Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Io e mia madre” di Maria Cristina Sermanni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Mi accompagnava a scuola tutte le mattine e tutte le mattine mi salutava con un cenno del capo e una raccomandazione “comportati bene, non voglio lamentele dalla maestra”, sempre la stessa con la stessa intonazione della voce. Io abbassavo la testa e entravo a scuola, guardando di sottecchi le mie compagne che venivano baciate e abbracciate dalle loro mamme; qualcuna faceva persino delle storie a entrare e veniva riportata a casa, senza brontolii, con un sorriso sulle labbra.

Quante volte il mio piccolo cuore ha pianto silenziosamente! Avrei voluto, una volta sola, che mia madre mi avesse consolata per un voto meno bello, abbracciata quando cadevo di bicicletta e mi sbucciavo un ginocchio. E invece niente. Lei era ferma, imperturbabile nella sua fierezza, nei suoi lavori, nel suo ruolo di genitrice. Forse questa sua rudezza nasceva dall’esser sola a crescermi, dal sentire su di sé tutta la responsabilità e il peso.

Mio padre era morto quando ero ancora molto piccola, di una brutta malattia che lo aveva tenuto a letto per mesi, e che aveva impegnato la mamma in cure continue e costose costringendola a cercarsi un lavoro per sopperire alle spese.  Era andata a fare pulizie nelle case dei “signori”, lei sempre così attenta e precisa, che curava le sue mani meticolosamente e, nonostante i lavori di casa, le aveva morbide come la seta, aveva dovuto fare i lavori più umili e servili e non aveva più avuto il tempo di curare le sue belle mani.

In un mattino di primavera il babbo se ne era andato per sempre e le aveva lasciato nel cuore un profondo vuoto; si amavano molto, nonostante le loro famiglie non andassero d’accordo, si erano sposati ugualmente, per amore, e solo la morte li avrebbe potuti dividere. Ed era successo.

Ricordo la mamma nel suo abito nero, triste, col  volto spento dal dolore e dalla fatica, dalla tensione vissuta in quei lunghi mesi d’attesa. Non mi disse niente neanche allora; non una parola sulla morte del babbo, non un abbraccio a consolazione del fatto che non lo avrei rivisto più.

I primi giorni le chiedevo spesso dove era andato; in quei lunghi mesi di malattia, fino al momento in cui non ce l’aveva fatta più, era stato il  mio compagno di giochi. Io salivo sul suo letto e lì giocavamo alle signore, comprando e vendendo biancheria, maglie e quant’altro trovavo nei cassetti di mia madre. Mi aveva insegnato un gioco di carte facile per la mia età e mi lasciava vincere, felice nel vedermi allegra e spensierata. Profondo fu il dolore nel tornare a casa quella mattina e non trovarlo più; avevo capito da giorni che non stava bene, non potevo più giocare con lui e neppure mi facevano entrare nella camera da letto, ma non mi aspettavo di vedere quella porta chiusa. Eppure, nonostante le mie richieste, le mie implorazioni di spiegazioni, mia madre tacque.

Piangeva e non parlava; capii da sola quello che era successo. Non mi ero mai trovata dinanzi alla morte e per un bambino è qualcosa di astratto, lontano, irraggiungibile; ma il mio piccolo cuore “sapeva”, sentiva che quel dolce padre non lo avrei rivisto più.  

Da allora anch’io imparai a tacere, avevo capito che avrei dovuto affrontare la vita da sola e mi impegnai per farlo nel miglior modo possibile. A scuola ero una brava allieva, diligente, corretta, riscuotevo l’approvazione degli insegnanti e il rispetto dei miei compagni. Mi chiamavano “la solitaria” perché passavo il mio tempo libero da sola, leggendo libri seduta sulla panchina dei giardini pubblici a primavera e nei giorni buoni dell’inverno, oppure camminando di passo svelto lungo il corso del fiume, parlando alle oche e alle anatre che avevano imparato ad avvicinarmisi senza paura.

Finito il liceo, decisi di andare all’università. Laconicamente comunicai a mia madre che me ne sarei andata in città; avevo già trovato un piccolo lavoro per sostenermi nelle spese e una stanzetta insieme ad altri studenti che, come me, lasciavano i loro paesi per l’avventura della città.

Anche allora mia madre tacque.

Il suo silenzio fu una pugnalata per me; avevo sperato che mi trattenesse, che mi dicesse che mi voleva bene e desiderava che rimanessi con lei. Non me ne sarei andata; non mi importava niente dell’università e della città. Avevo solo bisogno d’amore. Ma lei tacque e io me ne andai.

Quella stanzetta è stata al contempo il mio rifugio e il  mio carcere; ho pianto a lungo distesa in quel lettino, la sera, quando nessuno mi telefonava, nessuno mi dava la buonanotte. Imploravo mio padre perché parlasse alla mamma, perché l’aiutasse ad aprire quel cuore sigillato, indurito, quasi cattivo.

Studiavo con accanimento e i miei voti erano brillanti, la miglior allieva del corso, presi persino la borsa di studio; telefonai allora alla mamma per dirglielo ed ebbi solo un “brava, complimenti, sono contenta per te”. Riagganciai la cornetta giurando a me stessa che non l’avrei chiamata più. E così feci.

Mi laureai nei quattro anni canonici, con il massimo dei voti e la lode. Alla mia tesi erano presenti soltanto gli amici e i colleghi di lavoro, tanti per la verità perché ero riuscita a farmi benvolere da tutti. Festeggiammo la sera in una pizzeria e finsi di essere allegra come sempre. In realtà il mio cuore piangeva: mi mancava da morire mio padre, avrei voluto saltargli al collo e baciarlo, dirgli che l’avevo fatto per lui, perché fosse orgoglioso di me, ma lui non c’era più, ormai da troppo tempo. E lei… lei era chiusa in quel mutismo assurdo, irragionevole.

Trovai presto un buon lavoro e cominciai una nuova vita. Guadagnavo abbastanza così potei comprarmi un’automobile e affittai un piccolo appartamento all’ultimo piano di un grande caseggiato. Era luminoso e la mattina, svegliandomi, potevo ammirare dalla finestra aperta gli alberi dei giardini di fronte e udire il cinguettio degli uccellini a primavera, proprio come a casa mia quando ero piccola.

Incontrai anche un ragazzo; era poco più grande di me, era venuto a lavorare in città da lontano, da un piccolo paese del sud. Era solo, senza amici e senza parenti; i suoi erano morti da molti anni, non aveva fratelli, lasciare il paese era stato un modo per allontanarsi da un passato con cui non aveva più alcun legame.

Cominciammo ad uscire, prima una pizza, una serata al cinema, una gita fuori porta la domenica. Stavamo bene insieme, avevamo la stessa passione per i libri, amavamo la stessa musica, soprattutto amavamo il silenzio; spesso rimanevamo abbracciati per ore in silenzio sul divano di casa mia o in macchina, sentivamo che quel silenzio era pieno, pieno di domande inespresse, di sogni irrealizzati, d’amore da donare.

Decidemmo di sposarci. Prima di fissare la data delle nozze, però, volli parlargli di mia madre, dei suoi silenzi ostili, del mio amore per lei non ricambiato; gli chiesi cosa dovevo fare: se dirle che mi sposavo o farlo senza di lei.

Lui mi ascoltò con attenzione e mi guardò intensamente; nei suoi occhi c’era uno sguardo triste e velato da lacrime che non scendevano. Per la prima volta mi parlò della sua famiglia, dei suoi genitori, dell’amore che li aveva legati, tanto da farli andare via uno dopo l’altra, a distanza di poche settimane; anche lui si era sentito abbandonato, privato di qualcosa quando il padre, senza una vera malattia, solo per tristezza, si era lasciato morire, non aveva resistito senza la moglie. Allora lui aveva pensato di non essere stato sufficientemente amato; il padre non aveva pensato al figlio, aveva ascoltato solo il suo dolore e niente altro.

Col tempo però aveva capito; aveva capito che esistono creature che possono vivere soltanto se sono in due, l’una è di complemento all’altro, come una bella tela dentro un’altrettanto bella cornice; cosa sarebbe quella cornice senza la tela? Niente.

E aveva perdonato.

Prima di andarsene dal suo paese si era recato per la prima volta  al cimitero e lì aveva pianto le sue prime vere lacrime di dolore e di perdono; li aveva salutati ed era partito incontro ad una nuova vita. E la vita lo aveva premiato facendogli incontrare lei, la sua donna. Anche lei doveva perdonare sua madre e accettarla per come era.

Partirono per il paese, decisero di andare di persona a dare la notizia del matrimonio alla madre. Quando arrivarono trovarono una brutta sorpresa: la mamma era a letto da giorni e il medico non riusciva a capire cosa avesse; niente l’aiutava, si stava lasciando andare. Ma per la prima volta, quando vide la figlia, allargò le braccia e se la strinse al petto; per la prima volta la baciò e calde lacrime scesero da quelle guance scavate. Rimase in silenzio, come sempre, ma questa volta era un silenzio pieno d’amore, che implorava il perdono senza parole, con gli occhi, col sorriso, con la stretta delle braccia.

E la figlia perdonò.

Tenendo stretta la madre, tenne stretta anche la bambina di allora che aveva sofferto la mancanza d’amore, tenne stretto il padre che le aveva aiutate a ritrovarsi. Non si lasciarono più.

L’amore scala le montagne, supera gli ostacoli, vince le battaglie; l’amore è il dono più grande che l’Esistenza possa farci.


 

 

 

 

 

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