Premio Racconti nella Rete 2011 “Luci a Laganà” di Mario Angelo Carlo Dotti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Europa. Grecia. Zacinto in estate e la fiera di S. Dionisio.
Un piccolo luna-park ed un dedalo di bancarelle i cui ombrelloni attaccati l’uno all’altro s’intersecano come un tendone unico, intriso di odori e di fumi leggeri gettati nell’aria dai venditori di dolci, accompagnati dal rumore degli ingredienti che sfrigolano su piastre bollenti: il “mandolato”, la polenta dolce e le pannocchie alla brace. Qualche banchetto di oggetti sacri e un vecchio pope che vende reliquie in mezzo al mercato di un’infinità di articoli a buon prezzo, pittoresco, più che per i colori, per la gestualità ed i volti di anacronistici imbonitori dalle bocche deformi che gridano meccanicamente richiami ritmici che ormai sono qualcosa che non si ferma, come il cuore che batte, vitale ed al di fuori di ogni controllo, con una ripetitività indipendente dalla logica della realtà, incuranti di mostrare la dentatura devastata, grottescamente addobbata di capsule d’oro e di ferro od inconsapevoli di ostentare cicatrici nere ed enormi su visi che sembrano uscire dalla saga di Star Trek.
Di tutta questa festa di giorno e di notte, rimarrà soltanto qualche cumulo di cartone qua e là per pochi giorni, per un po’ di più i resti sfuggiti agli spazzini con la complicità del vento e, per tutto l’anno, i pazienti venditori d’aglio e i bambini dei nomadi che, come la piccola Maria, chiedono l’elemosina al semaforo.
Forse per loro il mondo è sempre la fiera da cui attingere dal superfluo dell’universo materiale, su cui pare non abbiano alcuna pretesa se non quella di esistere, come lascia trasparire la loro consapevolezza estetica, legata esclusivamente alla stessa gioia di vivere.
Non conosco la famiglia della piccola Maria: conosco il suo sorriso.
Non credo che la rivedrò ma mi è rimasta nei ricordi, più delle luci di Laganà.
Qualche volta mi è capitato, la notte, di entrare a Laganà.
Dire entrare, anche se è una località di vita notturna all’aperto, rende bene l’idea, perché Laganà è un mondo a parte, come una grande bolla artificiale che racchiude un bizzarro ecosistema.
Fa Comune ma non ha abitanti, anche se d’estate conta gente almeno quanto i mercati di Calcutta.
È una sorta di paese dei balocchi in cui nella strada principale, un’unica grande via che va dalla buia campagna all’arenile, convivono poveri, ricchi, turisti, extracomunitari, la gente che ci lavora, studenti e vagabondi.
E’ un susseguirsi di negozi, locali, bar, discoteche e discoteche all’aperto fino al mare, dove l’asfalto si biforca e diventa sabbia. Qui, dove l’aria permette di scorgere i velivoli che atterrano e partono dal vicino aeroporto sfiorando il golfo, c’è uno dei più ampi tratti di spiaggia in cui si riproducono le tartarughe caretta-caretta.
Proprio questo spazio, chiuso di giorno ed attrezzato con ombrelloni e sdrai, la notte viene aperto e trasformato in una strada per le automobili, per meglio accedere agli ultimi esercizi commerciali sul mare e, in direzione ovest, per arrivare attraverso la sabbia, dove finisce Laganà e ricomincia l’asfalto.
Accadde una di quelle notti in cui mi capitò di andare a Laganà.
Mi rivedo mentre avanzo, immerso nei pensieri, in un bagno di folla e di nebbie artificiali che straripano insieme, come ogni sera d’estate, dai locali invasi da nugoli di corpi indistinti, nel mare caotico di luci, musica, rumori e bagliori di flash.
Mecca dello shopping a basso costo, Laganà di giorno fa mostra delle impalcature che sorreggono gli impianti che ora trasformano la notte in una girandola caotica di luci elettriche ed effetti di fumo da palcoscenico che dalle discoteche giunge puntuale come un grande serpente, fin sulla strada.
Una Cafarnao paragonabile ad una lunghissima piazza affollata e congestionata che arriva alla spiaggia adibita, la sera, a parcheggio a pochi centimetri dal bagnasciuga e di nuovo, nella calura delle ore diurne, attrezzata con lettini ed ombrelloni per dare asilo ai “viaggiatori della notte” che di giorno dormono al sole.
La maggior parte di essi sono Inglesi che tutti gli anni ripetono più e più volte lo stesso doloroso, patetico e storico ciclo.
Arrivano con voli diretti da Londra o da Manchester, bianchi come il latte, diventano rossi come aragoste cotte, si spellano e sotto risorgono ancora bianchi, pronti per scottarsi di nuovo, di nuovo spellarsi e di nuovo tornare bianchi e così fino al momento in cui si ritroveranno all’ingresso delle partenze all’aeroporto Dionìsios Solomòs, ammassati dentro ad una delle interminabili file per Londra o per Manchester, portandosi sulla pelle lacera i segni della loro vacanza da sogno.
Simile ad un fievole lume di lucciola che giochi a nascondino fra le cose, in un angolo con poca luce, mi appare un piccolo corpo.
Il sorriso e la voce di una bimba, circondata dai colori fosforescenti di braccialetti da vendere, troppo grandi per lei, mi conducono in quel pezzo di strada un po’ più discreto ed oscuro, in cui i lampi colorati dei locali notturni fanno solo da sfondo.
“Ia-su Karlo. Ti kani?”
“…Maria! …io sto bene e… sono contento di averti incontrata.”
E mi porge con ingenua spontaneità la sua luminosa mercanzia, senza che si spenga mai il suo fresco sorriso.
Cinque anni, forse, una bambola viva ed uno scroscio di capelli come l’acqua di un torrente che rimbalzi tra mille sassi, lucidi come i suoi occhi scuri.
Tende verso di me il suo braccino ed io penso che è diversa, è molto diversa dagli altri bimbi che alle due di notte vendono piccoli oggetti qui, a Laganà.
Maria non è insistente e lamentosa, non chiede di comprarle i suoi gingilli.
Maria, contenta, li mostra e domanda se ti piacciono; Maria è speciale.
Ne acquisto uno da mandare a mio figlio, ma lei non lo sa, pensa che sia per me e ne sceglie uno lilla e non sa neppure che è il mio colore preferito. Mi dice che quello è il più bello che ha, poi, con molta cura, me lo fissa al polso.
Le porgo una moneta, stando attento a non farmi vedere dagli altri ragazzini più grandi.
Lei, cercando con impegno fra la sua merce, mi tende un altro braccialetto e mi sussurra, quasi a raccontarmi un segreto: “Non ne ho un altro come quello che ti ho dato, ma anche questo è molto bello. Te lo regalo per il tuo bambino.” …devo averle raccontato un giorno, davanti a S. Dionisio, che ho un bimbo più o meno piccolo come lei, che abita lontano e se n’è rammentata.
Le avevo detto che ero triste perché da tempo non lo vedevo e lei me lo ricordava.
Ricordavo anche le discussioni fra me e mia moglie, violente ed interminabili e lui che vi assisteva, da dentro alla sua testa grossa da cucciolo d’uomo, coperta da una liscia peluria dorata con due occhi chiari e limpidi, anch’essi troppo grandi.
Scrutava il mondo senza giudicare.
Ci osservava un istante e poi si allontanava per giocare da solo, parlando con se stesso, senza chiederci nulla…
Una vita amara in cui io e lei non potevamo stare senza litigare e non riuscivamo neppure a farlo senza che lui ci vedesse.
Scelsi di allontanarmi.
Trenta ore di viaggio sono una distanza sufficiente per non incontrarsi.
Ma anche il più bel mare che abbia mai visto è un muro blu, dello spessore di cinquecento chilometri, che ti imprigiona in un paradiso malinconico che non puoi condividere con un bambino che ti cerca e ti vorrebbe sentire ogni giorno ed ogni giorno rispondendoti al telefono, ancora prima di salutarti dice: “Quand’è che mi vieni a prendere!”…
E poi ti vedi crollare addosso tutto il firmamento nel suo splendore il giorno in cui ti giunge d’improvviso il suo pianto disperato, dopo che è riuscito a chiamarti di nascosto ma, nei pochi confusi secondi successivi, sua madre gli strappa il telefono di mano e lo spegne…
L’ultima volta che ero tornato in Italia, nella città bruciata dal sole, la primavera già alla fine stava poco a poco perdendo l’annuale assedio verde sul grigio degli edifici, esponendo cortecce secche come ferite di soldati ormai lontani dal fronte, di una guerra comunque già decisa dai numeri.
In mezzo al caos nevrotico e camminando fra parcheggi in cui sostavano in stretto disordine le auto, affastellate più delle foglie, io andavo a prendere, dopo tanti mesi, il mio bambino.
Scendendo la scala del fresco seminterrato della scuola materna, sul pavimento di mattonelle marrone scuro mi apparve qualcosa di incredibilmente biondo, quasi bianco, come un pupazzo animato di vita propria.
Se ne stava lì, in fondo ai gradini chiusi da un cancellino colorato, senza saper fermare i movimenti costanti di quel corpo attaccato alla testa, impegnata in imprese più grandi di lui, simile, per dedizione al mondo, alla piccola Maria, ma col limite dell’ambiente asettico ed artificiale che gli era concesso, nella sua non del tutto ignara cattività.
Giochi, estremamente seri, come l’espressione dei suoi occhi azzurrini mentre veniva incontro a me, per donarmi il suo più importante riconoscimento, proprio e solo a me, che ero già a braccia aperte ed in ginocchio perché il suo viso potesse raggiungere il mio.
Ed ora, chino sulla piccola Maria per ascoltarla, non appena la sua manina mette il suo regalo nella mia, mi devo rialzare, devo tornare fra gli adulti, nascondermi fra i rumori, riprendere la mia statura da “grande”.
Faccio a tempo a ringraziarla ed a ostentare velocemente il sorriso migliore di cui sono capace in questo istante, guardando lontano: me ne devo andare, non voglio che veda le lacrime che mi scendono sul viso…
Anche questa volta penso che non so se la rivedrò e mi chiedo che ne sarà di lei e dei suoi piccoli amici, se saprà conservare la gioia che la accompagna e che regala senza neppure saperlo.
La prima volta che scorsi Maria, forse un paio d’anni prima di quella sera a Laganà, mi trovavo in un giorno afoso, chiuso nell’aria condizionata della mia auto, in una corta colonna nel solito traffico poco monotono della città di Zante, quando il mio sguardo cadde su di un fazzoletto bianco che si muoveva apparentemente da solo, appallottolato sullo specchio retrovisore esterno di un’auto al semaforo in attesa del verde.
Solo quando partimmo compresi la scena completa.
Dietro alla vettura spuntò, vicinissima alle ruote, una bambina in punta di piedi, di tre anni forse, che stringendo una bambolina di cenci sotto braccio, ad imitare la sorellina più grande di lei che puliva i vetri delle automobili in attesa del verde, con un fazzolettino di carta e commovente, infantile impegno, cercava di strofinare gli specchi retrovisori, perché fino lì poteva arrivare.
Quanto mi sembrò tenera, nella sua ingenuità, sospinta da tanto, sereno entusiasmo nel rendersi utile alla sua famiglia, malgrado la sorella visibilmente preoccupata la tirasse delicatamente per mano, tentando di rimetterla sul marciapiede.
Diversa eppure bella nei suoi stracci, puliti ma con quella caratteristica parvenza di sporco, simile ai colori della bambola di pezza che stringeva e della sua pelle scura, tanto piccolina che il conducente dell’auto neppure si era accorto di lei.
Certe persone nascono con la voglia di vivere ed in particolare, quando sono bambini e nessuno gli ha detto che cosa è bello e che cosa è brutto, vogliono provare qualsiasi cosa vedano.
Svoltai attorno all’imponente edificio di S. Dionisio ed imboccai subito a destra il vicolo più vicino e poi ancora a destra dentro a una strettoia che mi riportava sulla via davanti alla chiesa, ormai avvezzo a passare a misura fra i veicoli parcheggiati alla rinfusa, sicuro e allo stesso tempo, come sempre e senza motivo, irrequieto. La via sbocca a qualche metro dal semaforo ed io, arrivando da destra, avrei dovuto spostarmi a sinistra, sperando nel traffico, che al momento giusto scattasse il rosso e che la piccola fosse ancora lì.
Forse il Santo c’è anche per chi non crede perché lì, davanti alla chiesa, tutto funzionò con la precisione di un orologio, esattamente come la mia mente lo stava disegnando. Un varco fra il flusso scombinato delle auto, il rosso scattò ed io potei allungare pochi centesimi nella manina di una bimba sorridente e scambiare quattro parole col mio greco stentato, scoprirla loquace più dei grandi e guadagnarmi con un nulla il grande regalo di oggi: la stessa bimba che a distanza di tanto tempo, in un altro posto, fra un ammasso caotico di persone e cose mi riconosce da lontano, mi chiama per nome, aspettando discretamente che sia io ad avvicinarmi, e mi sorride come fossi il suo fratello più caro.
Da anni manco dall’isola e chissà dov’è adesso Maria.
Se vi trovaste a passare da Zante potreste salutarmi tanta gente, ma nessuno potrà portare i miei saluti alla piccola Maria.
Maria è nomade e neppure io saprei dove trovarla.
Voi cercatela ugualmente, cercatela in un regalo che l’esistenza vi offre per un solo istante, cercatela nel suo sorriso che non avete ancora visto, nel sorriso alla vita, nel sorriso delle persone ed infine nel vostro.