Racconti nella Rete 2009 “Sulla collina lungo il fiume” di Massimo Potenza
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Abitava la villetta isolata sul versante interno d’una collina lungo la valle; non si vedeva da lontano ma il ciuffo d’alberi che lei chiamava “boschetto” aveva acquisito pian piano una fisionomia familiare come le mura stesse o la macchia scura sul marmo del caminetto.
La trovavo sempre e istintivamente, ogni volta, sapevo dove cercarla: lungo i viali del parco o seduta a leggere nel capanno di legno, con le gambe appoggiate ad una panca; quando arrivò l’inverno, imparai a trovarla sulla soglia, inquadrata nel vano dell’ingresso, inondata di luce la mattina o circondata d’ombra viola il pomeriggio. Di sera, la sua figura si stagliava contro il chiarore dell’interno per illuminarsi quando scendevo dall’auto e veniva accesa la luce del portico.
Non salutava mai, all’arrivo o alla partenza, non mi chiamava per nome; non ricordo che avesse mai usato altro che il ‘tu’ parlandomi. Ricorderò per sempre i suoi sorrisi indulgenti di quando accendevo una sigaretta dopo un’altra o mi servivo da bere per la terza volta. Spesso prendeva lei il bicchiere e veniva a sedersi sul bracciolo della mia poltrona, mi avvicinava il liquido alle labbra tenendomi l’altra mano sulla nuca, come ad un bambino che potesse cadere; non poteva succedere ma qualche volta mi versava il liquido addosso e allora rideva e rideva…..
La trovavo avvolta in abiti leggeri a tinte tenui ma quando era freddo, d’inverno, scoprii che sotto la vestaglia di seta non indossava assolutamente nulla.
Io non so come ma ogni parola rispondeva ad una mia domanda inespressa, ogni suo gesto ad un desiderio segreto ed erano senza fine gli scambi di pensieri senza parole, tra noi.
Stanchezza, nervosismo o malinconia cadevano ogni volta fuori della sua casa e, chiudendomi la porta alle spalle sentivo un calore di giovinezza e una vitalità serena entrare in me.
Le dissi un giorno che tutto quello, lei e la sua casa erano per me il porto della felicità; poi mi sentii ridicolo, perché trovai banale l’immagine.
Mi disse un giorno che una donna sbrigava il lavoro della casa e un uomo, suo marito, quello del giardino ma non li vidi mai. Anche quando restavo a cena da lei, le vivande arrivavano dal piano inferiore attraverso un montacarichi ed erano già distribuite nei due vassoi che finivamo per tenere sulle ginocchia.
Non esistevano problemi nella sua casa né in lei. Una sera ebbi delle difficoltà con l’auto: – Posso fartela aggiustare, se vuoi – disse ma mi invitò a restare. Così rientrammo e ancora una volta cadde fuori, nel freddo della notte, il bagaglio di disappunto che avevo accumulato negli ultimi minuti.
Mi lasciò seduto sul tappeto, appoggiato col gomito al divano, a guardare il fuoco nel caminetto che accentuava il senso di protezione che i colori davano , contro il buio di poco prima.
Tornò avvolta in una vestaglia appena trasparente e un grande foulard che le fasciava la vita. L’avevo sentita frusciare alle mie spalle mentre si spegneva la luce e mi passò davanti prima di sedermi vicino: contro il riverbero della fiamma, per un attimo, fu come se la stoffa non esistesse e la vidi nei suoi contorni perfetti, nel movimento armonioso dei suoi passi facili. Il suo profumo, appena percettibile, mi ricordava uno squisito tè che avevo portato dall’Inghilterra ed era come se non avesse una funzione diversiva dell’odore della sua pelle ma anzi servisse a sottolinearlo.
Mi parlò e disse:- caro – e che era felice che la macchina si fosse rotta e che da tanto sperava che passassi la notte da lei, che restassi con lei, che non partissi più. E gli occhi le brillavano col fuoco e disse:- Puoi cambiarti, se vuoi.-
Non sapevo come ed ero perplesso ma sorrise e disse:- Di là.- Così nel bagno trovai un solo indumento, una tunica di lino blu che mi arrivava appena alle ginocchia. Trovai naturale e delizioso indossarla e mi guardai nello specchio.
Un sentimento strano di pudore e ridicolo mi tratteneva, tornando nel soggiorno ma lei non si voltò. Era sdraiata sul tappeto, il viso verso il fuoco e aveva appoggiato le spalle ad un cuscino e il capo al divano.
Mi inginocchiai vicino a lei e mi accorsi che aveva gli occhi chiusi; un braccio disteso lungo il corpo e l’altro ripiegato sul petto; le dita le sfioravano il seno: lunghe dita, curate ed agili, sottili e pallide che facevano pensare alla mano di un pianista e alla musica di Chopin. Le gambe, leggermente piegate, accentuavano la sinuosità della figura.
Volevo baciarla e avevo paura. Volevo dire tanto ma temevo che non capisse e che non ascoltasse più i miei pensieri.
Per la prima volta, in quella casa, vicino a lei, soffrivo. Qualcosa pulsava nelle tempie e nel cuore ed alzai il viso in alto credo per respirare e mi girai verso il buio forse per piangere, ma una mano si posò sul mio braccio e tutto questo cadde e la guardai negli occhi e una voce diceva:- Tu sei tutto per me e non ci sarà nessuno, mai più!-
Poi una mano mi cinse la nuca e mi avvicinò a lei dolcemente:- Perché dici questo – sussurrò – Io sono solo un’immagine per te, un sogno.-
Un lembo della vestaglia frusciò lievemente scivolando di lato e la fiamma si spense nel caminetto. Solo il rosso della brace restò a leccare i contorni delle cose e il vento a cercare ululando la sua introvabile liberazione.
Qualcosa si interrompe nei miei ricordi da allora. Non so come, non ricordo perché ma quando, oltre la curva, si scoprì la collina, qualcosa mi colpì: il ciuffo d’alberi era sparito e sul pendio una squallida casa senza calore sembrava appoggiata a se stessa con una noia infinita.
Credetti d’aver sbagliato e corsi: nessuno era nel vano della porta e un’anziana donna girava in quel momento l’angolo della casa con una cesta troppo grande sotto il braccio.
-Dov’è? – chiesi. Sembrò che non capisse.
-La signora che era qui- dissi- dov’è?-
Ma l’ingresso non sembrava più quello e il porticato non c’era più.
-Ma che dice!-fece la donna- qui ci stiamo solo io e mio marito, da sempre!-
Non capivo più. L’ascoltavo appena mentre spiegava che il marito era al mercato, che i prezzi erano bassi, il lavoro pesante, la vita uno schifo.
Lasciai in fretta quel posto e ripetei il tragitto e tutte le strade vicine e tutte le colline della riva destra del fiume.
Dalla sorgente al mare ogni collina più appannata della precedente, ogni strada più brulla, ogni casa più triste ma non trovai la sua. Ogni ciuffo d’alberi, lontano, su un pendio, mi dava un’emozione nuova e una delusione struggente.
M’accorsi che non sapevo il suo nome, non l’avevo mai saputo… non avevo mai avuto bisogno di chiamarla, di cercarla, di preoccuparmi per lei.
Non sapevo più se quella casa fosse mai stata sulla collina ma sentivo che non potevo rinunciare, che non avrei potuto mai, che tutta la vita cercherò di ritrovare lei anche se ormai non resta che un’immagine, un sogno.