Premio Racconti nella Rete 2011 “L’uomo delle luci” di Sandra Pisano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Faceva uno strano lavoro per cui nessuno ancora aveva inventato un nome. Era l’uomo che all’imbrunire accendeva le luci dei lavori in corso lungo le strade senza alcuna illuminazione. Accendeva gli stoppini di quei lumi a petrolio così anacronistici rispetto all’imponenza di quei lavori in corso.
Ed ogni sera appoggiando il fuoco alle lampade, pensava all’uomo con le sue macchine che riesce a smuovere le montagne dal loro giaciglio ed a creare colline su cui depositare strade anche dove non ci sono.
Era un uomo all’antica che da giovane lavorava nei campi, quegli stessi campi allora arati di grano su cui oggi cresceva lenta un’autostrada, sulla sua terra da sempre, oggi espropriata dalla furia di pochi uomini, che in nome dell’umanità intera gli avevano chiesto di sloggiare. “Non hai scelta – gli avevano detto – è per il bene della collettività, ma ti risarciremo profumatamente”. E cosa mai avrebbe potuto farsene di quella insulsa montagna di soldi senza la terra delle sue colline.
Lui si era sempre accontentato di poco. Il pascolo delle pecore dopo la mietitura gli garantiva latte e formaggio, ogni tanto un po’ di carne, e per il pane non c’era problema era nascosto nel grano, bastava in fondo solo farlo lievitare.
Adesso invece gli avevano offerto quel lavoro, per sentirsi attivo, avevano detto, perché con l’età che avanzava ed i soldi che aveva poteva considerarsi a posto e vivere tranquillo il resto dei suoi anni.
Ma ormai lui non si dava pace e nei suoi sogni recriminava su ciò che avrebbe potuto fare per impedire quel disastro a cui invece, si era arreso troppo presto. Meditava che avrebbe potuto sdraiarsi sotto la ruspa davanti alla sua casa il giorno in cui iniziarono i lavori, ed iniziarono proprio da lì per paura che cambiasse idea. Gli avrei potuto urlare:- “dovrete passare sul mio cadavere prima!” ma quell’urlo gli rimase in gola come una lancia che non uccide ma non permette nemmeno di vivere.
“Gli hanno fatto un grosso regalo, ha un appartamento al centro del paese invece di questa baracca decrepita” commentava l’uomo della ruspa mentre lui caricava la scatola di cartone con le sue poche cose sulla motoretta. «L’ha chiamata baracca – borbottava – vorrei proprio vedere la sua casa e vorrei vederlo se al posto della mia ci fosse la sua davanti alla sua stessa ruspa».
Non si dava pace ma aveva accettato quel lavoro perché non riusciva ad immaginare di potersi comprare altra terra che non fosse la sua, la stessa dove da bambino seppelliva con riti solenni gli animali di cui diventava amico, gli unici amici che voleva avere.
Aveva accettato quel lavoro perché non poteva accettare di vivere di rendita. “Solo i vecchi vivono di rendita” pensava. In realtà era entrato nell’età pensionabile già da qualche anno ma lui non lo sapeva, non conosceva quella parola “pensionabile” né probabilmente la propria età.
Aveva smesso di contare gli anni quando era morta la sua Nina. L’unica donna che avesse acconsentito a seguirlo lungo la strada della sua terra, e più che una donna a lui sembrò un gatto, così dolce e remissiva che in cambio della promessa di una carezza che arrivava sempre più di raro l’aspettò ogni sera con la cena calda ed il fuoco acceso, fino a spegnersi di un male che per pudore aveva nascosto anche a se stessa.
E da quando non c’era più lei a ricordargli i compleanni e le feste comandate aveva smesso di contare gli anni, anche se adesso iniziavano a pesargli le giornate.
Dormiva poco e all’alba era già in piedi immaginandosi che fosse già il tramonto per poter andare ad accendere i lumi lungo la serpe della strada che si animava sopra la sua terra. Gli avevano raccomandato «alle diciassette in punto d’inverno ed alle venti d’estate» consegnandogli con orgoglio un orologio da taschino in finto oro, che lui portava come una medaglia al valore senza leggerci mai l’ora perché non amava leggere le parole scritte.
Spiava tutto il giorno le luci della sera nelle loro impercettibili fluttuazioni per arrivare puntuale come le lancette dell’orologio, all’imbrunire di ogni sera per sei mesi ad accendere tutte le centodiciotto fiaccole dei tre chilometri di strada che gli avevano affidato.
Le sfere di petrolio erano disposte a distanze regolari ogni 30 metri e nei punti critici fino a 10 metri l’una dall’altra. Aveva assegnato ad ognuna di loro un nome diverso, ricordando i pochi conoscenti, i suoi pochissimi amori, gli amici animali e gli alberi di frutta che aveva piantato negli anni, ed ogni sera le nutriva di petrolio e fuoco con tenerezza chiamandole per nome, attendendo quasi un saluto in risposta o almeno un cenno, se non un sorriso.
Ed ogni sera in prossimità dell’ultima lampada sceglieva una manciata di terra e la riponeva con cura nel fazzoletto pulito e nella tasca, e una volta giunto a casa la rovesciava in un vaso di terracotta che qualcuno aveva dimenticato nel balcone.
Il vaso non era ancora pieno e già germogliava qualcosa, “magari è grano…”, pensava emozionato all’idea di aver rubato qualcosa che gli apparteneva e di cui era stato derubato, magari è avena o forse miglio. Annaffiava un poco simulando la pioggia e ricordava le annate di siccità nei campi, contrapposte alle inondazioni. Ma in fondo l’aveva sempre avuta vinta e alla fine riusciva sempre a salvare il raccolto, almeno il necessario se non tutto.
Aveva vinto tutte le intemperie tranne quelle ruspe e quei camion pieni di ingegneri con le mani pulite e di operai con le tute sporche dal grasso dei trattori e dal fango della sua terra. Fino ad allora aveva vissuto con il terrore nelle ossa che arrivassero catastrofi devastanti, come gigantesche trombe d’aria e invece in quel momento implorò il dio dei cicloni di svegliare il suo esercito per portare via gli invasori.
Ma oggi come ieri nulla accadde e tutto accadde.
La strada cambiava colore ogni giorno e la sua terra pestata e maltrattata era sempre più grigia, fino al giorno in cui divenne nera d’asfalto e non la riconobbe più.
Nessuno rispose quando una per una urlo i nomi delle sue luci, morte dal freddo attendendo il suo fuoco. Al loro posto aveva trovato una fila interminabile di catarifrangenti bianchi e rossi, che si illuminavano appena sotto il faro della motoretta, per spegnersi subito al suo passaggio.
Arrivò fino alla fine del suo pellegrinaggio quotidiano e riconobbe subito quell’ultima lampada dimenticata per sbaglio proprio vicino all’impronta della sua mano nel cumulo di terra fresca con cui nutriva il suo vaso.
Nina! Nina! sussurrava cercando i fiammiferi con gli occhi allagati e le mani tremolanti, “come vivrò ora che questo mondo di luci non ha bisogno più di me, come vivrò quando inizierà l’esodo feroce di automobili che mi ha squarciato in due la vita?”
Pianse tutta la notte al freddo dell’autostrada sotto la luce della lampada battezzata Nina, e quando giunse l’alba dormiva come uno straccio vecchio dimenticato dai lavori in corso sul ciglio della strada.
Era giunto il fatidico giorno del collaudo ma lui non poteva saperlo, e non lo capì neanche quando svegliandosi con i raggi del sole conficcati come spilli negli occhi inizio a vagare cieco in quel mare di asfalto e cielo. Non lo scoprì nemmeno quando il dio dei ciclopi vestito da auto veloce lo travolse nell’uragano delle ruote e del motore.
Qualcuno colto da pietà fece un cumulo di dieci pietre in sua memoria nel punto esatto in cui si spense, riempi e accese la Nina per vegliarlo, e non fu solo almeno fin tanto che durò il petrolio.
“ma oggi come ieri nulla accadde e tutto accadde”, ci si pensa? Sono i giorni, i mesi , la vita intera: sono rimasta un minuto con gli occhi fissi su questa frase perchè è come se mi avesse illuminato, se mi avesse rivelato qualcosa con la potenza della sua semplicità.
Il racconto è malinconico, la solitudine dell’ “uomo delle luci” è toccante e proprio per questo questa storia riesce a commuovere.