Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Cronaca di un delirio” di Beatrice Dallolio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Scoprì di lei nel modo più ovvio e scontato possibile, leggendo la loro corrispondenza durante l’estate del suo trasferimento in America.

Mille promesse all’aereoporto e due giorni dopo faceva sosta a Chicago, nel suo letto.

Una dell’est. Di lei sapeva quello che in una pagina di diario lui aveva scritto confessandosi. Asiatica, di nome Minjong, amante degli animali, degli anziani, vincitrice di due borse di studio, autrice di vari trattati sulla fame nel mondo.

Il confronto con questa eroina dei poveri segnò i suoi mesi a venire, tormentandola nel sonno, impedendole di alzarsi la mattina, bloccando la fame, rendendola succube della sua approvazione che peraltro non mancava mai.

Quell’estate aveva accettato uno stage in un’agenzia pubblicitaria, non le interessava niente di quello che cercavano di vendere. Andava al lavoro magra e annoiata, tornava a casa la sera angosciata e nervosa. Le giornate di lui erano scandite da contatti e incontri, quelle di lei dal terrore dei suoi contatti e dei suoi incontri.

Lui accettò di trascorrere quei tre caldi mesi in Italia solo per lei, avendo ben altro da fare in giro per il mondo con il sogno di diventare qualcuno.

Legati da un senso di colpa.

Le uscite con gli amici erano per lei terreno di incontri promiscui, non si fidava nemmeno quando rispondeva al telefono. Non aveva mai la certezza che fossero interlocutori di sesso maschile. Era diventato un disco di bugie. Lei sapeva benissimo che aveva la sua vita parallela anche ora che vivevano insieme. Era come cercare di strizzare una spugna e di raccogliere tutta l’acqua, c’era sempre qualche goccia che le sfuggiva.

Paradossalmente sperava che non la richiamasse, che sbagliasse in qualcosa, che non le dicesse che l’amava alla follia e che c’era solo lei, odiava la sua pazienza e il suo buonismo.

Una sera tornò molto tardi e lei, imbottita di Lexotan, non aveva nemmeno la forza di formulare le domande standard.

Adottava la tecnica dello sfinimento.

Chiedeva, chiedeva, richiedeva sotto varie formule, ma l’ultima risposta, la centesima, la dava per buona. Il più delle volte manteneva la stessa versione, in alcuni casi la versione veniva leggermente modificata senza grossi danni, in altri le diceva quello che voleva sentirsi dire sapendo che non avrebbe ottenuto di meglio.

Partì l’ottobre seguente alla volta di New York senza nemmeno pensare se fosse la cosa giusta, raggiungerlo.

Lasciato il lavoro all’agenzia si mise con dedizione a preparare severi esami e materiale utile per accedere all’università che frequentava lui.

Si nascondeva dietro al sogno americano, alla lingua che sarebbe stata perfetta e fluente, alla pochezza di chi vive in provincia.

Una volta posata la pesante valigia nella soleggiata casa americana, uguale a decine di altre case in vicoli uguali a sé stessi in una città senza identità, si dedicò anima e corpo a pulire e sistemare il loro nido.

Lui apprezzava, ma in un lampo si dimenticava di quella fatica non richiesta, tornava quindi al suo computer, impassibile ad ogni rumore che provenisse dal di fuori dello schermo.

L’attesa dei risultati fu veloce. L’università a cui aveva fatto domanda non l’accettò e questo la mandò ancor di più in crisi. Lui le stava vicino con animo pacato, dandole consigli come se li desse ad un amico, rassicurandola e spronandola che avrebbe potuto ritentare o far domanda in un’altra università.

Ogni giorno aggiungeva rabbia al suo curriculum.

Il confronto con Minjong, con il suo inglese perfetto, vincitrice di borse di studio, che partecipava ai convegni all’età di 26 anni mentre lei a 30 ancora non sapeva cosa fare della propria vita, la faceva impazzire.

Lei adesso era lontana, ma di lì a poco, un suo messaggio nella segreteria di casa annunciava il suo trasferimento all’università di New York. Si, a New York.

Sperava fosse uno scherzo di cattivo gusto.

Ma così non fu.

Lei ora era con loro, tra tutte le città americane lei aveva ottenuto il trasferimento nella loro stessa città.

Iniziò l’esaurimento.

La vedeva in ogni angolo, in ogni ristorante o bar di ogni zona della città. Lo accompagnava ovunque, trascurando la sua vita e le cose che doveva e poteva fare.

Si sapeva presenza ingombrante e pesante, ma una forza superiore la dominava suo malgrado.

Una mattina, reduce da una notte di doloroso sesso dovuto all’incessante confronto, decise che l’unico modo di uccidere il fantasma era incontrarla.

Non le fu difficile trovare i contatti. Le diede appuntamento in un locale vicino al campus, una sera di inizio novembre, con gli alberi color d’autunno, verso le sette.

Restò seduta tenendo in mando un bicchiere di coca ghiacciato, la mano sinistra quasi anestetizzata. Fece un cenno con la mano. Lei senza espressione sul volto si avvicinò sedendosi di fronte, ordinando qualcosa nel suo inglese perfetto.

Cominciò a parlarle senza troppi giri di parole, ma mentre le parole sapientemente studiate a tavolino uscivano dalla sua bocca provò un senso di fastidio verso sé stessa. Questa ragazza, una ragazza qualunque, che aveva avuto il piacere di stare nello stesso letto del suo ragazzo, le appariva ora più semplice e banale di quello che si era immaginata.

Mangiava e beveva come un essere umano. Sapeva anche stare seduta tranquilla. Occhi tagliati in modo buffo, viso piatto, ma nel complesso armonioso, un seno piacevolmente inesistente, braccia non depilate, capelli neri lisci di mezza lunghezza. “Tutto qui?”.

Minjong la interruppe con fare saccente iniziò a tranquillizzarla. Su di lui, sulla sua vita privata, sul fatto che vivere a New York non voleva dire niente per lei se non aver vicino un amico.

Fermi tutti.

Amico?

Nessun amico sottolineò sforzando un sorriso:

No, no, you don’t understand. You can’t see him, you can’t call him or whatever..”

Lei scoppiò in una risata acuta e fastidiosa.

You’re mad, senseless”.

Forse era vero che era pazza, ma niente e nessuno avrebbe toccato il suo mondo.

I’m not joking, please avoid any contact with him. It’s not enough what you did last summer?”

La conversazione con l’asiatica non andò come previsto. Lei non avrebbe mai rinunciato alla sua libertà. Le offrì dei soldi, avrebbe rinunciato ad altre cose. Sapeva del suo bisogno economico, della sua continua ricerca di borse di studio nonostante la sua intelligenza fuori dal comune. Le offrì una cifra abbastanza alta per stare fuori dalla loro vita per almeno sei mesi.

L’asiatica accettò.

Nei giorni seguenti avrebbe voluto gioire con lui di quella liberazione, ma le sue antenne si accorsero ben presto che l’attenzione si era focalizzata solo su una piccola parte delle indesiderate entrate, trascurandone altre. Non aveva calcolato la presenza di Chiara nel computer, di Elisa nelle lettere, di Sara negli sms. E quando riusciva a eliminarne una coi soldi, con una minaccia, con una telefonata, d’improvviso appariva un altro nome sul quale creava nuove modalità di distruzione.

Anneriva le sue giornate, lo colpevolizzava, lo piegava, facendolo sentire sporco.

E la sua sensibilità reagiva bene alla tortura

L’esaurimento era in pieno corso.

Arrivò Natale. Avevano scelto un appartamento per vivere da soli, pagato l’iscrizione all’università privata e avvisato parenti e amici della decisione del trasferimento definitivo.

Il pacchetto era pronto. Si sarebbero separati solo per due settimane.

Il giorno prima di partire lo aspettò fuori dalla classe serale, aveva appena finito di leggere la bolletta trasparente del suo telefono. Troppe cose non le tornavano.

Lui rideva e mangiava un hamburger con gli altri. Gli si presentò di fronte totalmente sconvolta. Una forza inspiegabile venne fuori senza dargli modo di difendersi.

Non ricordò mai quante cose terribili gli disse né quante volte alzò le mani.

Lui non glielo perdonò mai e lei non cercò mai il perdono.

Non arrivò nessun messaggio all’accensione del telefono al primo scalo ad Atlanta.

Finì in modo molto veloce. Una telefonata la sera di Natale.

Non vide un soldo, non si fece curare come da suo suggerimento e non lo risentì dopo un anno come le aveva promesso.

3 anni dopo

 

“Ciao, si tratta di Luca”.

“Ma..si, dimmi”.

“Un incidente, non sappiamo ancora niente, è grave, non era solo ma non si sa niente”.

Guido verso la tua città, con gli scatoloni nei sedili posteriori. Forse li lascerò a tua madre, forse li terrò in macchina, forse li butterò.

Eravate insieme? Passati i sei mesi la stronza è tornata a cercar soldi da te?

Rianimazione.

Parenti, amici, lacrime, mani sulla bocca di chi non ha parole per interpretare.

Mi avvicino al fratello:

“L’avevo avvisato di starle lontano, una persona pericolosa, voleva solo approfittare dei suoi soldi, della sua generosità”.

“Vuoi dire che…?”.

“Non potevo tenerlo con me con la forza, non è nel mio stile”.

Lo sguardo severo della madre incontrò il mio sorriso da brava ragazza.

La suocera che non mi aveva mai accettata, avrebbe difeso il suo pargolo fino alla morte.

Guardati come sei ridotto.

Certo è che da quel letto non puoi combinare altri guai, c’è chi ti terrà sotto controllo. Prigioniero del tuo stesso corpo. Mi sento liberata dall’impulso nauseante di vegliare la tua vita. Non ci sarà più tormento.

Lascio l’ospedale, mi concedo una sigaretta prima di intraprendere il viaggio di ritorno.

Compongo il suo numero, “Ciao amore, dove sei?”.

“Al lavoro”.

“Chiamami appena esci, non un minuto dopo”.

“Certo amore, sarà fatto, non temere”.

Distrattamente rispondo: “Sono sicura lo farai”.

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