Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Sono come l’edera” di Valentina Filipponi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Riuscivo a vederla oltre il vetro del piccolo salotto di casa mia. Oltre la strada. Oltre la finestra di casa sua. Abito pomposo e cappello sul capo, guance paffute e bocca piegata in un amabile sorriso. Ascoltava musica classica e piroettava su se stessa. Il gatto, Alfredo, stretto tra le braccia. Abitavo in campagna in quegli anni, in una frazione non troppo popolosa. Ci si conosceva tutti ed i rapporti erano di cortesia, ma le voci che circolavano sul conto di quella donna erano semplicemente cattive.

“Quella vecchia è fuori di testa”, oppure “dovrebbero portarla in una casa di cura” e ridevano di lei. Io no. La trovavo singolare, è vero, ma viva e piena d’allegria. Quello che pensavo di lei era semplice: era una donna perso in un suo personalissimo mondo, nel quale si rifugiava e stava bene. Se ne stava per conto suo: lei, la musica classica ed il suo felino. Pensandoci bene, l’unica con la quale aveva stretto un po’ i rapporti ero proprio io. Lavoravo in una bottega in città e mi chiedeva la cortesia di portarle la spesa. Nulla di troppo impegnativo.

Mi fermavo da lei la sera prima di rientrare a casa. Bussavo almeno tre volte prima che mi aprisse. “Cara!” diceva appena mi vedeva. La voce cortese e bassa. Dal cappello sbucavano fuori dei capelli castani lunghi sino alle spalle. Prendeva lesta il sacchetto di carta e mi faceva accomodare. I mobili in stile antico erano perfettamente lucidati. Il soggiorno, nel suo disordine, era preciso ed ordinato. Apriva un cassetto, e tirava fuori gli spiccioli per pagarmi la spesa che le portavo. Più volte aveva cercato di intrattenermi, ma ero troppo stanca per ascoltare i suoi racconti, così intascavo le monete, attraversavo la strada e mi rintanavo nel mio nido. Quello si veramente disordinato! Un’insalata condita in fretta ed una scatoletta di tonno…non era una cena ideale, ma quanto di più veloce riuscissi a preparare. Volevo del tempo per me… prendevo la matita ed il blocco di carta bianca, una tazza di tè fumante e giù a tracciar linee su quella trama sottile. Adoravo disegnare i visi delle persone. Lavorando in bottega avevo a che fare con diversa gente tutti i giorni, gente che spesso si produceva in espressioni di tutti i generi, talvolta buffe ed ilari. Ed era questo che volevo conservare: la diversità stupenda delle persone, la loro interiorità e la capacità di esprimersi semplicemente con uno sguardo. Tra un segno e l’altro della matita mi voltavo a guardare fuori della finestra…all’altro lato della strada la casa della signora Amelia era già avvolta dal buio. Quello era un segnale anche per me, era tempo di andare a dormire.

I giorni passavano, il lavoro era stabile ed io sempre sola. La mia cartellina di plastica rossa al contrario era piena dei miei disegni.

Ricordo che era domenica. Andai in cucina a preparare del caffè, poi, come ogni giorno, mi avvicinavo alla finestra del salotto per vedere se la signora era lì, che aspettava di salutarmi. Quella mattina non c’era. Neppure Alfredo. Al contrario avevo visto un’auto parcheggiata di fronte l’ingresso dell’abitazione. Lo trovai strano, la signora non riceveva mai visite, o almeno non da quando io mi ero trasferita in quella frazione. C’era calma, non si sentiva neppure la musica. Mi grattai il capo e feci spallucce. Il davanzale della mia finestra era ampio, ed anche quella mattina mi misi lì seduta. Pantaloni del pigiama a righe azzurre ed una canotta bianca. I capelli rufi e la tazza di caffè in mano…mi domandavo come avrei impiegato la giornata, indecisa tra una lunga passeggiata ed un film strappalacrime. Un giovane uscì dall’abitazione della mia bizzarra vicina. La salutò con un bacio sulla guancia e se ne andò a bordo dell’auto. Amelia chiuse lentamente la porta. Per un attimo ci guardammo ed io alzai lentamente la mano in segno di saluto. Non rispose. Per tutto il giorno ci fu silenzio. Sentii come l’obbligo morale di rimanere lì, in casa. Rimasi in pigiama, ancora con i capelli rufi, sprofondata nel mio divano a guardare la tv. Pensavo che se avesse avuto bisogno di me, avrebbe dovuto trovarmi. Ogni tanto sbirciavo fuori. Alfredo era alla finestra.

Più di una volta dopo quel giorno ero stata tentata di bussare alla sua porta. Arrivavo davanti all’abitazione, chiudevo il pugno, alzavo la mano per bussare…poi l’abbassavo, mi mordevo le labbra e andavo via. Mi capitò di vedere ancora quell’auto. Ero stupita e sinceramente preoccupata. Nessuna musica proveniva più da quella casa, e quando mi capitava di incontrare altri vicini, li sentivo ridere e dire che era ora che quello strazio finisse. Non rispondevo, mi limitavo ad arricciare il naso e ad andarmene per i fatti miei. Una sera, un’altra ed un’altra ancora. Tornò la domenica mattina, come solito in quel giorno, mi alzai tardi. Pigiama e tazza di caffè caldo in mano, mi avvicinai alla finestra. Alfredo era lì e guardava dritto dritto verso di me. Come mi vide comparire, inarcò la schiena e strusciò il suo musetto sul vetro, poi tornò a sedersi. Girò il viso verso l’interno della stanza e poi tornò a fissarmi. Mi sedetti sul davanzale. Lo guardavo e lui mi guardava. Ripeté quel gesto ancora diverse volte, fino a che non pensai che stesse cercando di chiamarmi. Finii di bere il mio caffè e finalmente mi decisi ad andare da lei. Non mi preoccupai di vestirmi o di lavarmi il viso. Scendendo dal davanzale mi infilai le ciabatte, uno scialle di cotone sulle spalle ed uscii. Come un lampo fui davanti a quella porta. Bussai. E nessuno rispose. Bussai a lungo, sempre più forte. Sentivo Alfredo miagolare e finalmente dei passi al di là di quel legno pesante. Un rumore ferroso e la porta si aprì. Neppure mi salutò, ma stanca Amelia tornò a sedere sulla sua poltrona. Fissava un punto indefinito davanti a sé. La stanza era in disordine ed impolverata. Andai a sedermi sulla poltrona di fronte a quella dove sedeva la signora. Mi sfilai le ciabatte dai piedi e senza tener conto della forma, incrociai le gambe rimanendo zitta. In un balzo Alfredo mi fu sopra e si accoccolò su di me. Si sentivano le sue fusa. Amelia abbozzò un sorriso nel vederlo. Stette in silenzio ancora un po’, mentre io carezzavo quel cartoccio di pelo e nella mente sfogliavo l’albo delle “parole giuste da dire”.

“Tutti pensano che io sia pazza.” disse improvvisamente e scandendo bene le parole. Il tono era basso come sempre, ma vivo e pieno. Alzai gli occhi su di lei. Non risposi e del resto non ce ne fu bisogno, perché continuò a parlare dicendomi: “Tutti pensano che io sia pazza ma…non mi importa.” sospirò ed ancora: “Il ricordo più bello che ho, lo trovo non nella vita che ho vissuto, ma in quella che non ho vissuto.” i suoi occhi si erano persi… feci per parlare ma subito cambiai idea. Lei tornò a guardarmi negli occhi. Erano due fuochi ardenti, miravano alla realtà. “Vogliono portarmi via da qui. Da questa casa… questa casa è mia. È la mia vita. Voglio morire qui.” e abbassò ancora di più il tono della voce. D’impeto le dissi: “Ma cosa dice?” e mi sporsi un po’ verso di lei. Mi prese forte le mani e mi disse ancora: “Chiara, io sono vecchia…e sto morendo!”. Rimasi un attimo sorpresa, ma mi fece comodo in quel momento pensare che era solo una sua paura, dato che sentiva il peso degli anni che crescevano. “Vedrà che io e lei resteremo qui ancora per molti anni!” ed accennai un sorriso che si spense non appena la signora Amelia si tolse il cappello e…la parrucca! La parrucca…io non lo sapevo. Guardai velocemente il suo capo roseo e liscio, se non per una piccola macchia di capelli bianchi sul lato sinistro. Era malata. Me lo stava dicendo, ma non indagai oltre e mi accontentai di ciò che avevo visto. Tornò a stringermi le mani e sentivo i suoi occhi puntarsi pieni nei miei, per avere la mia attenzione, perché io finalmente l’ascoltassi. Disse ancora: “Lui mi diceva: io sono come l’edera, dove mi attacco muoio! Ed io queste parole le ho fatte mie. Perché sono diventata un’edera attaccata al suo cuore…e sono morta quel giorno, il giorno in cui è partito e non è più tornato! No, non pensare che io non abbia poi amato mio marito, ma ho amato ancor di più lui. Ed ora che sono rimasta sola, e sono vecchia…vivo nei miei ricordi, in quello che mi ha fatto sentire viva. Chi pensa che io sia pazza, lo è ancor più di me…” mi stava parlando quando sentimmo bussare alla porta. Lei si risistemò la parrucca sul capo e di seguito il cappello. Mi alzai ed infilai le ciabatte, aprii la porta e mi trovai davanti il giovane che avevo visto precedentemente: suo nipote. Ci guardammo un attimo negli occhi. Il tempo che bastò ad entrambi ad accennare un piccolo sorriso di saluto, il tempo che bastò a me per rendermi conto che…avrei visto quel giovane ancora, ancora ed ancora…

Quello che non sapevo, era che avrei stretto la sua mano nel ricordo di una donna alla quale avevo voluto e voglio ancora bene.

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2 commenti »

  1. La solitudine, i ricordi del tempo andato e qualcuno a cui confidare i propri sentimenti ed i propri rimpianti.Coinvolgente

  2. una variante sul tema del “diverso” e dell’amore resa in modo toccante ed emotivo. Complimenti.

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