Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “L’ora del buio risparmioso” di Massimo Lotti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Il sole era pallido lassù nel cielo, come un timido neo.

Akira, con le manine ben avvinghiate alle mani consumate e operose della madre Yukio e del nonno Kayoshi, camminava rasente il muro scortecciato della scuola, mostrando un broncio evidente. Il padre, Shimoto, la sera precedente gli aveva chiesto degli ultimi voti a scuola; lui, sincero come sempre, gli aveva parlato del disegno e della maestra di Educazione Artistica che aveva giudicato insufficiente la sua creazione.

“Quale disegno Akira? Quello con i grattacieli e la grande scritta in rosso?”

“Sì padre, proprio quello. La maestra mi ha dato quasi sufficiente. Per via della bandiera.”

“La bandiera – aveva chiesto suo padre – quale bandiera?”

“Quella che ho disegnato in basso a destra, accanto alla scritta rossa.”

Aveva disegnato una serie di grattacieli dello skyline di Tokio in maniera piuttosto realistica ed aveva incluso nella creazione una bandiera svolazzante del Giappone, alla mercé del vento. La mamma si fermò di scatto all’ultima uscita della metropolitana.

 “Padre, devo portare queste scarpe a fare risuolare e comprare il latte garantito.” – poi rivolta al figlio – “E tu andrai con il nonno senza fare storie, capito? Se fai il bravo io e tuo padre stasera, dopo la cena, ti aiuteremo a rifare il disegno. Dunque, bambino mio, fa’ il bravo!”

“Va bene mamma, prometto che farò il bravo e non farò arrabbiare il nonno. Promesso.”

Si fece baciare in fronte, con gli occhi dolcemente chiusi, come se ricevesse una carezza da un Papa in una piazza gremita. Yukio salutò il padre e si incamminò di buona lena verso le sue mete. Nonno e nipote si incamminarono anch’essi verso le proprie mete, fianco a fianco, con passo spedito. In quel piccolo silenzio accomiatante Akira tornò ad immergersi nei pensieri della scuola. Nel riacquisire il broncio precedente ripensava inevitabilmente al disegno.

Pensava alla vista che si gode dalla terrazza della casa di Hitoshi, il suo compagno di giochi e di studi. Quando era da lui a fare le lezioni, da quella terrazza del dodicesimo piano, rimaneva sempre affascinato da quel belvedere, con tutti quei grattacieli, quella sfilza interminabile di finestre più o meno uguali e poi quella scritta enorme rosso fiammante della multinazionale di televisori, che campeggiava in un turbine di luci, prima della fine dell’orario di lavoro che coincideva con il buio risparmioso. In quel momento la città si spegneva in gran parte, come per una gigantesca festa a sorpresa nella quale il festeggiato non arrivi mai.

Il nonno tirò fuori dalla sua immancabile borsa a tracolla le mascherine per sé e per il nipote, perché per arrivare al Centro televisivo occorreva attraversare tre grandi circoscrizioni e avvicinarsi alla zona della metropoli più esposta ai venti spiranti dalla GAI, la Grande Area Infetta.

Kayoshi si mise la mascherina protettiva e ne dette un’altra al nipote il quale se la mise senza distrarsi troppo dal suo pensiero, quella fascinazione cui era soggetto quando era a casa di Hitoshi. E pensava al buio risparmioso che tutte le sere risucchiava la vista dei grattacieli e tutto il lucore del paesaggio, non ultima la grande scritta in rosso. Era come se il sole portasse con sé le luci della metropoli, come un pastore che ti fa carezzare il cane ma poi si porta via tutto il gregge con sé quando giunge l’ora di andarsene.

Una volta il nonno gli aveva letto delle pagine che parlavano dell’antica Grecia e del mito di Helios che si porta via con il suo carro la luce del giorno. Il nonno aveva il suo bel daffare per convincere il piccolo che si trattava solo di mitologia (una creazione fatta in una epoca lontana in cui il buio risparmioso corrispondeva al tramonto). Cercava in presenza del bambino di non chiamare mai il buio risparmioso col suo papabile vero nome, coprifuoco, ma gli rimaneva difficile spiegargli un’abitudine (o meglio una coazione) frutto di un decreto legge governativo, atto a scongiurare il collasso del sistema energetico nipponico dopo il disastro di Fukushima. Difficile spiegarli che prima di allora il buio risparmioso fosse al limite una iniziativa di cinque minuti per fare finta che l’occidente non soffrisse di bulimia di megaWatt.

Difficile spiegare che prima del disastro il buio risparmioso non esistesse. E neanche il latte garantito.

Akira aveva immaginato una bandiera del Giappone, del suo paese, sventolare vicino alla grande scritta rossa. E quella  bandiera l’aveva immaginata in maniera crudamente realistica, con il bianco non nitido, sporco, ed il sole nel centro del vessillo non rosso, come il tuorlo di un uovo non fresco.

La maestra rimproverava al bambino di non averla resa dello stesso rosso della scritta della multinazionale: era immaturo e poco realistico (diceva), dimenticando clamorosamente l’importanza della fantasia nella propria materia oltre che nei bambini.

Ma il vizio di forma cui sembrava soffrire la maestra era lo stesso di tanti suoi concittadini, quello di credere al governo senza chiedersi mai il senso della dicotomia dei servizi pubblici gestiti e riscossi da privati, come nel caso delle centrali atomiche. Tutto questo Akira non poteva capirlo, anche se in realtà ci stava velocemente arrivando. Anzi sarebbe meglio dire che era la realtà che stava velocemente giungendo a lui, dato che erano già due anni che non poteva recarsi al Parco del Ricordo di Kobe neanche d’estate, neanche accompagnato dai genitori, neanche con i suoi compagni di scuola. Neanche con Hitoshi.

I I

 Akira e il nonno arrivarono al Centro televisivo statale in poco tempo, riuscendo a giungere alle fermate della metropolitana sempre in tempo utile per le vetture in transito.

Nonostante l’età, nonno Kayoshi marciava come un avamposto di fanteria. Saliti gli scalini dell’ingresso il nonno mostrò i documenti al portinaio e si misero ad attendere l’ascensore numero tre. L’ascensore ci mise qualche minuto a liberarsi: era un’ora di traffico intenso nell’edificio del Centro.

Akira ripensava a quella bandiera nel disegno, messa lì tra i grattacieli anche se non c’era in realtà, l’aveva messa di proposito lui, confidando nella libertà d’espressione che la maestra vantava sempre di lasciare nell’ora di disegno libero.

Era il retaggio di ciò che vedeva con suo nonno al Centro televisivo statale, da quei monitor che riuscivano a intristire il nonno più della sua vedovanza, più della foto della moglie Yushiko, scomparsa  già da sei anni. Finalmente l’ascensore numero tre giunse al piano terra e poterono salire al piano quattro. C’erano ben dieci postazioni video libere delle venticinque disponibili.

Un funzionario in camicia bianca, cravattino e pantaloni neri, una spilla con il logo Ministero delle Comunicazioni ed un grosso telefono d’ordinanza nella tasca posteriore si occupava di controllare la situazione e che nessuno andasse in eventuali escandescenze, cosa che succedeva ormai di frequente  anche lì, nella capitale del fu quieto Giappone.

“Mettiamoci qui Akira, non c’è nessuno nei paraggi così se vuoi dirmi qualcosa o se tuo nonno vuole imprecare saremo più liberi di farlo.”

Il nonno si tolse il giaccone suo e quello del nipote mettendoli sul sedile della postazione accanto. Akira guardava avidamente le immagini che scorrevano sul video, e non di meno faceva il nonno Kayoshi, profondamente accigliato.

“Guarda nonno, guarda quanti dischi volanti, li contiamo?”

“Akira, bambino mio, sono sempre gli stessi. Contali e vedrai che il nonno ha ragione.”

Grandi recinzioni concave delimitavano con una forma rotonda le GAI, come orme di dischi volanti.

E dischi volanti era il nome che usava Akira per le aree delle GAI.

Il governo dopo il disastro e la trafila di ammissioni di colpa delle società di gestione dei principali impianti nucleari aveva recintato il raggio di settanta chilometri intorno a Fukushima.

Molte delle cittadine comprese in questo raggio erano state rase al suolo, se non dal livore del terremoto, dal passo indefesso dell’esercito, il quale, su preciso ordine delle autorità statali, aveva reso quella precisa area una no live zone a causa delle altissime radiazioni, lasciando all’interno di questa area, nelle cittadine rimaste in piedi, la popolazione condannata a morire di qualche patologia legata al fall out, a meno di miracoli improbabili dovuti al proprio sistema immunitario. Ma dato il carattere a macchia di leopardo del fall out un’area tonda attorno a Fukushima era un palliativo persino ignorante cui alla fine si era posto rimedio creando queste GAI, come dei dischi volanti come nelle raffigurazioni delle teorie degli insiemi.

“Avevi ragione nonno, sono ventuno, come l’altro ieri.”

“Ricordati che se rimangono gli stessi o diminuiscono è un buon segno.”

“Perché nonno? Dici sempre così, ma non mi dici mai il perché? E poi non diminuiscono mai!”

“Facciamo un paragone, figliolo. Se ti macchi la maglietta con l’olio cosa fai?”

“La nascondo sennò mamma si arrabbia!”

“Va bene, mettiamo che la mamma non ci sia. Cosa ti ha insegnato il nonno?”

“Metto la mollica del pane sopra la macchia e aspetto che sparisca.”

“Bravo. Il Giappone è quella maglietta, i dischi sono le molliche perché purtroppo le macchie da coprire sono molte.”

“E quanto ci vorrà per farle sparire?”

“Più o meno come per vedere sette imperatori.”

“E quanto ci vuole per vederli tutti?”

“Lo devi chiedere alla tua maestra di storia.”

I I I

Nonno Kayoshi aveva trascorso l’infanzia e buona parte della propria esistenza in una cittadina a otto chilometri dalla zona del disastro. Ed era proprio lì che risiedevano tre vecchi amici e colleghi di pesca, costretti a rimanere in quel posto violentato tre volte (una infernale trimurti: la scossa, lo tsunami, le radiazioni) e stipendiati dal Ministero degli Interni a fare le cavie a tempo pieno, in attesa della Nera signora o di miracolo scientifico che sconfessi la lunga vita dei radionuclidi.

Avevano visto la guerra e l’avevano superata, avevano sentito atroci scosse di terremoto ed erano sopravvissuti, ma adesso no, c’era quella spietata morte fatta di invisibile possenza a furia di reazioni degli isotopi. La più terribile, forse, ma la più beffarda di sicuro. C’erano dei videofoni che servivano per comunicare con chi, dal Centro televisivo fatto allestire dalle autorità a venticinque chilometri da Fukushima volesse parlare con i propri cari altrimenti totalmente irraggiungibili. Sotto il video c’era una piccola stampante sagomatrice a colori che poteva riprodurre in tre dimensioni oggetti da farne copia per ricordo come ad esempio un pettine, una cornice, un rosario, un portagioie, un anello. La tecnologia permetteva anche questo pur di illudere la popolazione al di qua delle GAI di poter comunicare con chi stava al di là delle GAI. Kayoshi non si era mai fatto sagomare niente perché diceva che un oggetto poteva essere come quello contemplato, ma non quello.

Venticinque chilometri da Fukushima il nuovo Centro televisivo, su un’area colpita di sessanta chilometri. Kayoshi telefonava a uno dei suoi amici e quando potevano raggiungere il Centro televisivo si parlavano per delle mezzore. Era importante, ma allo stesso tempo, un editto dello strazio. Ricordavano i tempi della pesca nei ruscelli dell’entroterra, lontani ma non troppo dagli stabilimenti e dalle industrie sempre più invadenti, sempre più potenti.

Ma accadeva spesso che i discorsi profusi durante le mattinate di pesca arrivassero al nodo ma comunque questo è il progresso ed i nostri figli non dovranno più badare ai capricci delle stagioni per sfamarsi. Ed a furia di giocare a mosca cieca con la tecnica si erano fidati di tutti i bocconi propugnati dall’industrializzazione, fino alle aree apparentemente coltivabili e recintate come se fossero lager senza prigionieri e riempite nel sottosuolo di chissà che cosa; i vecchi che sbirciavano parlavano di un cimitero atipico poiché le salme sotterrate giacevano sottoterra poste per ritto.

Quando Kayoshi andava al Centro televisivo con Akira, per parlare liberamente con i suoi amici dava sempre qualche spicciolo al nipote commissionandogli caramelle ed altri sofisticatezze caria-denti da acquistare al bar del quinto piano; il giovane nipote ci arrivava attraverso le scale, sorvegliate da un paio di addetti alla sorveglianza della Rete nazionale televisiva.

“Vammi a prendere i chewing gum alla menta, Akira. Tieniti il resto, così impari cosa vuol dire risparmiare. Vai, ma non correre, e non ti dimenticare il resto, magari ci compri qualche matita.”

“Va bene, nonno va bene. Vado.”

Kayoshi aveva chiamato il giorno precedente Nagato, il suo amico che prima del disastro faceva ancora i pupazzi in miniatura del teatro kabuki, e li vendeva a negozi e ed agenzie di promozione turistica della cultura giapponese. Una volta ricevette i complimenti da un costumista teatrale di passaggio.

Alzò la cornetta e si fece passare il canale quattro di comunicazione, quello che generalmente adoperava per parlare con i suoi compagni di pesca, Nagato e Ishida, e con la sua amica, sopraffina cuoca di pesce, Sakura. Erano le undici in punto, Nagato e gli altri erano sempre puntuali, prendevano il bus delle dieci, una comodità che illudeva un poco circa una normalità smarrita per sempre. Rispose Nagato all’altro capo. Era solo, aveva gli occhi gonfi, come se venisse da quattro notti consecutive di insonnia.

“Nagato, amico mio come stai? Dove sono gli altri? Non fare scherzi, lo so che ti dà noia viaggiare da solo, dove li hai nascosti?”

Nagato fece un gesto di saluto, ma il suo vigore si ritrasse subito, come se avesse una pistola puntata alle reni. Poi esclamò – “Ishida e Sakura ti salutano tanto, caro Kayoshi.”

“Sì sì birbante, però adesso dimmi dove li hai nascosti. E perché hai gli occhi così gonfi? Hai fatto qualche seduta in più di chemioterapia? Racconta, non mi tenere sulle spine.”

“No, caro Kayoshi, fino a martedì prossimo niente chemioterapia. Stasera guarderai il cielo?”

“Certo che guarderò il cielo, che domande, lo sai che è una delle mie passioni! L’unica cosa buona del buio risparmioso è che ci permette di guardare il cielo come facevano gli assiri e i babilonesi. C’è qualche cometa? Perché devo guardarlo proprio stasera?”

Nagato lo fissava dal video sempre più intensamente, i suoi occhi sembrava che si liquefacessero, sembrava chiedere a Kayoshi di dire parole che lui non osava o non voleva pronunciare.

Kayoshi aggrottò la fronte fino a stringere gli occhi i quali tendevano pian piano a rendersi umidi. Il suo volto giunse a sembrare il riflesso specchiato di quello di Nagato. Trenta secondi di crescente gravità trascorsero senza parola alcuna, nessun rumore eccetto i due respiri di fondo, lievi. Solo il respiro di due anziani, un rumore bianco coniugato all’età. Una volta Sakura aveva battezzato il respiro solitario di un vecchio come un rumore grigio e aveva composto per l’occasione un haiku.

I V

 “Il governo dice che la incinerazione è ancora proibita, ma non si occupa delle stelle. Da ieri sera due stelle ci guardano e ci proteggono, Kayoshi caro. Siamo fortunati, sai?”

Kayoshi smise di trattenere le lacrime e si mise a stringere la cornetta come un innamorato cui stanno dicendogli addio. Con un fazzoletto asciugava i rivoli che solcavano veloci le sue smunte guance ma i suoi occhi erano un fortunale copioso.

“Eppure quando ci siamo sentiti l’ultima volta mi avevano rassicurato che venivano da un periodo abbastanza buono di salute, soprattutto Sakura”

“Kayoshi caro, ti sei dimenticato che anche sulla tua consorte la morfina sembrava fare miracoli?

E poi lo sai che le donne sono superiori a noi in quanto a sopportazione del dolore. Per loro il dolore è come incartare una cipolla, riescono ad avvolgerla senza mostrare troppo quello che gli cola dagli occhi. Noi reggiamo apparentemente meglio, ma abbiamo bisogno di imprecare e renderlo evidente. Come quando ci accorgiamo delle zanzare. Lo sai che con le radiazioni sono sparite anche quelle? Ishida negli ultimi tre anni ripeteva sempre che voleva invecchiare vestito come un samurai ma era una scusa per avvolgere la sua povera pelle nelle garze, era squamato dalla testa ai piedi. Povero caro vecchio Ishida, dalla testa ai piedi. Non te l’ha mai detto ma da due anni viveva praticamente con un polmone solo. L’altro era completamente bruciato. Non volevo vederti piangere ma cerca di capirmi: se non lo raccontavo a nessuno mi sarebbe scoppiato il cuore. E se non lo dico a te, a chi lo dico?”

Kayoshi aveva bagnato tutto il bavero della camicia, non riusciva a frenare le lacrime e neanche a usare con costanza i fazzoletti. Si soffiò a fatica il naso per tre volte consecutive dopodiché riuscì a sedare finalmente il pianto. Aveva quasi riempito il cestino a fianco della postazione.

“Prima o poi farò una pazzia, Nagato. Rubo un’auto e vengo a trovarti nella zona proibita. Maledetti cani buoni solo a correggere le statistiche ai telegiornali, a parlare e a fare i bollettini sui livelli di quel plutonio infame, solo con l’elicottero sono venuti a vedere le terre infette, e poi giù a recintare, a fare i perimetri come sagome di dischi volanti, come dice mio nipote. E la gente rimasta dentro come bestie in uno zoo sorvegliato. Maledetti politici, ti giuro che..”

“Kayoshi ti prego ti fa male al cuore adirarti così. Hai ragione, abbiamo tutti ragione, noi.”

Con la coda dell’occhio Kayoshi si accorse di Akira che sentendo il nonno imprecare era rimasto in posa con i chewing gum in mano, come un soldatino in una teca.

“Nagato carissimo, ti voglio bene come un fratello, sono troppo sconvolto per parlare con te con mio nipote accanto. Preferisco tornare verso casa, tornerò da solo qui al Centro televisivo e mi racconterai qualche altro dettaglio, che ne dici?”

“Hai ragione amico mio, almeno per ora risparmia al tuo Akira questa tragedia. Mi fai un favore?”

“Tutto quello che vuoi, Nagato.”

“Stasera quando sarai a casa e sarà l’ora del buio risparmioso, osserva per qualche minuto il cielo. Non abbiamo le ceneri dei nostri cari ma almeno così possiamo ancora immaginare di guardarli. Domani mi metterò in bottega a fare due pupazzetti, cercherò di farli come Ishida e Sakura. Quando ci risentiamo inscenerò qualche cosa che ce li ricordi, come se fossimo in famiglia, lo chiameremo Nucleo della famiglia, d’accordo? Forse è una battuta ma tu mi conosci da decenni, è nella mia natura.  Ed anche se è una battuta idiota posso dire che l’ironia è l’unica cosa che mi è rimasta.”

“D’accordo Nagato caro, ti abbraccio, ci sentiamo molto presto. Facciamoci forza!”

Kayoshi mise un po’ di fretta nello stacco perché sentiva una seconda orda di lacrime bussare sulle palpebre; si sistemò meglio che poté per ricevere il nipote.

“Nonno hai già finito? Vanno bene queste qui?”

“Qualunque cosa Akira, basta che mi tolga l’amaro di questa giornata.”

“Sì nonno come sta il signor Nagato? Ed il signor Ishida? E la signora Sakura?”

“Nell’insieme non stanno peggio di ieri… Ma ora andiamo via che sennò faremo tardi.”

Akira guardava il nonno come si guarda uno straniero che parli una lingua assolutamente incomprensibile. Si avviarono verso l’ascensore, il quale stava giusto arrivando al loro piano. Un uomo di mezza età con grandi occhiali scuri uscì dall’ascensore. Sembrava un grande insetto triste. L’uomo salutò Kayoshi e Akira i quali dopo un attimo ricambiarono i saluti ed entrarono nella cabina.

Kayoshi pensava alla figlia e si augurava che avesse trovato il latte garantito. Aveva imparato ad apprezzare anche quello che proveniva dall’Europa e dall’Italia. Era un prodotto caro, per questo lo prendevano una volta ogni dieci giorni, più che altro per farlo bere ad Akira. Il latte giapponese era venduto strettamente nel sud del paese, già Tokio era considerata una zona più a rischio e molti non si fidavano della maggior parte delle marche in vendita nei negozi della capitale. Tranne che per il latte garantito.

“Akira come vuoi rifare il disegno stasera?” – chiese il nonno nell’ascensore.

“Cercherò di rifarlo senza la bandiera. Che ne dici, nonnino?”

“No, nipote adorato, mettici pure la bandiera, almeno quando quella multinazionale fallirà ti rimarrà la bandiera da osservare, anche se stinta o strappata.”

Accarezzò i capelli del nipote con energia fino a spettinarlo e lesse nel sorriso di Akira l’assenso per la sua proposta. Poi si ricordò del promemoria di Nagato.

“E non dimenticarti delle stelle lassù nel cielo. Le stelle non sono come multinazionali, sono fisse e non si spostano dove conviene in barba ai disastri..”

“Cosa vuol dire nonno?”

“Un giorno lo capirai nipote caro. Stasera disegna due bei punti luminosi nel cielo, due belle stelle. Non una stella sola Akira, ma due. Una stella sola nel cielo non è bello, disegnane di più. Anche se ce ne metti solo due sarà sempre un bel simbolo d’amicizia, come tu ed il tuo compagno Hitoshi.”

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6 commenti »

  1. complimenti !!!molto interessante

  2. Racconto molto bello e toccante.
    Tenero nella sua rappresentazione anziano-giovane dove il nonno ricorda e sembra non credere più ad un futuro possibile ed il bambino apprende e spera, quasi inconsapevolmente, in una rinascita della nazione.
    Fluido nella lettura, scenari interessanti a metà tra apocalittici ed un necessario ritorno alla Natura.

  3. condivido totalmente il commento di Nicola.
    Il racconto è allo stesso tempo dolce e intenso, in uno sfondo drammaticamente attuale, nella parte finale molto commovente.

  4. Trama originale, intensa e delicata. Il pianto del vecchio è senza dubbio il momento più toccante del romanzo, che riaccende i riflettori su una tragedia di cui non si parla più. Il dolore di tante persone non fa notizia .Comlimenti all’autore.

  5. Racconto molto toccante. Segue una linea che sembra di fantascienza ma che invece mantiene rapporti strettissimi con l’attualità ed un fututo tuttaltro che impossibile. Bello.

  6. Sembra di stare in un’epoca ben più lontana di adesso,quasi da sembrare irreale,quando invece purtroppo è maledettamente attuale.
    Non se ne parla più,non se ne sente più parlare,chissà se la realtà si avvicina a quello che racconti?
    Grazie Lotz e buona fortuna gente del Giappone,ma anche di tutto il mondo.
    Elisa.

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