Racconti nella Rete 2009 “Il Muro di Kalle” di Camillo Sanguedolce
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Appena vidi quel ragazzino alto e magro correre rasente i muri, un nome mi venne alle labbra, come un doloroso rigurgito: “Kalle!”. “Cosa?”, fece il camerata impugnando il kalashnikov per prendere la mira. Nulla, pensai, impugnando anch’io il mio mitra e prendendo la mira sui due ragazzi che correvano verso il muro.
Nulla. Ma in quell’istante mi resi conto di tutto: era la prima volta che pronunciavo quel nome, e questo mi diede uno capogiro: Kalle. Avevo sentito tante volte quel nomignolo da Damian, mio figlio, suo compagno di giochi, ma il suo nome completo era Karl-Heinz, ed era il figlio di Dieter, il fruttivendolo che nella nostra strada da tempo vendeva ormai solo rape e patate. Ed era il figlio di Martine, con la quale anni prima avevo avuto una relazione. Oggi Kalle avrà quanto, tredici anni? sembra uguale a me a quell’età, alto alto e magro magro, ma Martine m’ha sempre detto che non ero io il padre. E ha sempre difeso l’onore di suo marito, di quel marito che aveva tradito ma che amava di un amore malato ed esclusivo: allora certe cose non le capivo, per me era tutto bianco o nero, e solo dopo, vivendo in un grigio perenne, capii quanto in fondo la vita fosse fatta solo di sfumature: i colori accesi, le grandi passioni, vivono poco, come le farfalle e i fiori.
Silke, mia moglie, ha sempre saputo e taciuto. E come tutte le persone che sono importanti nella vita aveva contribuito a formare la mia coscienza. Me ne ero reso conto il giorno che ero tornato a casa coi tremila marchi che la Stasi mi aveva dato in premio per avere sparato a un uomo che tentava di scappare nella Berlino Ovest: io ero un Vopos, un agente della Volkspartei Polizei, una guardia del reparto speciale addetto al pattugliamento della frontiera, il “muro della vergogna” come lo chiamavano tanti, “la gloriosa frontiera anti-imperialista di difesa delle conquiste del socialismo”, come recitava il regime sovietico qui nella DDR. Tutte le mattine, all’adunata in caserma, il comandante ci raccomandava: “Non esitate a sparare anche su donne e bambini!”. Noi tutti sapevamo che era un ordine illegale, che il Ministro della Difesa, il Generale Heinz Hoffmann, aveva ufficialmente vietato di sparare sui minori. Ma nelle caserme era deriso come “il vecchio bolscevico pietoso” e le sue raccomandazioni tenute in scarso conto: tre stipendi extra per una vita umana era un buon prezzo nella miseria fisica e morale in cui vivevamo.
Benché il mio stipendio fosse sufficiente per una vita dignitosa, io dovevo mantenere i miei, malati e disagiati, e con una famiglia di cinque persone sulle spalle vivevamo in una dignitosa povertà. Ma Silke aveva preso quei tremila marchi dell’est solo per metterli via in caso di necessità estreme, mi disse, e io non ne seppi più nulla. E non ne volli sapere più nulla, che il suo sguardo addolorato mi sarebbe bastato per tutta la vita. Seppi molto più tardi, anni e anni dopo, dopo la caduta del muro, che lei aveva usato quel denaro di cui aveva ribrezzo per dare piccoli aiuti a tante famiglie che avevano perso i loro cari per colpa del regime. Io, da quel giorno, smisi di sparare ai fuggiaschi, fingendomi distratto, o sparando male, così che presto mi feci la fama di uno che aveva una pessima mira. Camerati e superiori mi prendevano in giro ma io andavo a letto sereno, con Silke e la mia coscienza. Che nei miei sogni erano la stessa cosa.
Un giorno trovammo chiuso il negozio del fruttivendolo: Dieter era riuscito a scappare all’ovest abbandonando moglie e figlio. Martine non se ne dette pace: andava tutti i giorni al Reichstag, negli uffici della Stasi, a maledire chiunque le capitasse a tiro, che non erano riusciti a fermare suo marito, quel mascalzone che li aveva abbandonati senza un soldo, che tutti i Vopos erano dei vigliacchi nullafacenti e cose così, finché un giorno non sputò addosso a un alto ufficiale che le aveva dato dell’isterica. Forse era davvero isterica, perché disperata, ma questo le valse l’internamento in un ospedale per malati di mente, e lì, fra cure e trattamenti, divenne davvero una malata di mente di cui non si seppe più nulla.
Anche Kalle sparì dalla nostra vita: seppimo solo che era andato ad abitare presso i nonni. Finché, anni dopo, non me lo ritrovai davanti, magro e spaurito, che insieme a un amico più grande correva come un topo lungo i muri di mattoni del quartiere di Treptow per raggiungere il suo Muro della Libertà da scavalcare: non morì subito, mi guardò e rantolò “Papi, papi…”. Il camerata mi guardò senza capire, e poi scherzò: “Ti crede suo padre questo figlio d’un cane!” e il mio cuore era diventato piccolo e infuocato come quel proiettile che gli aveva preso la vita.
Io lo avevo capito che Kalle stava invocando il padre che voleva raggiungere all’ovest, quello vero, Dieter, quello che l’aveva cresciuto fino al momento della fuga. Avevo capito che Kalle era morto per quest’idea di un padre che forse non l’aveva amato neanche tanto, che forse, chissà, lo sapeva figlio non suo, e che forse per questo, chissà, l’aveva abbandonato con la madre; con la madre che però aveva mostrato d’amare quest’uomo fino alla follia, nonostante lo avesse tradito, o forse proprio per questo, chissà, s’era legata a lui in quest’amore insano, per il senso di colpa del tradimento. Chissà, chissà, chissà. In ogni caso amori fraintesi, non combinati, e addolorati, dilazionati nel tempo e nella morte.
Quella sera era il tredicesimo compleanno di Damian: la sua torta era fatta con pane nero, crema di latte e amido, e miracolose fragole che Silke aveva rimediato chissà dove, ma lui ne era felice e non invidiava i ragazzi ricchi che mangiavano dolci nelle caffetterie, perché era cresciuto con questa consapevolezza che il suo papà, come gli andava dicendo la madre, era una persona buona e onesta e che le persone buone e oneste vivono con poco: lo stomaco leggero come il cuore. Quanta verità in tanta semplicità.
Ma quella sera del tredicesimo compleanno di mio figlio, avevo visto morire un altro mio figlio, e quando Damian mi buttò le braccia al collo riuscii a non scoppiare a piangere, ma non riuscii neanche a sorridere e sentivo che il mio viso era pietrificato in un’espressione che faceva paura. Damian, che era già un piccolo ometto saggio non mi chiese nulla, sapeva qual era il mio lavoro, ed era fiero che non portassi a casa regali extra, neanche per il suo compleanno.
Era il 1969. Vent’anni dopo lui fu tra i primi a salire sul muro della vergogna per buttarlo giù, e me ne portò un pezzetto: “Papi,” mi disse, “questo è per Kalle.” Mi mancò il respiro. Non so come aveva saputo, cosa aveva saputo. Silke, sempre al mio fianco, sorrise. Anch’io sorrisi, ma fra le lacrime. Erano vent’anni che trattenevo quelle lacrime, dal giorno del suo tredicesimo compleanno e dalla morte di Kalle, e piansi a lungo, stavolta, per ore, forse per giorni, lavandomi gli occhi da anni e anni di troppe brutture, brutti ricordi, brutti segreti, brutta vita, brutti dolori e troppe brutte cose non dette, mai dette, mai dette abbastanza, mai sufficientemente raccontate.
Sono passati vent’anni ancora. Sono vecchio ormai, e la mia memoria morirà con me. Ma spero, con questo mio racconto, adesso, che Kalle, e tanti ragazzi come lui, tanti uomini e tante donne, possano vivere di nuovo a nuova vita nella nostra vita, dalla mia alla tua e dalla tua in poi, nella memoria di ognuno di noi.