Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “15 gocce di Prazene” di Sandro Ardizzon

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Quindici gocce di Prazene. 15 gocce di Prazene in un dito d’acqua. Quindici gocce per farti dormire. Metto l’acqua in un bicchiere. È troppa, mi dici seccata, lo sai. Ne tolgo un po’, ma un dito è un dito. Ne bevo metà. Apro il flacone nuovo e lo rigiro sopra il bicchiere. Aspetto. Quindici gocce, mi dici, non sbagliare. 15 gocce, le conto io amore, ti dico, non preoccuparti. Ma tu guardi. Vuoi contare anche tu. Aspetto. Ma poi do un colpetto al fondo della boccetta e la prima goccia appare. Azzurra. Si gonfia e cade. Una. Sembra perdersi nell’acqua, indecisa se scomporsi o resistere. Si adagia sul fondo. Sento i tuoi occhi sul flacone. Su di me. Due. Lo so che non ti fidi, ma è anche un gioco, non ti metterei mai meno gocce, lo sai, anche se odio le medicine, non ne prendo mai e vorrei che non le prendessi neanche tu. Tre. Mi stai accanto leggera, lo sguardo fisso alle gocce che cadono. Sento il profumo dei tuoi capelli spandersi nell’aria e avvolgermi. Lo adoro. Non so cosa darei per accarezzare ancora la tua pelle, non smetterei mai di farlo, lo sai. Quattro. Non sei mai stata bella come stasera. Ti vedevo nello specchio del bagno, mentre ti preparavi, e c’era qualcosa di perfetto e definitivo nei tuoi gesti. Sono sempre affascinato dalle innumerevoli piccole azioni che devi fare prima di andare a letto – cinque – senza sbagliare la sequenza. Sarebbe difficile per chi deve soltanto lavarsi i denti o poco più. Ma tu non ti sei sbagliata, neanche stasera, neppure sapendo. Hai tolto le lenti a contatto e le hai riposte nel contenitore. Hai imbevuto i tamponi di cotone con lo struccatore e ti sei tolta il trucco. Ti sei messa la crema sul viso, i gesti decisi di sempre, ma con un leggero ritardo, come fossi in attesa. Mi guardavi attraverso lo specchio, senza parlare. Mi guardavi e basta, un’occhiata ogni tanto, mentre facevi le tue cose. Vedevo la tua schiena nuda, le ossa della colonna vertebrale sporgenti. Adoro osservarti mentre ti prepari. Avrei voluto accarezzarti come facevo sempre – sei – come quando andava bene. Piantala, mi hai detto, smettila di guardarmi, mi innervosisci. Me ne sono andato, perché non posso restarti vicino senza guardarti. Sono andato via e ho smesso di guardarti. Dal bagno mi hai chiesto di prepararti le gocce. «Ti ricordi?» mi hai detto. Mi ricordo amore, quindici gocce di Prazene per farti dormire, perché domattina ti svegli presto e devi addormentarti subito. Sette. Poi mi hai detto prepara solo l’acqua, arrivo. Sei arrivata con i tuoi occhiali. Mi sei sempre piaciuta con gli occhiali, il tuo sguardo assume un’aria diversa, tra il sensuale e lo smarrito, ma stasera mi sembravi più smarrita, come indecisa. Sei arrivata e ti sei messa a contare con me. Era un gioco, quando le cose andavano bene, sorridevi. Ma adesso lo so che non ti fidi. Otto. È il giorno del nostro anniversario, l’otto ci siamo sposati per finta, ti ricordi? E ogni mese, il giorno otto ti mandavo un bigliettino dove disegnavo un fiore, uno per ogni mese insieme. Erano margherite, i fiori più semplici da fare. Dopo qualche mese ho smesso, non perché me ne dimenticassi, ma sembravi diversa, quasi indifferente, forse infastidita. Nove. Avrei voluto parlarti stasera, parlarne ancora. È inutile, mi hai detto, non ho più voglia di parlare con te, non serve. Io però con te ci vorrei proprio parlare, perché ancora non ho capito. Tu non puoi capire, non sei proprio in grado, mi hai detto, te l’ho ripetuto per mesi che le cose non andavano, che non stavano funzionando, che stavamo tenendo i cocci con lo spago. Solo tu non sei in grado di vedere quanto ci stiamo allontanando, mi hai detto. No, non riesco proprio a vederlo, amore. Sì, c’è stata qualche discussione, ma cose normali, cose che succedono sempre in una coppia, come quando te la sei presa per quella botta che ho dato alla tua macchina, oppure quando al ristorante ho versato il vino sulla tua borsa nuova di LV. Ma non può essere questo, la macchina te l’ho fatta riparare subito e la borsa si è pulita semplicemente asciugandosi. Materiali meravigliosi, certo che vale proprio quanto l’ho pagata, hai detto. Non so cosa sarebbe successo se non fosse venuta pulita. Siamo troppo diversi, mi hai detto. Sei inaffidabile, sei proprio l’opposto di me, io sono un tipo concreto, deciso, mi hai detto, tu sei sempre lassù, nel tuo mondo di nuvole, di luna e di stelle. Dieci. È l’orario del tuo treno. Le dieci in punto. Te ne vai lontano, il lavoro, un’opportunità unica, mi hai detto, ho già rinunciato una volta e non intendo perdere anche questo altro treno. C’è sempre un treno quando ci si allontana, come se il distacco fosse sancito, inequivocabile, irreversibile. Non è la stessa cosa stare nella medesima città oppure a diverse ore di viaggio. C’è un treno di mezzo. C’è un abisso, un punto di non ritorno, non ci s’incontra semplicemente più. Non voglio che mi accompagni, mi hai detto, oltretutto mi devo alzare presto e non ha senso che lo faccia anche tu, resta pure a dormire, prenderò un taxi. Partire in treno lascia un senso di definitività, ma arrivare alla stazione in taxi, da soli, scava un solco ancora più profondo. Lo sguardo vaga tra l’orologio, le immagini in movimento e i ricordi che affollano la mente. Se piove, poi, è ancora peggio. Domani pioverà. Undici. A undici gocce comincio a sentire un po’ di tensione, mi concentro meglio per non sbagliare, non posso sbagliare, ti dimostrerò che sono cambiato, che non sono inaffidabile come dici. Ma fuori dalla finestra intravedo il chiarore della luna e la tentazione di voltarmi a guardarla, anche solo per un attimo, è forte. Forse però posso farlo, tra una goccia e l’altra. Ti sei accorta della mia piccola esitazione, l’ho capito da come hai irrigidito il viso per un attimo, ma non ho perso il conto amore, sono undici, undici gocce. Cominci a sollevare l’indice, come per dire basta, anche se so che non lo farai perché aspetti il mio errore, aspetti di vedermi sbagliare, ancora una volta, per poi farmelo notare. Perché hai fatto sempre contare a me le tue gocce? Mi distraggo, dicevi, perdo il conto, penso ad altre cose. Devono essere quindici, il medico mi ha detto di essere precisa, dicevi, quindici gocce per dormire. Dodici. Ne mancano tre. È più facile, adesso, fare il conto alla rovescia, meno tre, meno due, e così via. Basta non sbagliarsi, basta essere consapevoli che occorre affrontare il problema dalla parte opposta, come se fossi un’altra persona, come se lo vedessi da fuori. Non mi piaccio se mi guardo da fuori, sono appesantito dagli anni e da questo senso di sconfitta che mi sta assalendo. Come se mi mancasse il respiro e cercassi di incamerare quanta più aria possibile, come se cercassi un senso che non trovo. Mi volto appena e con la coda dell’occhio vedo la pelle liscia e chiara del tuo braccio e la valigia nel corridoio. Come hai fatto a farci stare tutto, amore, i tuoi vestiti, i libri, i ricordi di anni, il cappello che ti ho regalato a Natale e le scarpe, soprattutto le scarpe, non può stare tutto lì dentro, forse non hai ancora finito, forse ti sei sbagliata. Meno due. Sono tredici, ma fanno meno due, è più facile. L’anno scorso di questi tempi ti ho detto che volevo un bambino, che mi sentivo pronto, che nulla mi avrebbe reso più felice. Non è il momento, mi hai detto, lo sai com’è il mio lavoro. Avevi un’espressione indurita, quasi arrabbiata, mentre lo dicevi. Infastidita. Ma forse non era il lavoro e io non l’ho capito. Aspettavo. Ti ho aspettato e continuavo a immaginarti con un bambino nostro nella pancia e ti vedevo così, tonda come un pesce palla e bella come un angelo. E felice, come me. Più volte mi è sembrato che la tua espressione cambiasse a questo pensiero, che diventasse più dolce, come prima almeno, ma era soltanto un’impressione.

Socchiudo appena gli occhi mentre penso a questo e quando li riapro sono certo di essermi perso la caduta della quattordicesima goccia. L’acqua nel bicchiere si sta ricomponendo, come se fosse stata increspata, come se davvero fosse appena caduta. Cerco conferma nei tuoi occhi, ma trovo il ghiaccio. Mi volto verso il bicchiere e mi concentro. Dev’essere caduta. Sì, assolutamente. Meno uno. Sono quattordici. Soltanto un’altra. Aspetto. Aspetto e mi sembra che stia passando un tempo lunghissimo, ma non voglio distrarmi proprio adesso che siamo alla fine. Ancora una e sarà finita, lo vedrai che posso contare le gocce senza sbagliare, anche in questa situazione, anche se è l’ultima volta. Dalla finestra entra la luce della luna, vedo il chiarore pallido riflesso nello specchio di fronte e mi ricordo di quella volta, eravamo in montagna, siamo usciti dal ristorante e la luna era lì, piena, enorme e lucente davanti a noi. Faceva freddo anche se era agosto, ma io avrei voluto abbracciarti forte, scaldarti e stare stretto a te a guardare quella meraviglia, guardarla almeno per un po’, insieme a te. Invece mi hai chiesto di rientrare subito in macchina perché sentivi freddo. Siamo arrivati a casa e la luna si vedeva anche dal letto, attraverso la finestra. Sotto le coperte non faceva freddo, ma ti sei girata e ti sei messa subito a dormire. Eri stanca, forse è stato il vino, mi è sembrato normale. Poi la vacanza è finita, abbiamo ripreso i ritmi della città. Ho ricominciato ad aspettarti a questo tavolo, con la cena pronta e fredda. Certo, qualcosa è cambiato, me ne sono accorto anch’io, non riesco più ad abbracciarti, sei sempre di corsa, sfuggente.

Non so cosa darei per sentirti arrivare alle mie spalle, sentire che mi stringi il collo con le tue braccia morbide, come facevi una volta. Non so cosa darei per una tua carezza. Forse per questo, da qualche tempo, la notte mi sveglio e guardo i tuoi occhi chiusi, il viso disteso. Sembri sempre sorridente. Mi avvicino e respiro il tuo respiro caldo e profumato, a volte sfioro con un bacio le tue labbra, piano, per non svegliarti, oppure accarezzo appena la tua pelle, provando sempre la stessa dolce emozione, gli stessi brividi. Poi, intreccio le dita della mia mano alle tue e mi riaddormento. Al mattino sei sempre lontana e girata di spalle. La vedo, si sta gonfiando l’ultima goccia azzurra, scende lenta attraverso il contagocce, si espande, acquista peso, si stacca. E cade. Zero. Sono quindici, ho contato bene. Quindici gocce di Prazene, quindici gocce per farti dormire. Muovo il bicchiere in cerchio per mescolare il liquido, disperdendo l’azzurro. Diventa appena opalescente, quasi velato. Nell’aria si spande un vago profumo di anice. Sento i tuoi occhi fissi su di me mentre continuo a roteare il bicchiere, prendendo tempo. Poi avverto un lieve e nervoso movimento del tuo indice e capisco che il tempo è proprio finito. Ti porgo il bicchiere. Sono quattordici, mi dici, non sei neanche capace a contare le gocce, aggiungine una. Lo vedi, sei inaffidabile, chissà quante altre volte hai sbagliato, mi hai detto, chissà quante altre volte mi hai messo meno gocce. No amore, ho sempre contato giusto, sono sicuro. Anche stavolta ero sicuro di non aver sbagliato, mi sono distratto soltanto un attimo, pensando al nostro bambino, ti ricordi? Mi fissi senza parlare, senza neanche provare a raggiungere quel pensiero. Aggiungo una goccia, confuso, e penso che non dovevo sbagliare, non questa volta, non dovevo distrarmi e invece l’ho fatto. Ma poi penso se davvero fa tutta questa differenza una goccia in più o in meno. Mi prendi il bicchiere dalla mano, senza darmi il tempo di mescolarlo ancora, quel liquido azzurro pallido con una goccia blu al centro. Bevi, continuando a fissarmi, dura, come a studiare le mie mosse. I tuoi capelli si muovono appena e subito si ricompongono. Poi ti alzi.

Buonanotte, mi dici dandomi le spalle.

Ti vedo scomparire dietro la porta.

Il bip dell’orologio mentre imposti la sveglia.

Il rumore dell’interruttore.

La luce che si spegne.

Il fruscio delle lenzuola.

Il silenzio che scende.

Il silenzio che mi congela l’anima.

Buonanotte amore, un sussurro che non ti arriva.

Mi assale la sensazione di essere all’improvviso in un luogo estraneo, lontano. Sono così stanco. Gli occhi mi si velano, guardo la luna che sembra perdersi in mille forme liquide, in continuo movimento. Guardo la luna e penso che non mi posso concedere di stare sveglio, stanotte, per vedere il tuo viso disteso e sorridente. Non posso sentire il tuo respiro caldo inondarmi l’anima, non posso cedere alla tentazione di sfiorare la tua pelle. Sul tavolo, la bottiglia dell’acqua, il bicchiere e il flacone quasi pieno. Verso un po’ d’acqua nel bicchiere. È troppa, mi dico, ma la lascio e comincio a contare senza concentrarmi troppo, perché una in più non fa differenza. Quindici gocce di Prazene. 15 gocce di Prazene in un dito d’acqua. Quindici maledette gocce per farmi dormire.

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8 commenti »

  1. una storia facile e tremenda come una cascata o come i sogni estivi

  2. che bello questo racconto! il tempo breve delle gocce che scendono diventa il tempo di una storia complessa e amara, dal ritmo perfetto.

  3. Ringrazio Luisa e Anna per aver avuto la pazienza di leggere e la cortesia di scrivere il loro pensiero su questo mio racconto.
    Mi piace questa sensazione del tempo che si ferma e si dilata, permettendo al flusso dei ricordi di scorrere liberamente e di intersecarsi con le immagini della luna e delle gocce che cadono.

  4. Una storia semplice, diluita in un dito d’acqua, amara come le gocce, e dolce come le emozioni dei ricordi. Complimenti.

  5. Un’opportunità di lavoro unica: così lei sta per partire e preferisce non essere accompagnata alla stazione.
    Ma quell’arrivo in taxi scava un solco ancora più profondo e ha proprio il sapore di un addio.
    La notte prima della partenza viene scandita nel racconto al ritmo di quindici gocce di ansiolitico che cadono nel bicchiere.
    Ma il rumore di ogni goccia è quello di un’esplosione, perchè tale è l’intensità emotiva con cui il protagonista descrive la sensazione di smarrimento di fronte a un imminente addio, con quella valigia depositata nel corridoio, a sfidare la sua incredulità, perchè proprio non può starci tutto lì dentro…
    Emblematica la diversa interpretazione dell’errore sulla quindicesima goccia.
    Per lei, che se ne va, quell’errore è un ulteriore segno di inaffidabilità, la classica “goccia che fa traboccare il vaso”.
    Mentre lui, che la vorrebbe ancora vicino, non si perdona per avere sbagliato a contarle.
    Poi, quando si versa le gocce per sé, lui lo fa senza nemmeno concentrarsi troppo.
    Perché sa che una goccia in più non fa alcuna differenza: sono soltanto quindici maledette gocce per dormire.

    Nikki Simonetti
    Gioacchino De Padova

  6. Grazie Valeria, Nikki e Gioacchino.
    Quando le emozioni e i pensieri si agitano dentro in modo confuso, emergendo dagli strati sovrapposti e coriacei dei ricordi, è bello poterli tradurre in parole e vederli finalmente scritti e ordinati. A volte sembra che solo così trovino la loro giusta collocazione. Ma è ancora più bello e importante, per me, riuscire a trasmettere quelle stesse emozioni a chi legge.
    Grazie ancora.

  7. Leggendo il tuo racconto mi sono scorse davanti agli occhi le immagini di un corto in animazione: il dettaglio delle gocce che si espandono nel bicchiere, il primo piano del protagonista, i suoi occhi nelle cui pupille si rispecchiano le scene dei ricordi, in un mutare continuo di prospettiva. Il tutto realizzato a matita, con delle campiture pastello in continuo movimento.

    Un gran bel racconto, visivo ed emozionale. Oserei dire che si sente, la vita che c’è dentro.

  8. Grazie Virgoletta!
    Dopo aver letto il tuo commento, sarebbe interessante vedere questo racconto trasformato in immagini, suoni e parole…

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