel momento non ci fu niente che poté fare per liberarsi di lei. Impararono a conoscersi, a cambiare in peggio e a non tornare indietro mai.

“Ervisa – le domandava – sai perché quel giorno sono venuta da te?” “Me l’hai detto cento volte.” “E allora chiedimelo ancora.” Lo sapeva ormai, lo sapeva più a memoria dell’alfabeto che da bambina aveva imparato a malapena. Era venuta da lei perché era scappata di casa. Dava la colpa ai suoi genitori; “troppo piccoli per prendersi cura di una grande come me” diceva sempre. E per quanto la riguardava, non si era mai accertata se fosse vero oppure no. Come aveva capito fin da subito, a Benedetta non riuscivano le bugie. Quella parte toccava a lei.

“Ervisa – continuava – e sai perché tu mi hai preso con te?” “Come potrei averti presa con me senza sapere il perché?” Aveva avuto una tenerezza infinita per un modellino di sé in miniatura. Stessa strafottenza, stessi problemi. Ma questo non gliel’aveva confessato. “Mi facevi pena” le rispondeva.

“Te ne stavi lì minacciosa con quella sigaretta in una mano e la birra nell’altra. E mi guardavi come si guarda un cane.” Quella ragazzina non si arrendeva. “E tu sei stata coraggiosa, ma anche molto fortunata. Sei capitata in un momento buono, non voglio immaginarmi cosa ti avrei fatto se ti fossi presentata il giorno dopo.” E l’altra non si scioglieva. Le piacevano le distanze. Così era stata abituata. Prima di sbattere la porta e non tornare più.

Passavano il loro tempo per strada, due guide attente, nessun dettaglio che non conoscessero già. Occhi vigili e gesti svelti, così si compravano da che mangiare.

“Ti ricordi la mia prima volta? Tremavo tutta e stavo per farmi beccare e poi..” la interrompeva l’altra “..e poi di corsa ti ho preso per un gomito e ti ho portata via.”

Erano così tanti i furti che non li riuscivano a contare. “Ho paura.” Quasi tutte le volte, come una sorella minore. “Benedetta, o sei con me o te ne vai.” E partivano con un occhiolino.

Piano piano diventavano sempre più organizzate, avevano imparato le regole e sapevano su chi puntare. Così un giorno: “Tieni, è per te – all’improvviso – dato che un po’ sei migliorata” e gliela piantò davanti agli occhi lucida e nera. “Che me ne devo fare?” divertita e spaventata insieme. “Solo in caso..” e si voltò. Non ne parlarono per settimane, e nessun caso si presentò.

Ma una mattina si svegliarono, e non fu uno svegliarsi come le altre mattine. Dividevano un letto a una piazza le volte in cui andava bene, altrimenti dormivano dove capitava.

 “Non possiamo andare avanti così – la più grande – finiremo per dimenticare il motivo per cui rubiamo.” Silenzio. “Pensavo rubassimo tanto per rubare” incrinata dalla paura che quell’equilibrio potesse diventare fumo. E l’altra accese una sigaretta, si circondò di quel fumo, e la fissò. Un’idea diabolica le frullava in testa, e brillava sopra tutto quello che avevano fatto fino ad allora. Prese le loro quattro cose, si misero a camminare.

Videro le vetrine illuminate da luci, da lampadine. Videro vetri che specchiavano il sole. E si fermarono davanti a quello di una gioielleria. Era qualcos’altro a luccicare.

“Mi vedresti con al collo quella d’oro?” E l’altra, attenta: “Pensavo non ti piacessero le collane”. “E con quelle perle come orecchini?” La guardò scettica: “Non hai le orecchie bucate.”

E successe tutto all’improvviso, come se il brivido avesse fretta di andarsene via.

Entrò di botto, e con la porta con le scarpe con la voce fece rumore. “Ervisa cosa fai?” Ma di tutta risposta Benedetta ricevette un labiale tirato “o sei con me..” e se lo fece bastare.

Al bancone sedeva una donna sulla sessantina che vedeva a malapena al di là dei propri occhiali. Intorno non c’era nessuno, e l’aria era ancora quella viziata della sera prima.

Davanti al naso la signora si ritrovò qualcosa di freddo e minaccioso. “Dammi tutto o sparo.” Ervisa non riconosceva la sua stessa voce. “Cosa intendi per tutto bambina?”, con il temperamento di una statua di marmo e gli occhi chiusi in una fessura. “Tutto quello che quattro braccia umane possono portare.”

La donna cominciò a trafficare senza scomporsi e, afferrate due bustine di cartone, le riempì fino a farle straboccare. Benedetta era rimasta come un palo zitta a fissare la collana d’oro che si vedeva dalla vetrina.

Fu allora che le pareti si colorarono di rosso e blu, e la riscosse il suono di una sirena.

Vide la sua amica bocconi che si dimenava,e in men che non si dica strabuzzò gli occhi e riprese ad ascoltare.

“Benedetta, la tua pistola! Benedetta, salvami, spara!” Una mano in tasca toccò qualcosa che lei non conosceva. La afferrò stretta e la puntò verso il poliziotto che afferrava stretta Ervisa. Accarezzò il grilletto e il grilletto non le fece paura. Ma di fronte a sé un uomo giovane la implorava di pensare, di posarla, che se ne sarebbe pentita poi.

Ervisa con gli occhi lucidi aspettava. E una pistola cadde a terra e una lacrima con essa, e si allentò finalmente la stretta di quattro mani.

Correre si rese inutile con l’intervento di altre forze armate. Le portavano via con le manette, in un furgone. “Pensavo non ti piacessero le collane” continuava a ripetere Benedetta.

Ervisa non si accorgeva di lei. Non si accorgeva di niente a dire la verità. Le guance rosse e rigate tanto quanto i polsi che si incrociavano dietro la sua schiena.

Con uno scatto di serratura furono abbandonate dietro delle sbarre qualsiasi in una cella qualsiasi e si scambiarono il primo sguardo, che non era uno sguardo qualsiasi.

“Ho il collo troppo grosso per le collane.” E scoppiarono in una risata isterica abbracciandosi per la prima volta davvero.

“Non pensavo ce l’avrei mai fatta.” Disse Benedetta con una vocina spezzata. “A fare cosa?” Alzò la testa. “A diventare come te.” E sfoggiò il suo sorriso migliore.

Furono convocati nei giorni seguenti quelli che i poliziotti presumevano essere i loro genitori.

Benedetta era impaziente, quasi emozionata. I capelli corti e spettinati, quello che rimaneva delle vecchie treccine, saltellava tutta in una specie di pigiama blu.

“Non capisco perché smani tanto.” Le diceva Ervisa. E dentro si sentiva morire.

I suoi genitori non si presentarono, e Ervisa non mostrò nemmeno un grande stupore.

“Ti ricordi di quando avevo cambiato idea e stavo per tornare indietro?” le disse l’altra, e lei si ricordava. “Sapevo che non avresti fatto un solo passo lontano da me – quella notte aveva avuto così paura – te ne andresti adesso, non è vero?” Benedetta non rispose.

Due giorni dopo arrivarono i suoi genitori. Si sorprese commossa davanti a loro. La faccia sporca e stanca, le mani consumate.

Fecero finta di non riconoscerla, e se ne andarono così come erano venuti.

In cella la sua amica, come sempre, la aspettava. “Me ne sarei andata – le disse – sono una vigliacca.” Ervisa le fece cenno di sedersi accanto a lei.

“Avevi ragione. Troppo insignificanti per prendersi cura di una grande come te.”

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1 commento »

  1. Le due protagoniste sembrano riuscire a bastare e badare a sè stesse. Ma si intuisce, dal non detto, che le loro vite non potranno essere governate per sempre solo da loro due. La loro scelta di vita autarchica sembra più un percorso obbligato che una scelta voluta. Triste

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