Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Erminia” (storie di donne e di mondi) di Patrizia Mentrasti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Erminia: 15-11-1915, Szombathely

Quando Biancaneve compì sedici anni, la Regina, che ogni giorno domandava allo specchio fatato chi fosse la più bella del reame, si sentì rispondere che la più bella non era più lei, ma Biancaneve; così, confezionò una mela avvelenata e, trovata la fanciulla, gliela porse….
Ma, andata via di lì, la Regina precipitò in un fosso e vi trovò la morte.

Era stata una giornata fredda e nebbiosa, l’umidità penetrava nelle ossa e quel poco di calore che veniva dai corpi del marito e dei figli raccolti intorno non era sufficiente né a chetare i brividi, né ad abbassare la febbre.

Negli ultimi giorni la madre, Erminia, aveva parlato molto poco e il suo respiro era ormai divenuto affannoso; tutti le si facevano intorno con coperte, impacchi, spugnature, nella vana speranza di riportarla verso la vita.

Anna Paola era la più grande dei cinque figli (aveva ben sedici anni!) e in famiglia era chiamata Lina. Si muoveva con dissimulata angoscia: non voleva mostrare alle sorelle e al fratellino, dei quali sentiva già addosso tutta la responsabilità, quanto fosse preoccupata per il loro futuro.

La “spagnola”, la terribile influenza venuta da Occidente, si stava portando via la madre in quella lontana città della pianura magiara, Sombatelli, Szombathely, che in magiaro significa “il posto del sabato”: dal campo in cui erano imprigionati si poteva intuire che il sabato la città, paragonabile alla loro Pola, si animava per il mercato.

Erminia, Leonardo e i loro cinque figli erano originari della penisola dell’Istria. Leonardo era Maestro d’ascia presso l’Arsenale di Pola e, come lui, italiana era anche Erminia; del resto la più parte della popolazione istriana, soprattutto lungo la costa, lo era da generazioni, benché il dominio fosse negli ultimi tempi austriaco. Così il comune sentire di essere “Italiano” era l’orgoglio e l’identità di tutti… ma li aveva portati fin lì.

Erminia e Leonardo si erano sposati in un luminoso giorno di primavera, mentre il vento correva per il cielo, portando ora il profumo del mare con i suoi sbuffi bianchi, ora l’odore di selvatico misto a rosmarino. Avevano fatto una grande festa, con buon cibo e dolci istriani e avevano cantato e ballato fino a notte fonda.

Poi, Leonardo l’aveva portata nella loro bella casa al centro di Pola, a due passi dall’Arena. Dalla loro dolce, lontana, perduta casa, che, ormai Erminia lo sapeva, non avrebbe più rivisto, si vedeva ergere l’Arena in fondo alla via, orgoglio e simbolo della città. Dall’anfiteatro si vedeva il mare, il mare che rifletteva il cielo, il mare di ghiaccio dei giorni invernali, anche solo increspato dal vento che portava a spasso le nuvole, mentre in lontananza si udivano i rumori dell’Arsenale e del porto, perché Pola era un importante porto dell’Impero Austro Ungarico.

Quando Lina era nata, in uno degli ultimi giorni del secolo passato, il Natale si approssimava portando l’inverno e per Erminia e Leonardo la gioia era stata grande. L’impresa non era poi stata così difficile: le donne istriane, incrocio e incontro di tante razze diverse, hanno lombi forti e così la bimba era sana e bella come un fiore, con gli occhi chiaroscuri che sapevano guardare lontano, nascondere quel che si deve e mostrare quel che si può. L’avevano anche tanto amata, in modo fresco e spontaneo. Poi, uno dopo l’altro, erano venute le sorelle Gisella, Valeria, il bimbetto Ervino e, ultima, Nevia.

Durante la giornata, trascorsa da Erminia dietro le faccende (non era più tempo di canti e balli) i bambini, se non andavano a scuola, si rendevano utili e, come tutti i piccoli, si svagavano giocando nell’aia con gli animali e rincorrendo le galline. Insomma, erano proprio un bel branchetto e il mare, il porto, le navi erano il centro della loro vita. I bambini studiavano nelle efficienti scuole dell’Impero e Lina aveva anche già terminato gli studi medi.

Ma via via, dai primi anni del nuovo secolo in poi, i tempi erano divenuti sempre più difficili, anche per famiglie non umili come la loro e benché Pola fosse il centro pulsante dell’Istria e porto di snodo dell’Austria-Ungheria. Infatti, in mezzo a un gran malcontento e, come sempre, impoverendo le popolazioni, l’Impero si allungava e allargava verso l’interno. Infine, nella primavera del 1914, il Granduca e sua moglie erano stati uccisi a Sarajevo, e l’Austria aveva iniziato una guerra che sembrava non finire mai, continuando ad annettersi sempre nuovi territori anche nei Balcani, verso la Serbia e la Slovenia; così il malumore verso l’Impero aumentava in proporzione alle conquiste che questo andava continuando in quelle terre eternamente invase da sempre nuovi dominatori. Le guerre imponevano la loro violenza e si era giunti al punto che risultava impossibile anche solo mostrare l’orgoglio di essere Italiano, in quella terra, benché italiana, oltre la popolazione più colta, fosse anche la civiltà, irradiata da Venezia lungo il cammino dei secoli, fin nella lontanissima Cina.

D’altronde, non sembrava nemmeno facile essere ascoltati dal governo italiano, che aveva un re sabaudo e appariva molto più interessato all’Africa che all’Istria e alla Dalmazia.

Così una notte, una notte carica di tragedia, i soldati dell’Imperatore avevano bussato alla porta. Parlavano tedesco: bisognava tutti conoscere e capire senza esitazioni la lingua dell’Impero, così dura rispetto alla dolce parlata giuliana. Con parole concitate (come si adatta bene il tedesco ai comandi!) avevano loro detto che, poiché l’Italia aveva dichiarato guerra all’Austria, dovevano seguirli: gli “Italiani”, quelle teste calde degli irredentisti, venivano deportati nell’interno, dove avrebbero atteso la fine della guerra.

Con il cuore gonfio, senza riuscire a proferire parola, Erminia aveva diretto i preparativi dei figlioli, messo insieme rapidi bagagli, salutato con uno sguardo dolente casa e animali, ed erano partiti alla volta dell’ignoto. Inconsapevole della loro angoscia, la città iniziava a risvegliarsi; in lontananza, i primi rumori dell’Arsenale, lo sciabordio del mare e un acuto profumo di salmastro che rimase a lungo nelle loro narici.

Il viaggio era stato a dir poco scomodo e pieno di irresolubili interrogativi, anche se i figli, soprattutto il piccolo Ervino, erano molto eccitati dal viaggio in treno e dalle novità che via via si presentavano. Avevano prima attraversato tutta l’Istria, avevano poi lasciato (per quanto?) la loro penisola, passato montagne e paesi; si erano infine diretti verso le sconfinate pianure ungheresi.

All’arrivo a Sombatelli lo sgomento era stato, se possibile, ancora maggiore: una grande baracca sarebbe stata dimora e rifugio per molte famiglie. Loro ne avrebbero occupato un canto, dove cominciarono a collocare le loro poche preziose cose. Sarebbero stati rinchiusi nel campo e, per uscire, per lavorare o procurarsi del cibo, sarebbero stati necessari permessi e controlli dei soldati all’ingresso.

Senza parole, con il viso di pietra, ormai quasi incapace di mostrare dolore, Erminia iniziò ad organizzarsi. Nei giorni seguenti, Lina, benché giovane, si unì ad altre donne e misero su una sorta di scuola, in cui si insegnava l’Italiano, anche per non dimenticare.

Con tutte quelle bocche da sfamare, era proprio un gran problema mettere insieme il pranzo con la cena ed Erminia finiva sempre per essere l’ultima a servirsi, così che in pochi mesi aveva perso le forme rotonde e prosperose che Leonardo aveva tanto amato.

Comunque, la prima estate di questa guerra infinita era passata. Ma poi erano giunte le umide notti invernali e, con il vento di Occidente, la spagnola. La grigia cappa sopra di loro, che sembrava dare lo stesso colore uniforme alla pianura, la scarsità di cibi e rimedi, avevano fatto il resto. Il senso dell’ineluttabile si era infine impadronito di tutti loro. Ormai anche i piccoli Ervino e Nevia erano rassegnati a quanto stava per succedere.

In realtà, verso il mezzogiorno, Erminia era sembrata migliorare, aveva anche assaggiato un poco di brodo e scambiato faticosi sussurri, quasi sorrisi di intesa.

Ma, ormai, l’alba dell’ultimo giorno era giunta e quelle speranze erano svanite. Il respiro si faceva sempre più fioco e tremolante, come i lumi che avevano intorno, e si poteva solo attendere in livido silenzio. Le povere cose vicine, simulacro di una vita dignitosa e felice per sempre scomparsa, sembravano tacere assorte anche loro. Nessuno riusciva più a far altro che sospirare e, di quando in quando, allontanarsi con un brivido per reprimere le lacrime. Poi, non ci fu più neanche quello.

Tutto era finito.

I galli, uno dopo l’altro, cominciarono a inseguirsi con il loro richiamo. Tra non molto, anche i pastori sarebbero usciti rincorrendosi con le grida con cui chiamavano i maiali al pascolo, sotto la coltre grigia e piovigginosa del cielo.

Chissà se, invece, a Pola, la bora spazzava il cielo di nubi ghiacciate e rotolava il mare di bianco, inviando il salmastro odore di tempesta e muschio bagnato.

Come se fosse in un altro mondo, Lina osservo’ il padre uscire dal silenzio per prendere accordi con il personale del campo: quel luogo non permetteva né di urlare il dolore né di rispettare il momento. Mentre alcune donne si occupavano di vestire la madre, altre portavano cibo e bevande calde.

Si era conclusa ogni cosa: nessun altro parente sarebbe intervenuto alla povera cerimonia, che sarebbe stata frettolosamente celebrata da un sacerdote magiaro, alla presenza inquietante di soldati dell’Imperatore. Infine, nuda terra straniera avrebbe accolto le spoglie.

Prima di tornare al campo, domandandosi dove e come avrebbe potuto piangere ed onorare la madre, Anna Paola gettò una manciata di terra su quanto restava di Erminia.

La lamentazione di Erminia

Figlia,
è giunto il mio momento
non sono riuscita: cado.
Sei bella e robusta: saprai cavartela.
Sono stata severa ma
così si usa nel nostro mondo
fatto di guerre e soldati.
Abbi cura di tuo padre e dei tuoi fratelli.
Abbi cura di te.
Porta il mio saluto al mare, alla nostra casa.
Salvati.
Addio.

La lamentazione di Lina

Madre,
Perché? Perché?
Perché fate questo a me?
Non ho forse obbedito ai Vostri comandi?
Non sono stata rispettosa, diligente?
Non ho studiato?
Non ho lavorato?
Come, come farò?
Chi mi insegnerà le regole?
Chi mi proteggerà dalle occhiate di quel soldato laggiù?
Come
Dove
potrò piangerVi?

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