Premio Racconti nella Rete 2011 “Lagon, Flotson, Jetson” di Andrea Masanzanica
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Non c’era nulla fra la notte ed il silenzio quando il fosso mi accolse perché sprofondassi.
All’inizio fu come guardare in una strana gemma, come esser preda degli occhi di Lei, poi precipitare…
Venne la corrente gelida e nera su questo paese che ha per cielo l’acqua, sui miei sensi che così presto abbandonarono il racconto del mondo di prima per una realtà fluttuante di brancolanti apparizioni e fantasmagorie caracollanti , di sinuose forme nuove , spettri cangianti e barcollanti danze d’alghe ubriache fradice.
Il buio è denso, il buio è profondo e vi son sparse coppe di una musica sottile. La luna è una smisurata bestia, una malattia del sonno. La luna è il tappo di una bottiglietta in fondo al mare; la ricordo, la sogno moneta buttata al lago: eccola brillare nell’aria come arco di cometa, come presagio, per spegnersi sulle acque oscure , irrevocabile.
Solamente sento ora di essere già arrivato al fondo, di aver appena iniziato; solamente sento che ad esistere è ora il fosso, immensamente: già tralucono forme altre, già si schiudono strane porte, già il crisma dell’ elemento va perdendomi nella deriva come se tutto fosse accaduto molto, molto tempo fa.
Mi sfiora allora un freddo, bianco pesce, così come mi sfiora il vago, assurdo ricordo di esser morto senza un motivo. Perché si muore per disattenzione oppure per legittima difesa, per abitudine o perché si aveva sonno, perché un naufragio è inevitabile.
Multiplo, si stende il sole in un vello sottile che è quella carezza, poi attraversa il petto disfatto con raggi densi e crudi, con i lampi dei pesciolini fra le coste, con il fosso che entra dai miei occhi, con la vita nuova; si frantuma in simmetrici fiori, in amene fate e specchi, ninfe e miraggi, mutevoli come la fiamma; le ombre degli alberi cadono in acqua con un tonfo, i segni dei rami scrivono nell’aria un desiderio azzurro.
Risucchiato e ancora perso in una bolla d’aria, (l’ultima, che va lasciandomi), poi le schiume ed i barbagli dei tesori tra vegetazioni subacquee, le teste d’anatra col loro verde inarrivabile, a smuovere le sabbie dell’alveo, cercando. Vi fioriscon nuvole di fango trafitte come un gas dalla luce che cade, il più sottile animale che sia dato di conoscere…
Può essere che mi nasconda, a lungo, dove la profumata ombra dei tigli e l’acqua si scambiano segreti, bisbigliando, dove è più forte lo stormir di foglie o nel riverbero, sotto logge di corallo e d’oro, con il luccio bruno e spaventoso, con i suoi fratelli carichi d’argento; potrò indugiare presso rive trasparenti steso in un giaciglio di cascami d’erbe, attraversato da nuvole rapide e fitti sciami di luccicanti pollini; ascolterò il quieto murmure coi salici che piangono nascosti nei loro rifugi , mi dilungherò presso le strozze a ribollire con i tronchi fradici dove i mulinelli tirano giù, risucchiando alcune storie e pezzetti di cielo oppure alla cascata, L’Incessante Voltolatrice, La Fragorosa, La Regina di Spume.
Può essere che stia ad imputridire tra la melma delle gore, impigliato in una nassa o che mi areni su una piccola spiaggia di sassi ed il sole prismatico scaldi questa mia schiena, quando disfacimento e sorte prenderanno questa salma dissanguata e rotta, questo volto cancellato, quando ascenderò a quelle finissime libellule cobalto che si affacciano sul mondo che agli uomini è vietato. Qui ancora si perde la storia della morte piccola di Ofelia e della sua canzone di semplici fiori, qui viaggia la languida, monotona eco di sirene che ripete il canto irresistibile, fra campane remote ed il fragore della pioggia.
Basterà che resti così, immobile, e se anche la marea vorrà salire a spazzar la nera scorza anch’io sarò travolto, senza che alcuno sappia: non io, non l’onda. Sopra il mio talamo, l’ultimo, poserà un corpuscolo asimmetrico e pallido, un’effige sconosciuta; sembrerà un deforme crocefisso, una radice tumida, senza bellezza alcuna. Sembrerò io e sarà già un altro. Me.
Altrove, più a monte, più a valle, (luoghi esotici chiamati indifferentemente “il passato” , “il futuro”), gorgogliano bestemmie le acque chiuse delle tombe morte, senza Dio od in balìa di un qualche Dio Salamandra che fa il buono ed il cattivo tempo dal fondo della sua buca, là dove chiamano i tamburi sottomarini e le chiuse incancrenite di ruggine permettono lagune di acque morte e spente; sommerse, dormono quel loro sonno nudo e limpido le stelle annegate, confuse alle foglie dei platani.
Poi altre acque, tenute e sollevate dal ghiaccio che si muove; acque imprigionate, prese tra un arco di muro e quel loro stesso, ostinato verso; acque profonde; acque pericolose; acque per pesche miracolose.
Certe notti essere del fosso può anche voler dire levitare in ogni centro di una sfera incalcolabile, evocar visioni dal suo specchio d’inchiostro ed esserne signore, mago ed ombra, indissolubilmente. Così, immerso in un battesimo permanente, in una benedizione dalla quale non si torna indietro.
Talvolta la morte porta stravaganti doni. Talvolta la luna, sorella dell’acqua, chiama a sé ogni cosa ed invisibili fili di ragno mi fanno camminare sopra la distesa liquida, così, come farebbe un uomo vivo che sognasse di una processione sul mare. Come poggiare questi piedi sfatti sulla terra per sentirla subito sfuggire, come la risacca usa levare alla battigia, come il giorno i sogni all’alba. Talvolta a prendermi è quella stessa smania che trascina i cani per il naso e che li fa levar la notte per ululare inconsolabili ad uno spauracchio appeso al buio.
A volte sogno di fontane, di città galleggianti e crepitar di foglie, (poi odore di foglie bruciate), o di altri inganni: è la mia vita che se ne va, oppure il vento.
Ma vedete ora come anche il vento sia un effluvio inaccessibile, una bestia imponderabile, ampia almeno quanto il cielo, creatura selvaggia che non sa distinguer le parole, ma non sa resistere ad alcuna, cosicché, sovente, si nasconde nelle ripe e soffia fra le canne barbute per cavarne quel segreto orrendo, poi si posa per riprender fiato fra i ranuncoli e le ortiche?
Lo vedete ora come il vento sia convesso ed a brani vi rapisca al mondo emerso per portarvi all’acqua, dove già la vostra forma giusta aspetta, via dagli occhi della gente e scritta in una conca?
Così l’Estate arriva ed è una piccola onda di bronzo, smarrita e soave ed è quel temporale che chiamai “benedizione”, che confuse l’aria con il fosso, con le strade, ma che tirò giù ogni cosa in un pantano impuro che si trascinò via a stento; è il lampo elettrico del martin pescatore, azzurroarancio al limitar del cielo; è quel rovescio che fa battere orologi di verdure e di grondaie per scassarli ad ogni tuono.
E’ nei fossi che straripano del rosso dei papaveri quando le bisce schioccano come fruste discendendo per sentieri ondulati, quando s’intanano per divorare quel loro mostruoso pasto di rane; sono i fossi che straziano il cuore per quanto sanno essere crudeli e rossi.
E’ la sinfonia intonata dai batraci che, riguardosi, si zittiscono al passaggio delle spoglie, poi riattaccano a ruttare con la foga di arabi al bordello.
E’ il sole del Luglio, (ma ora so che il sole sono almeno due),quello che passa i pomeriggi sulle acque torpide con le sue spade d’oro a spaccare e fondere fulgenti particelle: la più elementare è un golfo di luce; la più spaventosa è quella goccia che riluce sulla riva e cambia continuamente nome, poi colore, straordinariamente mobile come non è l’occhio del naufragato, che si tace, senza un posto se non fuori da ogni tempo , via dal cielo delle cose.
Oh! Infamata sorellina, nera e snella sanguisuga, non indaffararti tanto attorno a questa larva, giacché nulla più v’è da succhiare, nulla da cavare, dove non v’è più amore, né carne, né sangue.
Oh! Invisibili gazzarre dei cespugli! Non smettete per questo pellegrino ché non sta dormendo e neppure è assorto nei gravi pensieri, ché dal suo limbo salmastro svegliarlo non si può!..
La sera è ancora così piccola e lontana, ma già niente più mi può salvare.
Così l’Inverno arriva, con i gattini affogati, i crisantemi zuppi e altre creature: qualcuno ha pietre al collo e per capigliatura disperate alghe. Cerca qualcosa sul fondo e pare triste, ma pacificato in quest’altro regno dove stanno a mollo costellazioni di stracci e morchie, arcobaleni d’oli esausti e i detergenti spargono crepuscoli ed aurore.
Arriva coi teloni come gobbe di fantasmi e con i fogli di giornale come uccelli dalle ali bagnate, forse rotte e le parole che vanno giù come piombo; con i cavoli ipertrofici, coi tuberi guasti, con altri mostri di verdure e col vapore che si leva sopra l’acqua nera, sopra di me, che non riesco più ad alzarmi con addosso questo strano morbo.
Arriva e dice: -Le ossa diverranno monde. Niente più carne né paura- , ed ancora: -Nulla andrà perduto poiché così è scritto nell’acqua-. Sorgeranno prima e più di bolle d’aria, leggere più dell’ombre logore dei platani, ripescate come manici di porcellana.
Aver perduta l’anima, averla salva, galleggiare… Una povera assicella imporra e dondola sui flutti: gli ho messo nome “L’Inaffondabile”, così, per gioco…
Così cedono il passo le stagioni nei romanzi, così svaniscono i dolori.
Così anch’io svanirò, come s’asciuga la pozzanghera, (quella stessa in cui, bambino, cancellavo il mondo buttandoci una pietra), oppure sarà la foce, il mare aperto e l’urto delle onde, il divenire ed il disfarmi… Dove essere Plancton, l’errabondo dei marosi fatalmente mugghianti, irreparabilmente amari, dove i granchi e i polpi provano a stappare le bottiglie dell’oceano, dove si dà il vortice e la rapina e senza collera sbianca lo scoglio l’onda, dove galleggerò con il messaggio improferibile di una bottiglia, dilettevole come il sughero. Illividiscono e si sfanno i giorni infami, zavorrati a un nome da scordare; l’oceano, gonfio e barcollante lancia a terra corpi masticati ed immaturi figli, variegati mostri di bellezza. La risacca stende le tovaglie e le apparecchia dei suoi molti, mirabili gioielli, poi torna a riprendersi ogni cosa, una volta ancora. Nell’aria l’invito e l’attesa.
L’onda verrà, verrà…
L’oceano è un mastello di gigante: vi si rimestano le scelte e i giorni, vi si ammucchiano ad ogni confine nazioni di conchiglie e libri di sabbia, detriti del tempo come statue di sale, perché segnino la forma di questa città altrimenti incalcolabile, perché vi sia una storia, seppur di rovine infami, di cui poter cantare quando sarà lontana l’onda.
Così, forse, ma il destino non lo conosco. Il destino non mi interessa.
Resta di me, ora, meno di un’ombra, qualcosa più di niente mescolato a un livido e indolente cielo, discendente fra le molli vibrazioni di un canto, sprofondato da oscure carezze nella visione di remoti crepuscoli verdi…
Scivola il Gran Riverbero sul meriggio dorato, dicendo dell’acque senza forma né volto in tutte le lingue del sole, cantando di luci di farfalle sfrigolanti sulla linea del tempo. L’ultimo spettacolo di scienza viaggiante, ma il trucco è vecchio come il mondo: immagini mobili , teatralità.
L’eternità andata in frantumi e tutta la vita davanti per rimetterli assieme.
Resta l’elemosina delle parole, con l’acqua fatta a pezzi negli specchi, con le immagini sperdute dei ricordi qui disciolti e tutte le preghiere colate a picco, con quella cosa che sempre corrusca, più in fondo: un orologio od una bussola, un anello, forse una promessa.
Non altro tra il silenzio e il mare.