Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Vladimiro” di Ivano Rota

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

C’è poca gente in centro. E’ un tardo pomeriggio di una giornata invernale. Susanna ha terminato il suo lavoro nell’ufficio dell’avvocato ed è in strada, una strada semideserta con sempre più saracinesche che non si levano fin dal mattino. Susanna è sulla via di casa e guarda le vetrine aperte, tutte di lusso; riprende il proprio passo e si sofferma di nuovo, attirata dai tanti preziosi capi esposti ad arte sotto i riflettori. Se li immagina addosso, si vede con quel completino, con quelle scarpette! Si specchia nelle vetrine. Fa le proprie considerazioni sul prezzo. Si rammarica e  poi gioisce. E’ una ragazza semplice, che si accontenta. E’ una ragazza che sa vestirsi con eleganza spendendo poco. Susanna  ritorna a casa dopo una giornata di lavoro ma dall’altra parte della strada, nell’ombra e senza essere visto Vladimiro segue  ogni suo movimento. Vladimiro è un figura diversa da tutte le altre, basterebbe guardarlo per capirlo. Vladimiro attende con pazienza i suoi tentennamenti davanti alle vetrine. Attende le sue fantasie e i suoi desideri. Vladimiro neanche la conosce ma la vuole possedere. Attende l’attimo buono per vederla soffrire.

All’improvviso Susanna entra in una farmacia e a lui non resta che avere pazienza, non resta che gironzolare di qua e di là nei paraggi, tenendo sempre d’occhio l’uscita. Poi non vedendola riapparire, si ferma senza alcuna remora lì in mezzo al marciapiede, senza che nessuno nel quartiere si domandi il perché di quel suo comportamento. Attende Vladimiro. Attende  e intanto la mente gli va a molti anni addietro nella sua vita, quando sovente  il mattino presto lo trovava  sveglio, lui ancora bambino che la notte gli faceva paura, che sentiva ciò che succedeva in casa e si raggomitolava senza più prendere sonno. Attende e guarda l’ingresso della farmacia: senza volerlo corre quindi a quegli attimi di angoscia antica, quando quei brutti rumori che lo avevano spaventato nel buio della sua casa parevano azzittiti e lui, prendendo coraggio, dopo che se n’era stato lì rannicchiato in attesa che la causa di quell’angoscia si vestisse e uscisse di casa, una volta riconosciuti quei rumori, di scatto si alzava e andava alla porta da cui era uscito il padre e dal buco della serratura lo guardava ancora lì fuori sul pianerottolo. Lo spiava senza respirare. Lo guardava   toccarsi meccanicamente la tasca destra del giubbotto, con quelle mani. Cercava, suo padre, i due mazzi di chiavi che avvertiti con quelle dita gli facevano scivolare la mano al portafogli, dietro la tasca dei jeans e quindi  al cellulare cercato in una tasca interna. Se aveva tutto, per fortuna  proseguiva verso la rampa di scale e scendeva. Il mattino presto aveva ancora bisogno di luce artificiale e nella discesa suo padre  aveva schiacciato più di un interruttore ma, inutilmente. Vladimiro aveva visto tutto, uscito fuori sul pianerottolo, in cima alla tromba delle scale anche se era tutta completamente al buio. In silenzio,trattenendo ancora il respiro lo ascoltava scendere, passo dopo passo. Mai avrebbe immaginato che suo padre, proprio lui, per il tipo che era, si sarebbe  sforzato scendendo di identificare velocemente le ombre prima che gli affiorasse il batticuore. Anche suo padre non si sentiva a proprio agio al buio. Poi Vladimiro lassù aveva sentito un colpo. Il padre aveva urtato qualcosa più giù. Un urto col piede aveva immobilizzato entrambi per un istante. Quindi il capitombolare di un oggetto per pochi gradini, poi un rumore di vetro che andava  a pezzi: era una bottiglia che andava in frantumi.

Vladimiro e forse anche suo padre si erano chiesti  quale dei tanti disgraziati di quella palazzina aveva  potuto abbandonare proprio sulle scale, una bottiglia. Doveva essere qualcuno che abitava lì sopra. Poteva essere quello o anche quell’altro… Intanto suo padre aveva lasciato lì tutto e aveva proseguito nella discesa che ora era sempre più illuminata dalla luce proveniente dalle plafoniere  giù nell’androne che  usufruivano probabilmente di un’altra linea di corrente e tutto prendeva una forma più familiare.

Vladimiro non poteva saperlo ma suo padre entrando in  quella luce che schiariva tutte le ombre,si era rilassato e si sentiva più sicuro tanto che col  pensiero anche lui era andato a cercare  qualcosa che gli metteva angoscia. L’angoscia che lo pungolava era l’angoscia di perdere il posto di lavoro. Scendendo le scale infatti, trovata la luce, si era messo a pensare alla sua fabbrica e all’eventualità di una sua chiusura.   Fino ad allora, si diceva da sé, erano state solo chiacchiere e pettegolezzi e i pezzi di ottone da pulire alle macchine non erano mai mancati. La crisi della quale si sentiva tanto parlare in giro pareva non toccare la sua fabbrica, dove oramai lavorava da otto anni. Poi di colpo sì, qualche giorno addietro un grosso quantitativo di lavoro che avrebbe dovuto giungere come sempre non venne consegnato. E siccome la direzione non aveva dato spiegazioni, allora tutti avevano iniziato a formulare ciascuno le proprie ipotesi. E la maggior parte erano tragiche, non poteva negarlo, ma a distanza di giorni ciò che più lo inquietava non era tanto il discorso effettuato con maggior logica o intelligenza, quanto la faccia tormentata di alcuni compagni di lavoro, quelli che solitamente erano sempre pronti a buttare tutto sul ridere e a sdrammatizzare ogni cosa; quelle facce che avevano sempre fatto credere che poteva cascare anche             il mondo che loro non le avrebbero scomposte, ebbene quelle facce accigliate  gli si erano stampate nella mente e lo preoccupavano, anzi lo angosciavano. Come lui con le sue sconcezze aveva torturato i suoi cari alla sera, così quelle facce poi lo avevano torturato in maniera sadica per il resto della notte.

Mentre Vladimiro, sentendo suo padre che apriva la porta che dava  sul giardino della casa di ringhiera, era tornato in casa convinto che fosse finalmente andato,  questo uomo brutale, varcata la soglia  aveva udito  uno schianto improvviso, esagerato, poi un rumore di ferraglia, che lo aveva raggelato. Le facce disfatte dei suoi compagni di lavoro che gli giravano  attorno, finalmente si erano dileguate ma avevano lasciato il posto ad  un vuoto senso di paura. Una figura fosforescente nell’oscurità di un  mattino ancora da farsi si muoveva come uno spettro. La foschia invernale avvolgeva l’operatore ecologico e il rumore del suo lavoro diventava straziante nel silenzio. Un sacco di pattumiera veniva alzato come un fuscello e lanciato nel cassone dell’automezzo. Altri rumori assordanti e una puzza di gasolio. Di colpo il padre di Vladimiro si era messo  a pensare ad un altro sacco, più piccolo, un sacchetto, che avrebbe dovuto avere in mano, con  due panini che dovevano essere il suo pranzo. Si rese conto che lo aveva dimenticato sulla tavola della cucina. Allora si era voltato di scatto e a più non posso aveva ripercorso tutta la scala al contrario. A due gradini per volta era ritornato in cima. Aveva riaperto la porta di casa con frenesia e si era trovato di fronte Vladimiro, il figlio di soli sei anni che, spaventato per quel ritorno inatteso era scoppiato in un fiume di lacrime. Lui senza degnargli di un’attenzione gli aveva intimato di spostarsi. Il bambino ancora stordito da quel ritorno, non capendo, rimasto immobile, aveva ricevuto dopo una frazione di secondo una manata che lo aveva capovolto. L’uomo aveva afferrato finalmente il suo sacchetto ed era ridisceso.  Ora era in ritardo.

Vladimiro, il figlio, intanto, per lo spavento, si era messo a gattoni e piangeva a più non posso. Il muco dal naso gli colava in una lunga candela che davanti ai suoi occhi oscillava nel vuoto come un pendolo finendo per appiccicarsi alla bocca. Una sensazione viscida e gelatinosa.

Una sensazione di abbandono e di sporcizia come quella che quel giorno,vent’anni dopo, da adulto, prova, allorquando consapevole, lascia colare la candela fino alle labbra per tirarla dentro con la lingua. Prima però, Vladimiro, con la candela ha addirittura giocato, ora facendola colare, ora tirandola su per il naso e intanto aspetta, lì immobile sul marciapiede senza che nessuno lo noti, di veder uscire la giovane avvenente. Alla fine Susanna esce dalla farmacia e imbocca  il viale alberato. Basterebbe guardarlo per vedere che la fissa troppo attentamente. La segue dall’altra parte della strada, senza che nessuno se ne accorga, nel buio del tardo pomeriggio di una giornata invernale. Vladimiro forse già conosce la giovane donna e forse già conosce la strada che percorre. E’ la gente che non conosce lui anche se si aggira nel loro quartiere. E’ una strada che ha percorso altre volte che porta al posteggio dietro al cimitero. Un posto poco illuminato e in disparte. Un posto ideale. La guarda camminare di spalle, stretta in una giacca di lana con la cintura e le gambe coperte solo dalle calze. Vladimiro la segue.  Vladimiro con la mente gliele  strappa con violenza e un fremito gli stordisce  tutto il corpo. Vladimiro è oramai a pochi passi da lei quando, due pupille sanguinanti gli sbarrarono il turpe assalto; poi un ringhio di bestia infernale gli si para davanti, nera e maligna. Il mastino al guinzaglio viene immediatamente tirato e rimproverato dal suo padrone che chiede scusa al giovane. Ma la bestia improvvisamente inferocita non cambia la postura, la bocca sbava e di nuovo ringhia, latra, finché uno strattone violento glielo  soffoca  in gola. Il Padrone si scusa di nuovo, dice che non sa che cosa  abbia  il suo cane. Il padrone lo tira via pieno di imbarazzo ma Vladimiro  non lo guarda; guarda la sua vittima mancata che ha già avviato la macchina. Che parte coi fari accesi e si allontana. Solo i capelli di lei nel buio dell’abitacolo gli danno l’ultimo brivido.

Bestemmia in un dialetto  strano Vladimiro, poi  tira un calcio ad un  sasso. Guarda al  padrone, basso e tarchiato, poi fissa il suo cane. Il mastino fissato negli occhi ancora di più sbava, tira, si erge su due zampe tanto che è chi ha il guinzaglio  ora ad avere paura. Sembra che sia fuori dal  suo controllo, non c’è verso a strattonarlo, né a gridarlo. Allora come ultima speranza urla a quell’estraneo: “Se ne vada! Via, via!”    Vladimiro invece, anziché indietreggiare fa un passo lento  verso l’animale e  porge il palmo aperto della mano innanzi a quelle fauci slavate. La belva di colpo si calma. Scodinzola , il ringhio s’attenua in brontolii di colpo mansueti. Vladimiro si abbassa e lo accarezza e l’animale si fa accarezzare.

“Non so che gli sia successo”, dice il padrone dell’animale, goffo, tutto sudato, in un giaccone enorme da militare e  tira finalmente il fiato. Vladimiro però pare che neanche lo senta. Continua a fare complimenti a quello che sembra diventato un cucciolo giocherellone; poi si alza e torna sui suoi passi senza parlare.

Non sanno quell’uomo e il suo cane che hanno salvato dalla violenza quella giovane. Vladimiro poi, fatti pochi passi si volta e in un linguaggio stentato, fissando questa volta negli occhi l’uomo: “ La prossima volta non ti voglio vedere passeggiare in questa piazza.” E lo lascia lì con un tono di minaccia.

Vladimiro i cani almeno li amava, giacché erano stati gli unici a non avergli mai voltato la faccia. Che si ricordasse: né dal padre, né dalla madre, né dai fratelli ebbe un gesto di affetto, ma dai tanti cani coi quali stette in compagnia sì, fin dall’infanzia. Lo leccavano perfino sul muso e lui si faceva lavare dalla loro saliva.

Suo padre invece non sopportava i cani ma chissà perché li aveva sempre avuti  e se li portava dietro anche quando, per certi motivi,  doveva lasciare una casa per un’altra, un tugurio per un altro, coi materassi legati con la corda, sulle spalle, e i quattro stracci e le altre miserie.  Li aveva sempre avuti con sé, sporchi e malnutriti, ammalati. Forse perché così poteva scaricare su di loro la propria violenza. Sì, suo padre era sempre stato un violento. E non solo con i cani. Era violento soprattutto quando c’era qualche cambiamento. E nella sua vita ce n’erano stati sempre. Tanti.  Come quella volta che era corso in ritardo al lavoro per colpa di quel sacchetto coi due panini che aveva dimenticato. Vladimiro non lo sapeva, era rimasto lì a piangere col moccolo che gli cascava davanti; ma suo padre i gradini delle scale poi li aveva saltati, per recuperare il tempo perduto, perché Antonio, il caporeparto glielo aveva giurato il giorno prima: “ Se arrivi ancora in ritardo glielo dico al capo e, lo sai, non ci pensa mica su tante volte e ti lascia a casa , ché  come te ne trova in ogni angolo che vogliono fare il tuo lavoro.” Aveva corso, sì, come un matto, riuscendo a prendere ugualmente il bus che lo avrebbe portato per tempo alla fabbrica. Ma una volta là quando poteva vedere già i cancelli da lontano, inspiegabilmente trovò tutti i compagni ammucchiati fuori. Erano lì che si parlavano, che fumavano e sputavano a terra; erano lì e non erano dentro; erano lì e non stavano aspettando lui; erano lì perché un cartello affisso ai cancelli diceva che la fabbrica aveva chiuso perché non c’era più  lavoro. Vladimiro questo non lo sapeva. Nessuno sapeva nulla e il padrone non si era fatto vedere. La fabbrica nonostante le proteste e le bestemmie quel giorno rimase  chiusa e fu così per sempre. Alcuni giorni dopo, sempre davanti ai cancelli chiusi, qualcuno avrebbe detto che l’avevano aperta da un’altra parte. Suo padre aveva perso così un’altra volta il lavoro. Quel giorno, dopo quella corsa e dopo essere rimasto qualche ora anche lui davanti ai cancelli chiusi a urlare e a sputare, aveva  bighellonato per il resto del giorno da una bettola all’altra, fino alla sera, quando esausto con il bere addosso fin nei vestiti era tornato a casa dalla propria famiglia. Aveva pestato per bene il cane di turno che gli era andato incontro per salutarlo, quindi se l’era presa con la moglie e infine con i figli.

Vladimiro incamminandosi in quel tempo che si fa sempre più nero e buio maledice quel cane che gli ha mandato all’aria quell’assalto. I due occhi insanguinati del mastino non vogliono abbandonarlo e pare che  lo seguano lungo il viale alberato che riporta in centro. Due occhi feroci che di colpo,  nella sua mente mai più domata e mai più ubbidiente, lasciano il posto ad altri occhi, più languidi e sofferenti: quelli di un altro cane; quelli di quel cane bastonato al rientro a casa di suo padre ubriaco. Quel cane che dopo essere stato percosso e gettato contro il muro trova rifugio assieme a lui in uno scantinato. Lì nascosti stretti stretti, il muso del cane vicino al viso del  bambino, col fiato trattenuto  e  una solitudine e un’angoscia e un abbandono, sentono a pochi passi la vera belva che si avventa sulla mamma e poi, non ancora sazia vuole stare accanto anche a Tatiana, la figlia, la sorella, la nuova vittima.

Tatiana non vuole e piange, Vladimiro la sente; avrà avuto 12 o 13 anni: non voleva stare vicino al vecchio padre. Non voleva soprattutto la mamma che aveva ripreso ad urlare ma un altro colpo, secco, che rompe le ossa, la mette a tacere.  Vladimiro poi nello scantinato, stretto al cane come se fosse stato un fratello, aveva udito il pianto continuo, lento, della sorella maggiore. Un pianto lungo che scoppiò in singhiozzo e delirio schizofrenico, quando l’animale si rivoltò di fianco, esausto, fradicio, finalmente vinto dal sonno.

Pensa a quel fedele animale Vladimiro allontanandosi dal cimitero e a come aveva potuto suo padre essere così un disgraziato, come aveva potuto diventare quello che era. Ma chi era suo padre? Che sapeva di lui? Nulla. Che picchiava la mamma, che aveva fatto male a Tatiana, che picchiava lui, suo fratello più grande e il cane. Poi un giorno, ma anni dopo, era sparito e la mamma, raccogliendo la propria forza, convincendosi che non sarebbe mai finita, aveva preso i tre figli e aveva fatto molta strada. Treno, pullman e ancora treno, fino a casa di una amica, con una sola valigia. Suo padre, Vladimiro, non lo aveva più rivisto, per fortuna.

Il viale alberato conduce Vladimiro in centro. La luce dei lampioni sotto le chiome degli alberi e la luce delle vetrine illuminano quasi a giorno, di una luce troppo gialla. Vladimiro ora passeggia lento e guarda attentamente tutto ciò su cui appoggia il proprio sguardo. Non gli sfugge nulla. Non ha pensiero. E’ sul marciapiede, da una parte le vetrine e dall’altra la fila di macchine posteggiate. Lui in mezzo. Vede un uomo anziano, dietro la propria macchina ferma, col baule aperto. Vede l’uomo sollevare con fatica due borse di plastica gonfie di una spesa appena fatta e con un respiro asmatico, orecchiabile fin a qualche passo di distanza, mettersi a camminare verso l’atrio di una palazzina. Vladimiro guarda allora nel baule lasciato aperto e incustodito. Altre borse vi giacciono dentro. Roba da mangiare e ce n’è  in abbondanza. Ha fame e visto che quello è già  presso l’atrio e gli dà le spalle, guardandosi appena attorno, ne afferra anche lui un paio con le sue mani grandi. Fa appena in tempo a sentire il peso delle borse che un’altra persona, questa volta una donna,giovane, forse la figlia, sbuca dall’atrio e scambia qualche parola con l’uomo carico di spesa. Vladimiro molla le borse ancora mezze nel baule e se ne va come se niente fosse. La giovane donna in un attimo arriva e quasi neanche lo vede. Ha altro a cui pensare. Altre cose inseguono il suo pensiero che non la vita che è in agguato in quell’angolo di strada. Vladimiro prosegue di nuovo lento sul marciapiede: solo  escrementi di cane, cartacce e uno sputo da fare vomitare. Vladimiro ha fame e non vuole passare un’altra notte a digiuno. Un  fruttivendolo mette lì in bella mostra ciliegie grosse come noci provenienti chissà da dove, uva bianca per palati fini, poi banane, frutti esotici di altre stagioni. Vladimiro sosta davanti a quel banco traboccante, lì sul marciapiede. Dentro, il negoziante e una commessa ridono con una cliente riparata da una pelliccia. Vladimiro indugia lì davanti ancora un attimo finché è troppo: il padrone lo nota e con un cenno manda fuori la ragazza per non fargli venire qualche strana idea. Lei  sicura di sé e con  tono fermo chiede a Vladimiro se vuole qualcosa e glielo chiede come per mandarlo via. Vladimiro la guarda, fisso,  le sorride e poi se ne va via. Ora la conosce, dice tra sé allontanandosi. Lei ritorna dentro e riprende la conversazione col padrone e la donna con la pelliccia e pensa di appartenere ad un altro mondo.

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.