Premio Racconti per Corti 2011 “Farfalle” di Luisa Bianchi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011“Una farfalla dorata” dice l’attore, “Mettere una farfalla dorata al centro della scena”
E’ già spalancato il tendone sulla platea vuota. Un soffio di voci . Fra i riflettori delle luci accese a metà rosseggia la figura di lui, il primattore e regista.
Rimbombano i passi lungo il tavolato di legno. Le braccia si agitano. Silenzio.
Si alza la voce. Decisa.
“E’ cosi che la vedrei, una giovane donna che danza simulando la leggerezza del volo. Vortice ascensionale delle braccia, rapidità dei movimenti, sinuosa avvolgenza del corpo.”
Lei lo guarda ammirata. Siede composta in seconda fila, di lato. I capelli raccolti sulla nuca, gli occhi lucenti, le braccia incrociate. Morbida si muove sulla poltrona, il golfino che le copre appena le spalle abbronzate.
Qualcuno la chiama sul palco. Iniziano da lì le prove, da quella sola battuta che le hanno consegnato, come un pacco ben fatto e lucente con dentro un regalo. Da poco. La sua battuta da poco è stata ripetuta cento volte. Provare e riprovare l’entrata in scena. Con naturalezza. Come se dovesse recitare l’intero Amleto per un pubblico accorto e raffinato. Tutti gli anni dell’Accademia per una battuta. Barattare così tanto studio per un’unica emissione di voce.
“La signora è attesa di là nel salotto. Può accomodarsi” Poco meno di niente.
“La campagna riecheggia di nulla” sarebbe stata perlomeno una battuta di peso. La frase che ha catturato stanotte in sogno fra il palpitare leggero di farfalle.
La sua parte? Un fantasma. Il ricordo di un amore evanescente e fragile come ali di farfalla.
“Un ricordo riapparso in sogno. Niente di più inafferrabile. Sono esattamente le parole del regista. E lei deve limitarsi a ubbidire. Per questo sale sul palco, ancora con la sua giacchina di lana scivolata su una spalla. Entra in scena e pronuncia la frase con un tono diverso dal solito. Lo sente ma nessuno se ne accorgerà. Di solito l’attenzione è puntata sugli altri, sulla scena di gelosia della primattrice, sempre un po’ sopra le righe. E’ brava ma a volte enfatizza troppo il personaggio. Il regista vuole naturalezza e si arrabbia ma lei è l’unica a tenerle testa. Stanno insieme da un anno e lui l’adora.
Questa volta le chiedono di ripetere. Strano nessuno si era mai accorto che quella battuta fosse così importante. Lei si schiarisce la voce e replica. Lui la sta guardano come se la vedesse per la prima volta. Insiste le chiede di ripetere e poi deciso le passa altre pagine del copione.
“Bene sostituirai la ragazza di Torino. Ci ha lasciati da ieri. In televisione. Ha detto che l’hanno scelta per un serial. Robaccia”
“Robaccia che da di che vivere” aggiunge sottovoce il suo vicino di sedia. Lui questo mese non ha potuto neanche pagare l’affitto di casa e avrebbe accettato anche lui una particina in tv, “se l’avessero preso” conclude con una punta di rammarico”.
“Sostituirai”, parole pesanti che sulle assicelle del palco risuonano e rimbalzano nella testa. Ha proprio detto “sostituirai”.
Le pagine frusciano fra le mani. Prova a separarle, friniscono fra le dita. Nuove, lucide riverberano la luce sotto i riflettori. “ahi” Si è tagliata, una piccola ferita sul polpastrello. Gocce di sangue stillano sulla carta. Nasconde veloce la mano in tasca, anche se rischia di macchiare il vestito, non importa, nessuno deve vedere. Superstizioni. Sospirato successo. Realizzazione di un sogno insperato.
Legge scorrendo il nero dell’inchiostro come un filo che si dipana fra il passato e il futuro. Una parte vera, non poche battute.
“Un personaggio non facile” dice il regista. “Una scommessa. Ce la puoi fare”, lancia uno sguardo che le fa abbassare gli occhi. Annuisce e sente il rossore salire sul volto. E’ in ombra e nessuno lo noterà, meno che mai lui. Primattore, capocomico, regista.
A casa dovrà studiare, tutta la notte, ripetere la parte e impararla perfettamente. Poi verrà il difficile, interpretare il personaggio, dare la giusta intonazione. Tutto quello che le hanno insegnato in Accademia. “L’arte reclama la sua parte” avrebbe detto Paolo, il suo insegnante di tecniche applicate al corpo. Ma è il suo sguardo che deve imparare a sostenere, quello sguardo passa da parte a parte. Spoglia di tutto. Se n’è accorta quando ha detto “E’ una scommessa”.
Le prove continuano. Lei torna a sedere in platea e legge il copione. Con l’evidenziatore sottolinea le battute di Miriam, il personaggio che interpreterà.
Il regista descriverebbe così la scena con voce perentoria, lei dormirebbe al centro della stanza, vuota. Solo un letto, un vecchio letto di mogano con zampe leonine, drappi di velluto alle pareti, lenzuola bianche di seta. L’odore penetrante, di fiori carnosi e del legno antico. Lei dorme, un braccio sulla testa si allunga verso le colonne del letto. Come si può sentire l’odore in platea? Come comunicare sensualità e mollezza. Letto sfatto e languore dei capelli sul cuscino morbido.
Il regista parla, ora, insinuando scomposti giochi pomeridiani, convegni amorosi che hanno avuto luogo prima dell’apertura del sipario.
Dondola la voce nel silenzio che avvolge corpi e oggetti come una patina di polvere a rivestire il tempo trascorso
Dondola il braccio che la scuote portandola via dall’orlo dell’oscurità del sonno.
“Svegliati, è un giorno importante. Lo spettacolo va in scena col tutto esaurito. Una prima eccezionale, contenta?”
“Certo, un regalo per tutta la compagnia.”
Lei lo guarda. E’ così che lo vede quando recita. Perfetto. Lei può guardarlo a lungo, notti intere. Ma la notte, quell’ orologio, quel vestito, quel corpo corrono via dal suo letto. Oggetti che si animano e il tempo non si ferma. Lui va via, sparito, a casa di lei, la primattrice, primadonna, compagna, moglie. Non sa, tutti sanno, tutti tacciono. Non ha mai incrociato il suo sguardo, perché quello sguardo attraversa il proprio corpo. Invisibile . Non esiste, non deve esistere.
Ma qui in questo letto, in questa camera blu, fra la distesa di cuscini che sollevano piume, lei c’è e lui è accanto. Ora.
Pieno di immagini sonore, fantasie di scene, lavoro, contratti, copioni, oggetti. Quel vestito, quell’orologio, quella moto. Tutto, deve avere tutto, anche Miriam. Sorride allo sguardo di lei sospeso, come per il piacere di acquistare qualcosa che ha già. Poi si alza e abbassa la testa, quasi si sentisse smascherato. Lei parla per piacergli. Rassicura il sogno di lui “Un successo, sarà un successo, riempiranno le prime pagine dei giornali, le nostre foto…la tua foto sulle riviste. E’ così, ne è convinta, non ha bisogno di illudersi, accanto a lui è sicura di sì.
Lui le prende le mani, se le porta al viso, strofina le guance sulle palme accostate. La bacia. Ora è di nuovo se stesso. Sospira “E’ tardi”. Si vedranno in teatro dopo, lui la guarderà, con la voce guiderà i suoi gesti, non deve temere, tutto andrà bene. Nel suo sguardo resta un riflesso dello smarrimento che ha colto la faccia di lei al saluto.
I gesti non lo tratterranno lì. A lui piace molto pensare che le cose vanno vissute così. Con leggerezza. Si alza lasciando scivolare le lenzuola dal letto. Cammina nella stanza, trascinando la stoffa con sé. Le chiede di non dormire, di restare nuda ancora un po’. “Aspetta che io sia arrivato da lei, voglio pensarti in questa posa plastica”, parole da copione, una recita a cui è abituata, ciò che vive in teatro si ripete all’oscuro fra di loro. Dischiude le gambe appena. Lui può vederla se volta la testa. Lui guarda in strada, ha la fronte appoggiata al vetro. Pensa, forse non vede niente davanti a sé, il parco, gli alberi che si muovono, una barbona che è sempre lì con il suo carrello pieno di sacchetti, un ciclista che fende la nebbia del mattino.
“Un caffè. Ti preparo un caffè” vorrebbe dire al suo sguardo assente ma le parole ristagnano e non dice. Apre ancora di più le gambe. Lo vuole, ancora entro di sé, l’intensità del desiderio la sprona, incalza un sospiro. Lui si volta, sorride con metà bocca, cammina verso il letto:
“E’ tardi” , dice e posa un bacio leggero sulla fronte. “Non vestirti ancora”. Lui scopre tracce sottili della lametta da barba su i polsi di lei. Accarezza la pelle, un riflesso cupo nei suoi occhi. Non chiede, non ora. “Un giorno me lo dirai”.
La giacca sulla spalla, una mano a pettinare i capelli, è già alla porta, apre la maniglia.
“Non temere. Sarà un successo, a dopo” Sparito.
La stanza è vuota, i rumori del mattino penetrano attraverso i vetri della finestra, l’ascensore è ormai in fondo alle scale. Sparito, risucchiato dal giorno, come un fantasma.
Una cantilena vaga, un ritornello noto a cui non riesce a dare un nome ronza sommessamente nella sua testa La..la la…la.. tanti bambini in fila. Vocette tristi. Il sogno, già il sogno che stava facendo quando lui l’ha svegliata. La musica, deve ricordare la musica. E’ importante prima che il giorno se la porti via per sempre. I sogni scappano se non li trascrivi, ma la musica. Dio mio come fare a trascriverla, non conosce le note. Quei visi che affiorano, quelle ali leggere e colorate, ali di farfalle, come diceva lui. “E’ cosi che la vedrei, una giovane donna che danza simulando la leggerezza del volo. Vortice ascensionale delle braccia, avvolgenza del corpo…” Cosa vorrà dire questo sogno?
Ha tanto sonno, vorrebbe dormire, l’effetto del Minias, sì quelle gocce miracolose che prende da mesi, non è ancora passato del tutto. Dormire sì. Non pensare allo spettacolo, alla primattrice. Il pubblico, lui con la sua giacca di renna sulla soglia della porta. “To die, to dream, maybe to…. morire,dormire..,forse sognare. Ecco il difficile. E’ un pensiero su cui ci si deve fermare a riflettere e sono proprio pensieri siffatti a prolungare la durata della sventura.” Ricordava benissimo le battute del monologo di Amleto. Il saggio finale per il diploma all’Accademia. Il sogno di recitarlo su un palcoscenico vero. Ma ora deve fermare la canzone dei bambini. Certo il registratore, una cassetta, inciderà la sua voce che canta.
Fruga fra i nastri, questa dovrebbe andar bene, non c’è nessuna etichetta. Prova a farla partire. Fruscii, gracchiare di suoni, una voce distinta e chiara. La riconosce subito. Lui, il suo maestro di recitazione. Il grande. La lettura del Furioso, l’aveva registrata dalla radio, tanti anni fa, carpirle il segreto, il magico tocco che riscalda la sala. La follia di Orlando, incredulità, negazione, speranza tradita, dolore atroce, sofferenza che non trova uscita e poi il delirio. Amleto e Orlando così lontani, diversi eppure. No, non deve pensarci ora. Registrare la canzone. Sì su questo nastro. E’ un segno, una prova del destino. Fra tante cassette proprio questa. Bene la canzone resterà chiusa nello scrigno della follia di Orlando. Bene. “La, la la…” Senza parole, solo musica, il testo verrà dopo. Domani, e poi domani, e poi domani.
Scarabocchia appunti sul diario, sprazzi del sogno, qualche frase isolata, ma la musica continua a ronzarle in testa, ormai non importa, non potrà più perderla, è sul nastro che sta riavvolgendo. Poi cercherà di ricostruire la storia, ma i sogni hanno una storia? Come si può catturare un sogno, sono come le lucciole che da bambina chiudeva in un barattolo e il giorno dopo non brillano più. Si farà aiutare da qualcuno a interpretarlo, il sogno. Ora no, gli occhi si chiudono pesanti. Torna a letto e spegne la luce. Dalle persiane filtra impietosa la luce del giorno. E’ già domani. Si rialza a chiudere le imposte e di nuovo la stanza torna all’oscurità rassicurante della notte. Potrà dormire fino a tardi, solo nel tardo pomeriggio sarà necessario raggiungere il teatro, qualcuno chiamerà di certo.
Era sicura di crollare e invece pensieri molesti la perseguitano, scacciarli al più presto. Sono insidiosi, se ne stanno acquattati pronti a schizzare dal più profondo angolo del cervello. No, tornate indietro, la vostra compagnia non mi piace. Ripetere qualcosa per offuscali.
Domani, e poi domani, e poi domani…Di giorno in giorno, striscia, col suo piccolo passo, ogni domani per raggiungere la sillaba postrema del tempo in cui ci serve la memoria.
E tutti i nostri ieri hanno rischiarato ai pazzi, quel sentiero che conduce alla sorte polverosa.
Non era la sorte, non ricorda, forse la corte? Sì certo cos’altro potrebbe essere, siamo nel castello del re Macbeth, le streghe, la regina. E con l’immagine del calderone nero di brace e fumante si rilassa, distende gli arti, un sorriso accennato sulle labbra, un soffio.
Spègniti dunque, ormai, corta candela! La vita è solo un’ombra che cammina: un povero istrione, che si dimena, e va pavoneggiandosi sulla scena del mondo, un’ora sola: e poi, non s’ode più.
Il sonno la vince prima di terminare il verso.
Bambine in tutù, gridolini soffocati, esili braccia che s’inarcano, un profuso di tulle bianco, velo di nebbia attraversato dalla luce rossastra del proscenio. Lei è in mezzo, tesa e accalorata, una fiamma sotto il cerone, il trucco pesante che nasconde tutto. Dietro, la primatrice, alle prese con la sarta che sta dando un ultimo tocco al vestito, un tubino di raso rosso, paiettes dorate a sottolineare il seno procace che le forme del vestito evidenziano. E’ bellissima, una diva del passato e come una diva sa essere capricciosa e indolente. Ha appena litigato con la truccatrice che secondo lei non valorizza abbastanza i suoi occhi, nerissimi e intensi. E quegli occhi non si posano mai su lei, forse non sa neanche il suo nome. E’ Miriam, il personaggio della storia che stanno interpretando, la donna farfalla. Ecco le portano la mascherina che metterà sulla faccia, ali trasparenti e intarsiate, delicate come quelle dell’insetto a cui darà vita.
Mentre armeggia con gli elastici, arriva lui, “Ti aiuto, da sola è quasi impossibile districarsi con i fili” e mentre si accosta col viso al suo orecchio con la bocca così vicina che può sentirne il fiato caldo, lui pronuncia la frase che non si aspettava avrebbe mai pronunciato “Ti amo”. Non fa in tempo a esultare, a lasciarsi andare alla gioia , e lui si è allontanato. “Sarà un successo, vedrai, ho fiducia in tutti voi e in te” aggiunge più piano.
Ecco siamo pronti, la musica è partita sommessamente, sarte ed elettricisti si allontanano dal palcoscenico. Silenzio in sala. L’emozione si taglia fra gli attori come un budino tremulo ed elastico. La recita inizia.
La prima battuta è la sua, una pronuncia insolita, un tono che non ricordava di avere, le parole scorrono lisce, i gesti le appartengono con una naturalezza di cui riesce appena a sorprendersi, poi è dentro la storia, E’ Miriam e non si domanda più niente per tutto il tempo dello spettacolo. Dentro di sé un calore che si propaga intorno, il pubblico è incantato, è suo, potrebbe dire qualsiasi cosa ormai è ipnotizzato, catturato dentro il suo personaggio.
Applausi, scroscio di ovazioni, fruscio di vestiti e cigolio di sedie. Sono tutti in piedi, ad applaudire gli attori che s’inchinano e sorridono. Vanno via e poi tornano. Ancora applausi e per lei, i suoi sono più intensi, più forti, lo sente. Ringrazia ancora. Escono e poi tornano, prima lei, Miriam, lo sente è la rivelazione dello spettacolo, è stata consacrata attrice. “Sei grande” si sente distintamente dalla platea, mentre s’inchina di nuovo fra la nuvola di bambine in tutù che l’abbraccia.
L’attrice di una particina, poco più di una comparsa nella prima versione, si è trasformata in una grande attrice, e poi lui la ama, lo ha detto prima che iniziasse lo spettacolo e ora mentre gli spettatori vanno via e qualcuno continua ancora a battere le mani, lo vede. Accanto a lei. Ancora per qualche minuto, il tempo di spiegarsi, poi verrà da Miriam, nel suo camerino andrà ad aspettarlo. Per sempre.
Mentre pulisce il viso dal cerone e la faccia appare bianca, innaturale, quasi nuda, arrivano molti a congratularsi, E’ felice, gentile con tutti. Ringrazia e accoglie un bellissimo mazzo di fiori che le consegna il ragazzo del pony-express. “Un trionfo” dice un giovane timido che è salito fin lassù e le porge un quaderno per l’autografo. “Un trionfo” come aveva sentenziato il regista. Ancora non le riesce di pensare a lui chiamandolo per nome, non le viene spontaneo, deve fare uno sforzo, chissà lui se dentro di sé la chiama Miriam. Dov’è adesso? Perché tarda. La primattrice sarà furente, non può tollerare il confronto, il pubblico era troppo caloroso per non essersi accorta del trionfo che le hanno tributato. Uno sguardo d’odio attraversa il corridoio è lei, non è sola, sono insieme. Lui non potrà spiegarle ora, dovrà aspettare, non può schiacciare due volte la sua personalità. In fondo è una grande attrice anche se stasera non era proprio al massimo. “Ed io sarò sempre al massimo” si domanda “forse questo di stasera è un caso, domani e poi domani sarà lo stesso?” E quando ci sarà un’altra prova? Ma no questa sera non bisogna temere, né domandarsi niente, solo esultare, gioire per il successo e perché lui le ha detto che l’ama.
Sistema i fiori nel vaso, potrà lasciarli lì, per domani, per vederseli davanti ancora prima della replica. La stanza ora è vuota, sono andati via tutti. Si riveste con gli abiti che indossava quando è entrata. Che strano non riconoscersi nei panni di sempre. Questi vestitucci così anonimi, domani acquisterà un tailleur di Armani, l’ha sempre desiderato e poi scarpe, foulard, anche un paio di guanti di pelle nera col risvolto giallo, li ha visti in quel negozio di fronte al teatro. Pensava che non avrebbe avuto mai occasione di indossarli, così eccentrici, bellissimi, ora non mancheranno opportunità, una nuova vita l’attende. Mentre infila il secondo stivale, compare lui dietro la porta, solo.
“Entro un attimo, volevo congratularmi personalmente con te”
“Ti aspettavo, sono pronta, andiamo a festeggiare?”
“Che bei fiori, chi te li ha regalati, un ammiratore che si è innamorato di te stasera”
“Non so pensavo fossero…” e lascia in sospese perché lui incalza:
“Anch’io, fossi stato fra il pubblico mi sarei innamorato di te, una recitazione superba, incomparabile, domani i giornali parleranno di noi”
“L’avevi previsto, eri sicuro ti ricordi?”
“Sì ma non ero in realtà così sicuro, però bisogna fingere di credere che le cose andranno come vogliano noi perché vadano veramente così. Non trovi?”
“Hai ragione, ma io di solito non ci riesco, però stasera…”
“Ora devo andare, lei non vuole cenare con la compagnia, bisogna capirla, stasera è stato il tuo trionfo, ma domani vedrai tutto si calmerà.”
“E noi non festeggiamo insieme? Noi non..”
“Devi avere un po’ di pazienza, stasera non posso lasciarla sola, ma domani notte sarò da te, come sempre.”
“Come sempre, cosa vuoi dire, che non è cambiato nulla?”
“Certo, tu sei una grande attrice, il resto non conta, anzi sono io che ti ho aiutato a diventarlo, il tuo successo è mio e tu mi appartieni, sei stata brava grazie a me, non dimenticarlo. Vado”
La sua bocca si avvicina a quella di lei, sente il fiato caldo avvolgerla, ricorda.”
Lei vorrebbe che lui le ricordasse ciò che ha detto poco fa, sì prima dello spettacolo, prima del trionfo. Quel trionfo sembra non appartenerle più adesso, e con una voce che non si riconosce dice:
“Ma allora non era vero niente, perché hai detto che mi amavi?
“Certo che ti amo, come amo anche lei, come amo il pubblico, questo spettacolo in cui abbiamo recitato”
“E recitavi anche quando eravamo fuori dallo spettacolo, a casa mia, mentre mi legavi la maschera?
“Proprio così ti legavo a me per farti essere più brava, cosa te ne importa, hai ottenuto quello che desideravi, il successo e io sono stato uno strumento”
“Uno strumento, io sono stata uno strumento per il tuo spettacolo!”
“No domandarti queste cose, per noi attori deve contare solo il pubblico, recitiamo sempre, impariamo così bene quest’arte che non riusciamo più a farne a meno”
Silenzio
“Ti saluto, non vuoi darmi nemmeno un bacio? Pazienza sarà per domani”
Eco di passi che si allontanano. Precipizio di silenzi.
Lei resta a lungo con lo stivale calato. La cerniera chiusa a metà, la mano sulla cerniera, incapace di compiere anche il minimo gesto per ritrovarsi. Cerca di afferrare la cosa accaduta quando lui ha varcato la soglia. Uno spavento di cui non ha ancora conoscenza. Ora ricorda una voce di donna che assomigliava alla sua e una risposta complicata, dolorosa che l’aveva strappata dalla propria carne. Si aggrappa alle frasi, singole parole che schizzano da tutte le parti, esplodono e non si lasciano afferrare. Non riesce a trattenere nulla dentro di sé, il dolore come la giaia del successo sembrano scivolarle addosso. Nella sua testa una puzzle che qualcuno aveva composto con fatica in un attimo è stato smontato e i pezzi non combaciano più. Isolati frammenti che non significano più niente. La favola raccontata da un’idiota, tutta piena di strepito e furore, che non vuoldirniente.
Una musica piano piano risuona dentro di lei e poi l’avvolge. L’unica cosa che riesce a ricordare La la la …la la … Il ritornello del sogno, quello che aveva registrato per non dimenticarlo. E’ la sua voca che canticchia. Non le parole, quelle non le conosce. Solo la, la la… Rivede i visi dei bambini, la chiamano verso di loro. Si alza, lo stivale ancora abbassato, la maschera appoggiata fra i capelli. Cammina lentamente, esce dal camerino, percorre il palcoscenico ormai deserto. Incede nell’orlo della luce gialla. Nel corso dello spettacolo, direbbe il regista, a un certo punto la luce calerebbe, gli attori abbandonato il centro della ribalta si sposterebbero in fila sul fondo. Un immobilità assoluta avvolgerebbe i personaggi, solo si udrebbe la voce del coro di bambini, si riconoscerebbe perché già udita prima, all’inizio dello spettacolo e ancora prima. Una musica lontana che non disturba il silenzio.
Una sera, continuerebbe il regista, lei salirebbe dall’orlo della ribalta, continuando a incedere sospesa fino alle scale dietro le quinte, e poi su per le scale, sempre lentamente un piede dopo l’altro, la punta dello stivale e il tacco, con passo sicuro. Ogni tanto guarderebbe sotto gli spettatori sempre più piccoli, gli oggetti lontani. Gli spettatori alzerebbero lo sguardo spaventato, dolente. Lassù. I personaggi sdraiati di fronte alla scala. Annientati dal silenzio.
Lei è affacciata alla balaustra in alto, in bilico sulle assi dove lavorano i tecnici delle luci, oramai non c’è più nessuno. E’ sola, superba e immobile, lo sguardo davanti a sé. Bellissima nessuno la vedrà mai in tutta questa bellezza, con la mano aperta china la maschera sugli occhi, allarga le braccia. Un respiro.
“E’ cosi che la vedrei, una giovane donna che danza simulando la leggerezza del volo. Vortice ascensionale delle braccia, avvolgenza del corpo…”