Premio Racconti nella Rete 2011 “Then Came The Day… – E arriva il giorno…” di Nikki Simonetti e Gioacchino De Padova
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Arriva per tutti – arriva; arriva, fidati che arriva… – il giorno in cui ti accorgi che la vita è una lunga scala piena di sterco che ti tocca ripulire, un giorno dopo l’altro, chinando la testa e parando le chiappe. Arriva per tutti – arriva; arriva, fidati che arriva…- quando ti rendi conto che la vita è un treno su cui non salterai mai più perché è già passato, ha già fischiato, e ti è sfrecciato via davanti al naso. Arriva per tutti – fidati; fidati che arriva – e solo per uno stramaledettissimo, strabenedettissimo malaugurato caso, ha lo sguardo avvinazzato e i calzoni arrotolati a mezzo polpaccio del matto del paese.
Quello che se ne sta lì, ritto, fermo, immobile, impreciso e sconclusionato – e assieme nitido e perfetto – disegnato come una macchietta, impalato a lato della strada come gli avessero infilato un palo nel retto, con i sandali di plastica e i calzini bianchi, piantato dentro inesistenti pozzanghere.
E’ la classica mattina in cui ti sei alzato col piede sbagliato – quello sinistro, rotto tre volte, coi legamenti lassi – che tutto ti va per traverso: sbatti il culo per terra e ti ritrovi una caviglia gonfia come un melone. Asciughi la testa in fretta, un filo scoperto del phon ti ustiona il dito indice della mano destra con una scarica elettrica. Mentre cerchi di alleviare il bruciore col tubetto del Foille, appoggi il peso sulla caviglia dolente finendo di nuovo per terra, infilzando le chiappe sulla spazzola per capelli coi denti in ferro. Le ultime scariche temporalesche riducono i tuoi capelli a una ridicola accozzaglia informe e cresposa. Infine, ti accorgi – troppo tardi per tornare indietro per cambiarne uno – di avere indossato un calzino nero e uno blu.
Come non bastasse, sei in ritardo – in ritardo spaventoso per una riunione importante, una di quelle cruciali per la tua carriera, quella in cui potresti venire designato direttore esecutivo della squadra progettazione. E ora, mentre stai guidando, ecco che il telefono inizia a suonare.
E’ Bonfanti, il tuo capo, una persona petulante, odiosa, prepotente, arrogante e mortalmente antipatica – uno stronzo fatto e finito, dentro e fuori. Hai dimenticato di inserire l’auricolare, quindi non gli puoi rispondere, ma quel trillo insistente non ti dà pace. Te lo figuri, il volto contratto in una smorfia di rabbia, mentre ti bercia dietro ogni genere di insulto. Dopo un brevissimo istante di sospensione, lo squillo riprende, insistente. Così, sbuffando, abbassi lo sguardo per afferrare il telefono...
E’ allora che accade.
Non ti accorgi di nulla, abbassi gli occhi per una minuscola frazione di secondo. Quando con lo sguardo torni alla strada, il matto è davanti a te.
Non ne sei certo, ma ti pare di scorgere delle lacrime che gonfiano i suoi occhi da cocker inzuppato e bastonato, quasi abbia già capito quello che sta per accadere. D’istinto, premi il piede sul freno, sino in fondo. Afferri con forza il volante, ma ormai è troppo tardi. Vedi il poveruomo saltare sul cofano della tua macchina. Da lì sul parabrezza. Poi ricadere sull’asfalto, come una marionetta impazzita.
Lo lasci lì, inerme, a lato della strada. All’inizio è per lo stupore – ancora non credi di averlo messo sotto. Poi, per la fretta – non hai proprio il tempo di fermarti, non quella fottutissima mattina in cui tutto ti va storto. Sei già in stramaledettissimo ritardo. Quindi, ti guardi in giro un momento, giusto il tempo per accorgerti che non passa nessuno. Nessun pedone, nessuna macchina. Nessuno sguardo indiscreto che possa un giorno puntare il dito contro di te.
Ti torna alla mente Bonfanti: a quel punto starà picchiettando col suo dito grassoccio sulla scrivania, mordendo la matita che è solito tenere stretta tra le labbra. Quando arriverai, ti farà il didietro a strisce.
Chissà, forse fai ancora in tempo a salvare la tua designazione. In fondo, persino quello stronzo sa che il dirigente più indicato a ricoprire quel ruolo sei tu. Ma poi un sottile, lievissimo senso di peso al petto piano ti arpiona la gola e ti fa tremare le budella.
E’ il senso di colpa, ti dici. Vagamente ti coglie il pensiero di tornare indietro, verso il poveraccio con le rotelle fuori posto, la cui unica colpa nei tuoi confronti è stata quella di farsi trovare lungo la tua strada, durante quella tua frettolosa, preziosissima, inutile giornata storta. Ma non ce n’è il tempo.
Proprio non ce la faresti a ripercorrere quei cinquecento metri che ti separano dall’incoerente visione di quei calzoni arrotolati, adagiati sull’asfalto, e poi presentarti alla riunione in orario. Culli per un po’ il pensiero che il povero Cristo non si sia fatto molto male – del resto, eri in curva, e andavi davvero piano. Può anche essere, però, che sia rimasto esanime, in una pozza di sangue. Vorresti girare la macchina e tornare indietro.
Ma non hai tempo. Non ne hai mai, nella tua vita. E l’ansia non scompare, anzi. Neanche quando cominci a pregare: sale e sale nelle viscere e nel petto, arriva a bruciarti nella gola e poi ti esplode nel petto paralizzandoti le braccia e fibrillando il tuo cuore. Non riesci più a respirare e sei costretto ad accostare, e fermarti. Allora, incurante del cuore che ti esplode nel petto, inizi a correre verso la macchia chiara, ancora ferma e immobile sull’asfalto. Gli arrivi vicino e te lo vedi lì, disteso su un fianco, che ti guarda, con gli occhi ricolmi di lacrime. Ora inizia pure a sorriderti. E tu ti senti una merda.
Sembra che voglia dirti qualcosa. Mi dispiace averti creato un problema mi dispiace se il tuo capo ti farà un culo come una casa mi dispiace se per me dovrai dire bye-bye alla tua promozione mi dispiace mi dispiace mi dispiace mi dispiace.
Gli prendi una mano sudata e appiccicaticcia nelle tue. Tutto sommato, a te non dispiace affatto. Ritornando da lui, dopo che lo avevi lasciato spiaccicato sull’asfalto, pensi di avere ritrovato qualcosa di molto più importante di una promozione.
Tutto quello che avviene in seguito ha il sapore dei ricordi confusi. L’auto medica, l’ambulanza, gli infermieri che portano via il matto incordato sulla barella come fosse una salsiccia, mentre il poliziotto della stradale ti chiede un resoconto dettagliato dell’accaduto.
Quando tutti se ne vanno, ritorni a essere solo, come mai ti sei sentito prima. Cammini con passo lento, senza alcuna meta.
Un istante dopo avere chiamato i soccorsi, hai fatto una cosa impensabile, che non avevi mai osato prima: hai staccato il cellulare. Ti ritrovi ad appena qualche decina di metri dal mare e allora ti metti a camminare sulla spiaggia. E’ morbida e assieme dura e bagnata, e ti trasmette un senso di rassegnata tranquillità. Piano ti lasci andare, e il gomitolo che tieni dentro lo stomaco si disfa, srotolandosi un filo dopo l’altro.
Il cuore ti saltabecca ancora in petto come un forsennato, fuori ritmo, come un metronomo che abbia perso il passo. Per un istante lasci che tutto ti abbandoni, persino te stesso. Ti lasci cadere con le ginocchia a terra e affondi le mani nella cedevole consistenza sabbiosa. Poi vomiti – rabbia angoscia e rancore verso te stesso. Improperi, a fiumi – stronzo-fallito-insensibile-senza-cuore-né-spina-dorsale-che-non-sei-altro. Pianto e riso ti colgono alle spalle, aggredendoti e percuotendoti con violenza prima, con disperato abbandono poi, e infine con ritrovato sollievo.
E’ un attimo – un tuffo, sospeso tra volo e caduta.
E lì rimani, nutrendoti di vento, ispirandoti di sale e di vecchio conforto e di recente tormento, indefinitamente appeso alla tua anima per un periodo che ti pare infinito, sino a che cala la tenebra, e non c’è attimo che valga lo strazio di te.
L’onda, piano, lambisce gli anfratti dell’anima e lenisce la pena.
Rivedi la tua vita fino a quel momento, fino al sorriso che il matto ti ha lanciato, lo sguardo avvinazzato umido di lacrime.
Ti rendi conto di avere rincorso la tua vita da spettatore e rimpiangi tutto quello che hai dimenticato di dire e di fare quando hai smesso di dare ascolto al tuo cuore.
La vita la vive chi ce l’ha, ti dici. Chi non ne ha mai avuta una, come te, non sa, e aspetta – aspetta ancora e ancora – anche se non sa come, cosa né dove, guardando in basso senza lasciar andare niente di sé. Fidati, fidati che arriva. Arriva per tutti il momento. Per te, è stato un matto che ti taglia la strada.
E’ allora che ti rendi conto che se non si dà, se non si è.
Tu non hai mai dato, perché non sei mai stato.
Ormai si è fatto sera. Riaccendi il telefono e, dopo appena qualche secondo, ecco che ricomincia a squillare. Questa volta rispondi.
Bonfanti strepita, con quella sua voce in falsetto che ti martella alle tempie. “Morelli, dove cazzo sei stato tutta la giornata? E poi, cos’è questa nuova abitudine del cellulare staccato? Va be’, chissenefrega. Tanto il tuo posto l’ho assegnato a Dometti. L’avrei fatto comunque. Lo so da sempre che sei un inaffidabile deficiente!”.
“Stavo quasi per ammazzare un uomo, oggi”, rispondi con un filo di voce, mentre ti senti distante mille miglia da quelle sue parole.
“Cosa significa questa pagliacciata, Morelli? Non penserai mica che me la beva…”
Hai gli occhi ancora gonfi di lacrime. Ti rivedi bambino, quando lanciavi i sassi in mezzo alle onde. Osservi con noncurante distacco il cellulare che stringi tra le mani, le nocche bianche. Bonfanti è un fiume in piena, continua a berciarti contro.
Lo senti persino adesso che tieni il microfono a trenta centimetri dalle orecchie.
Poi tendi il braccio all’indietro e ti prepari al lancio.
E oooops…
Sai cosa?….Vaffanculo, Bonfanti.. L’urlo ti rimbomba nella mente, mentre la voce gracchiante del tuo ex direttore si allontana in direzione del mare, facendosi sempre più distante.
Lo stile cattura e la storia è una bella poesia contemporanea. Grazie!
Spesso si vive una vita frenetica, rapida, senza attimi di tregua. Si corre per il lavoro o per cercare lavoro, in una società in cui l’agire sorpassa il riflettere. Mentre andiamo a duecento all’ora non ci accorgiamo di ciò che ci circonda, delle cose più semplici e belle. Nel vostro racconto “il caso” squarcia il muro di gomma dell’insensata ansia quotidiana. Bravi.
Ottimo il lancio finale. Bersaglio colpito. La sagoma dell’ orso di Bonfanti, che nella storia si muove come il plantigrado del gioco che fu, in modo freddo e meccanico, è abbattuta. Non poteva esserlo sino a quando il protagonista non raggiunge la convinzione di avere una buona mira. Sino ad un certo punto questa è stata infatti approssimativa e pertanto gli ha impedito di inquadrare il giusto il bersaglio, ma c’è sempre tempo e modo per ricaricare e fare centro.
Ringraziamo Silvia, Pierandrea e Franco Salvatore.
E naturalmente tutti coloro che hanno letto o leggeranno il nostro racconto.
A volte la vita spinge verso traguardi ambiziosi.
Ma questi, per quanto importanti, rischiano di farci perdere di vista cose semplici ma fondamentali, senza le quali tutto il resto finisce per contare davvero poco.
Il protagonista del racconto matura dentro se stesso il disagio di una vita spesa a competere senza un attimo di tregua, fino a guardarsi dentro e accorgersi di cosa è diventato.
Forse non avrebbe nemmeno la forza di svoltare, se non gli capitasse l’incidente di percorso, l’occasione che ti cambia la vita.
Quel matto che gli taglia la strada finisce per diventare l’inconsapevole occasione di riscatto, il momento di una presa di coscienza.
Come è stato giustamente sottolineato da Franco, gli ci vuole un po’ di tempo per mettere a fuoco la mira e per inquadrare il giusto bersaglio.
Ma alla fine, con quel gesto finale liberatorio, il protagonista colpisce metaforicamente la sagoma di Bonfanti. E non soltanto quella.
Riesce ad abbattere anche l’uomo arido che lui stesso era diventato.
E quel modello di vita frenetica, caratterizzata da una corsa spasmodica per affermarsi a tutti i costi, a volte anche dimenticandosi umanità e rispetto verso gli altri. E pure verso se stessi.
Grazie, ciao.
Nikki Simonetti
Gioacchino De Padova
grazie per il tuo commento.Hai colto proprio quello che mi riproponevo di comunicare. emozioni, sensazioni che contraddistinguono i rapporti umani. E poi il senso della storia: l’assenza a tutt’oggi di una parità reale tra i sessi. Sono contenta che questo provenga da un uomo. Complimenti per il tuo racconto che ci spingere a rflettere sugli errori della contemporaneità.
Un flusso di coscienza intenso e vivido, un incontro casuale e drammatico tra un uomo lanciato verso il successo, imprigionato nel meccanismo perverso di una società snaturante e un altro uomo che è rimasto sempre ai margini di quella stessa società. Un incontro che redime, un’occasione per fermarsi e cominciare ad interrogarsi sul senso vero della vita.
Complimenti.
Grazie a Marcella e a Sandro.
E’ vero, proprio dall’incontro casuale e drammatico con un uomo molto distante da sè, il protagonista del racconto trae l’occasione per una profonda riflessione su se stesso e sulla propria vita.
Il senso di disagio c’era, ma fino a quel momento era rimasto latente.
Invece proprio quell’uomo, con le sue stranezze e il suo modo di vivere ai margini della società, senza saperlo, riesce a riportare il protagonista a vivere sensazioni che non pensava più nemmeno di provare.
Lo aveva quasi ammazzato. Eppure è bastato tornare indietro a soccorrerlo per vedere comparire sul suo viso il sorriso. Quel sorriso spiazza completamente il protagonista, insegnandogli qualcosa che mai avrebbe pensato di imparare da quell’uomo.
Da lì in poi il racconto vive di una crescente presa di coscienza.
E finalmente il protagonista capisce di essere diventato ostaggio dei suoi alibi: quello della corsa per arrivare al successo a qualunque costo e quello delle aspettative di chi gli vuole governare pure l’anima, facendo leva sulle sue ambizioni.
All’improvviso cadono tutti i suoi alibi e la sua vita gli appare finalmente per quello che era diventata: una catena.
E le catene sono fatte per essere spezzate.
Grazie, ciao.
Nikki Simonetti
Gioacchino De Padova