Premio Racconti nella Rete 2011 “L’arte di lasciarsi” di Sweetie
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Sono le 11.20 di un giovedì di dicembre e io – Linda Nolti, redattrice precaria nella sede romana del settimanale femminile Vanità – da oltre 40 minuti sono chiusa nel bagno della redazione con il cellulare in mano, intenta a cancellare tutti gli sms che mi hai mandato. Sono al 240esimo, me ne mancano appena un’ottantina. Poi devo passare a quelli che Ti ho mandato io e alle bozze, ovvero quelli che non Ti ho mai inviato ritenendoli troppo patetici (i più struggenti). Mi ci vorrà un’altra mezzora minimo.
Quasi cado quando, dopo una misera ventina di minuti, cerco di alzarmi dalla tazza, visto che ho praticamente perso l’uso della gamba sinistra, intorpidita dalla prolungata immobilità.
Barcollo come una posseduta nel tragitto dalle toilette alla mia postazione, rientrando in stanza senza dire una parola. Forse però mi sbatto alle spalle un po’ troppo violentemente la porta, perché mi accorgo che gli altri fanno improvvisamente silenzio.
“Ma eri in bagno? Pensavamo fossi uscita. Tutto bene?” mi chiede Raffaella dopo una pausa, guardandosi intorno.
Sì tutto bene Raffa, come se mi avessero strappato i capelli uno a uno, nell’ultima ora e mezza. “Bene bene, qualche problemino ma niente di che”, mi sento rispondere invece mentre faccio il sorriso forzato delle occasioni formali. Distolgo gli occhi dalla sua espressione perplessa e torno a fissare lo schermo senza dire più niente.
Dunque: qual è il momento peggiore per essere lasciate dal vostro ragazzo? Ve lo dico io. Tre giorni prima di un matrimonio. Non il vostro, ovviamente. Anche se ripensandoci sarebbe proprio quello, IL momento peggiore. In ogni caso, in questo istante, un “momento peggiore” di oggi non so immaginarlo. Oggi. Tre giorni prima del matrimonio di Raffa. Ovviamente al ricevimento è previsto che saremmo stati felicemente io e Te, al tavolo con due mie colleghe e i rispettivi (per un perfetto tavolo da sei che ora è invece orribilmente spaiato). Quindi, è o non è ampiamente giustificabile che la prima cosa che mi è venuta da pensare prima in bagno – quando Tu, al telefono, mi hai detto che hai bisogno di riflettere sulla nostra storia perché ieri alla festa Giulio ti ha presentato una ragazza francese che ti ha ‘confuso le idee’ – la prima cosa, dicevo, che mi è venuta da pensare quando ho attaccato sgarbatamente il telefono senza dire una parola è proprio questa: che palle, e ora con chi vado al matrimonio? E invece mi sento anche in colpa perché da quando mi hai fatto quella dannata telefonata riesco a pensare solo all’umiliazione che dovrò subire sabato, a quel maledetto tavolo da sei. Sono proprio un’idiota (a sentirmi in colpa, dico).
“Scusate, qualcuna di voi ha letto Gli androidi sognano pecore elettriche?.“
Immaginate la vostra reazione quando vi svegliate in un letto che non è il vostro e avete bisogno di una decina di secondi per ricordare dove siete. Io reagisco esattamente così quando sento Cesare che parla dalla sua scrivania in fondo alla stanza.
“Se vuoi io ti posso parlare di Ho sgozzato matite infette“, dice fintamente seria Stefania, il nostro caporedattore Lifestyle, continuando a limarsi un’unghia. Guardo il display del telefono, che giace muto vicino al mouse: tredici meno dieci. Sono passate quasi due ore dal FATTO e io ancora non ci credo.
“Stefania, Gli androidi sognano pecore elettriche ti s-p-e-c-i-f-i-c-o, è uno dei capolavori di Philip Kindred Dick, e visto che c’è un mio amico che mi ha fatto una battuta in cui lo citava volevo sapere se qualcuna di voi l’avesse letto”, continua Cesare.
Non ci posso credere: ha detto Kindred. Qui. Nella redazione di Vanità. Lo adoro. Cesare, sui trentacinque, ha l’ingrato compito di risollevare le sorti nel nostro Femminile con un’agguerrita campagna di promozione commerciale. Lui ed io ci siamo rivelati a vicenda la nostra comune fede nel potere della poesia e della narrativa quel giorno in cui lui, dopo aver notato sulla mia scrivania Vita e destino di Grossman, mi aveva invitato a una pausa bar insieme.
“Va bene, lo ammetto: ho sbagliato io a chiederlo ad alta voce. E’ che speravo che almeno Linda lo conoscesse”. Mi sento il suo sguardo addosso.
“No, mi spiace”, dico alzando mestamente la testa per guardarlo, mentre intercetto lo sguardo di Raffa che con gli occhi mi chiede: che succede? Faccio spallucce scuotendo impercettibilmente la testa, come a dirle: no, cose da niente, tranquilla. Mi guarda di sbieco e poi arriccia le labbra, facendo roteare l’indice, come a dire comunque dopo mi spieghi. Colgo l’occhiata di Cesare, che ha seguito la conversazione silenziosa.
“Ti pareva comunque che Linda non aveva letto qualche libro assurdo del genere”, conclude Alessia, il nostro vicedirettore, dribblando un congiuntivo; un secondo dopo la sento chiedere a Stefania cosa ne pensa di preparare un articolo sul carattere degli animali domestici delle Vip. Ed è in quel momento, credo, che ho smesso di ascoltare.
“Noi andiamo in pausa pranzo, vieni?” Quasi caccio un urlo quando sento la voce di Raffa, tanto ero assorta nelle mie tristi riflessioni. L’una passata e io non ho scritto unarigauna. “No grazie, ho delle cose da sbrigare”, improvviso guardandola negli occhi, mentre lei si avvicina alla mia scrivania già con la borsa a tracolla. Colgo il suo sguardo stranito: davanti a me ho solo la home page di Google, e la stringa di ricerca è vuota. In realtà è verissimo che ho molto da fare: devo cancellare tutte le mail che ci siamo scambiati e soprattutto devo cancellare Te e tutti i tuoi amici che sono diventati miei amici su Facebook. Cesare mi scruta con un’espressione indecifrabile.
“Non vieni neanche te Cè?”, gli chiede Alessia. A quel punto luii gira verso di lei come riscuotendosi da un pensiero, poi la guarda facendo no con la testa, si alza e inizia a raccogliere delle schede dalla scrivania. “No grazie, ho un appuntamento fra dieci minuti e devo ancora preparare la presentazione”. Sbuffando sotto il peso di una enorme cartellina satura di fogli, si gira a guardarmi un’ultima volta, prima di avviarsi in sala riunioni.
Guardo l’orologio. Mi ci sono voluti solo venti minuti per finire il repulisti Facebook. Venti minuti per cancellare quasi tre anni di ricordi. D’altronde in genere si hanno a disposizione solo tre giorni per farti abituare alla morte di una persona, il tempo necessario per seppellirla. Un lembo di giorni, una striscia di terra per quello che l’intero vasto mondo sembrava troppo piccolo per contenere, direbbe Christina Rossetti. Morte, funerale, sepoltura.
Dunque a questo punto rimane un solo quesito da porre a me stessa: perché devo rimanere in questo posto mentre la mia vita sta crollando, invece di continuare a stare qui facendo pensieri di morte?
E’ che se torno a casa e mi ficco sotto il piumone ADESSO poi non riuscirò più ad alzarmi per i prossimi tre giorni. Invece se resisto ora – nel momento peggiore – ce la farò anche dopo, credo. Mi giro alla mia destra: Cesare è ancora in sala riunioni col tizio del suo appuntamento, e dal vetro mi rivolge un silenzioso cenno di saluto. Gli rispondo con un sorriso forzato. Magari in questo momento citare proprio a Cesare il verso di Christina Rossetti che mi è venuto in mente poco fa mi avrebbe fatto sentire meglio.
Basta. Devo muovermi, fare qualcosa. Mi alzo e mi avvicino alla finestra per guardare di sotto. Tutta quella gente che cammina su piazza del Parlamento. Gli impiegati con i cappotti e la cravatta che entrano nel bar di fronte. Le signore bene che arrivano da piazza san Lorenzo in Lucina con le borse shopping del Nespresso e di Bottega Veneta. E in mezzo ai loro piedi, decine di piccioni che razzolano indifferenti l’uno all’altro come mondi paralleli a malapena attenti a schivarsi, mentre marciano su tipi di itinerari completamente diversi. Appoggio la fronte al vetro. In fondo quei piccioni si comportano proprio come faremo da oggi in poi io e Te.
E poi, all’improvviso, accade.
Non ci credo. Neve. Neve. Pioggia senza peso. Senza traiettoria prefissata, libera dalla forza di gravità. Neve. Da quant’è che non vedevo la neve? Neve. Ovvero il momento in cui ogni goccia può scegliere dove andare per conto suo, e giocare lieve col vento. Appoggio la testa sul vetro e ripenso a una bimba che si sentiva al sicuro nel ripostiglio delle scope mentre i compagni di classe giocavano in refettorio. Penso anche che mi è sempre dispiaciuto per la pallina che vola speranzosa verso il battitore, senza sapere che il suo unico scopo è colpirla il più forte possibile per lanciarla lontano. Penso: Ecco chi vorrei essere, una che sa di buono. Un po’ come quel pane arabo appena uscito dal forno sotto casa mia, polveroso di farina bianca. E spargermi per il mondo come questa neve sottile, che fra poco, pochissimo, smetterà.
Love is not a victory march
It’s a cold and it’s a broken
Hallelujah
Scoppio a piangere, mordendomi il pugno, e con l’altra mano stringo forte forte fortissimo la maniglia della finestra, con gli occhi chiusi. Mi passa, ora mi passa.