Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Town and gown” di Antonella Gramone

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

We should be most grateful if… Are we right in assuming that… Ripiegò la lettera in quattro. Richiuse quelle formule tra le pagine del libro posato sul tavolo. Di tanto in tanto beveva un sorso del tè freddo che si era fatta portare; con la sinistra, con sudata irritazione, scostava una ciocca di capelli che continuava a ricaderle sugli occhi.

     ‘Gonville and C-a-i-u-s college’ aveva chiesto al suo arrivo al tassista fermo nel piazzale della stazione, sillabando con una punta di orgoglio l’indirizzo. L’uomo aveva fatto un piccolo ghigno e messo in moto, mentre lei per tutto il tragitto si era chiesta cosa mai avesse capito e dove  l’avrebbe portata. ‘Solo i turisti e gli stranieri cercano ‘Gonville e C-a-i-u-s college’, le avrebbero spiegato quella sera stessa i futuri colleghi. ‘Per noi è semplicemente Keys, come si pronuncia “chiavi” al plurale’. E lei si era sentita felice: per quella spiegazione, perché le sembrava che un mondo speciale le si stesse spalancando davanti, perché anche lei avrebbe fatto parte di quel ‘noi’.   

      Aprì il libro. Sfiorò con le dita il frontespizio, Storia della Confraternita della Beata Vergine (Cambridge 1352). ‘Altro tè, signora? No no grazie, va bene così… tra un po’ vado’. Allontanò di nuovo la ciocca dagli occhi.

      Ci era capitata un giorno che cercava la piscina comunale. Quella lunga strada che portava dai prati ben curati di Parker’s Piece verso la periferia l’aveva incuriosita: un susseguirsi di negozietti gestiti da indiani che sembravano non chiudere mai, un’officina per riparare biciclette, l’aria densa di spezie e di olio fritto. Mill Road dava l’impressione di un brulichio continuo, un luogo dove poter alzare il tono di voce e ridere fragorosamente, bussare alla porta delle case senza aver preso appuntamento; un’immediatezza e noncuranza del vivere impensabili nelle parti della città a lei abituali.

      Era rimasta a Milano, ormai. Una calura e un traffico a cui non era più abituata, le lamentele di chi non sarebbe andato in ferie perché da quando c’era l’euro chi ce li aveva più i soldi, e i racconti di chi quell’estate si era fatto Lanzarote. Si scosse. Forse avrebbe potuto fare un salto all’Esselunga. Tanti scaffali pieni di etichette da leggere diligentemente per prolungare il tempo della spesa… Un flash di occhi grigioverdi. Una camicia a scacchi. Subito una stretta allo stomaco. Gelida e affilata proprio quando stava abbassando la guardia. ‘Ma tutto quel formaggio devi prendere? che ce ne facciamo?’ E lui che sbottava in una di quelle sue risposte ibride: ‘Come on, Anna, stop nagging, lo mangiamo, no?’

      Paul lo aveva conosciuto a Petersfield, il quartiere attorno a Mill Road, in un posto di libri usati dove i clienti potevano passare il pomeriggio a giocare a dama senza che nessuno li scacciasse. ‘E’ così diverso da Heffer’s’, aveva commentato lei guardandosi attorno, facendo un confronto con la libreria antiquaria dove andava di solito. ‘Allora è vero che la gente in King’s Parade non compra mai cibo per cani e pannolini…’ l’aveva stuzzicata. ‘Questa città ha due anime, non sai? Town and gown…’ Lei era scoppiata a ridere immaginandosi la più fotografata strada del centro di Cambridge invasa da Pampers e da nugoli di cani affamati. ’Così  io starei con quelli delle toghe?’    

      Era sempre stata sommersa da libri. Tanti, tantissimi, per lavoro, per passione, per sicurezza. A volte, quando si fermava più a lungo nell’University library, immaginava di rimanere bloccata dopo l’orario di chiusura in quell’intrico di sale ovattate. Non si sarebbe sentita a disagio o intimorita, a trascorrere la notte in mezzo a busti di marmo e teche di vetro, affatto: le sarebbe sembrato di trovarsi nella dimora silenziosa di un ospite accogliente. ‘Tu hai paura del mondo’, le aveva detto Paul, in uno dei loro primi incontri. ‘Hai ragione’, si ricordava di avergli risposto, stupita lei stessa per prima di quell’ammissione che le era venuta alle labbra così, semplicemente.

      Milano, dove era cresciuta, le era sempre sembrata eccessiva: troppo traffico, troppo ricambio di gente, oggi ci sono domani vedremo… troppo di tutto, e troppo in fretta. Una saturazione di presente. Lei invece passava le sue giornate a occuparsi di quello che era successo un tempo in paesi dalla toponomastica ignota. Faceva la storica di professione, era una medievalista. All’oggi non riusciva mai ad arrivare.

      Paul lavorava nel parco scientifico a nord della città, quella ‘Silicon Fen’ dove anche il futuro sembrava più vicino. ‘Lo sherry va benissimo’ rispondeva graziosamente quando veniva trascinato ai garden parties coi colleghi di lei che disquisivano col bicchiere in mano. Veloce a sintonizzarsi con l’altrui mondo. Quando dovevano spiegare dove si trovasse l’appartamento in cui erano andati ad abitare, in Orchard Court, un blocco di case un po’ defilate, lei si perdeva sempre in estenuanti giri di parole. ‘Vicino all’Elm Tree, il pub, quello del jazz il giovedì sera’, intervenivano allora in suo aiuto quegli occhi grigioverdi. ‘La logistica inglese è basata sulla vicinanza alla birra. In Italia voi avete le chiese, dite sempre in quale parrocchia si trova casa vostra…’   

     Negli anni avevano trovato un punto di convergenza temporale, un ritmo che li accomunasse. Il metronomo aveva oscillato un po’, rallentato leggermente  il dinamismo di lui, dato qualche scossa alle esitazioni di lei. Paul aveva imparato ad amare Milano. Gli piaceva girarla in bici, quando venivano a passarci qualche giorno: la zona della Martesana, soprattutto, e il tratto dei Navigli snobbato dalle tribù della notte, oltre i Canottieri Olona. ‘L’avete mai visto uno di Cambridge che ama l’auto?’ e pedalava via su una Learco Guerra azzurra che si faceva prestare.

Ventidue  giugno, Viale Coni Zugna, davanti al semaforo, un anno prima.  Pensavano di fermarsi in città per un paio di settimane soltanto. Era uscita da sola, doveva fare delle commissioni, passare in tintoria. ‘Pronto? La signora Hewitt?…’ La lama gelida aveva incominciato a premerle all’imboccatura dello stomaco, il cellulare sembrava stesse per esploderle in mano, bollente… ‘venga subito al Policlinico, signora…’ La voce dall’altro capo del telefono giungeva in un’eco confusa in cui poteva percepire solo qualche frase isolata, come una lingua straniera poco conosciuta di cui riuscisse a cogliere solo alcune parole…‘la precedenza… non… la ruota… il camion’…

      Aveva incominciato a correre verso la fermata dei taxi lì vicino… D’estate, sempre, quando ti servono non ci sono mai, bastardi dove siete, vi prego portatemi subito… ’

      God please, please… Our Father, who art in Heaven… sia santificato il tuo nome… hallowed be Thy Name… Forgive us… per favore per favore Per favore..

      Raccolse il sacchetto di plastica giallo, infilò lo scontrino nel portafogli, mise in borsa il libro a cui si era aggrappata tutto il giorno. Si avvicinò alla porta automatica che si apriva e chiudeva all’avvicinarsi dei clienti. Esitò sulla soglia. Si morse appena appena il labbro inferiore. On Earth as it is in Heaven. Chiuse gli occhi, li riaprì quasi subito. Come in cielo così in terra… Fuori il traffico di fine giornata la aggredì con il suono concitato dei clacson. Faceva freddo, ora.

 

  

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