Premio Racconti nella Rete 2011 “La voce dell’anima” di Andrea Chittò
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Aurelio era un barbiere. Un barbiere di paese, di quelli che in fatto di confidenze, vengono subito dietro al prete e al dottore. Sì, perché sulla poltrona di Aurelio, il tempo si fermava anche per i più frettolosi, e lui lo sapeva bene. Sapeva che la gente del paese, i suoi clienti, credeva di andare da lui solo per la barba o per una spuntatina ai capelli, ma poi ognuno in realtà, anche solo per ammazzare il tempo, si metteva a parlare. E, una volta tanto, a pensare.
Gli argomenti erano tra i più svariati, si parlava un po’ di tutto: sport, motori, donne, vacanze, politica e molto altro ancora. Ma tutto questo ad Aurelio interessava relativamente. Già, perché lui, in fondo, si considerava piuttosto un po’ psicologo. Sapeva infatti che lì, sulla sua poltrona, sotto i colpi sapienti delle sue forbici, la gente amava parlare anche di sé. Come dall’analista. Sarà stato per quelle inusuali mezz’ore da barbiere dure da far passare, oppure per quella musichetta che usciva distrattamente dalla radiolina a transistor appesa al muro, che somigliava più ad una padella di pesce fritto sul fuoco, ma che aveva comunque il potere di creare quell’atmosfera un po’ confidenziale che, tutto sommato, alla gente piaceva. Avveniva quasi sempre seguendo un copione ben preciso, come una specie di rito: si cominciava a parlare del tempo, che fa caldo e poi fa freddo, che c’è umido e vengono i dolori e si dorme poco e male la notte, così che per tutto il giorno si è stanchi e viene la malinconia… e via discorrendo, fino ad arrivare prima o poi al cuore del problema. Che poteva essere la preoccupazione per un figlio, o il lavoro che non va bene, oppure il matrimonio che sta naufragando o, spesso, più semplicemente la solitudine o la vecchiaia.
Così, dopo tanti anni di mestiere, Aurelio sapeva tutto di tutti. Conosceva tutto dei suoi clienti, anche i segreti più intimi. Perché lui, oltre al taglio dei capelli, sapeva offrire alla gente una prestazione ben più importante: la sapeva ascoltare. E loro se ne accorgevano. Se ne accorgevano perché Aurelio raccoglieva ogni discorso stando in silenzio. Ma un silenzio interessato. Si capiva dai colpi di forbice. Quando il parlare era discorsivo, o durante un preambolo, le forbici lavoravano distrattamente sui capelli, quasi a voler sottolineare la scarsa rilevanza del contenuto. Ma quando si arrivava al dunque, le forbici si fermavano e Aurelio guardava il suo interlocutore nello specchio, apparentemente per controllare il procedere del suo lavoro, ma si capiva benissimo che non era solo per quello. E sempre in silenzio. Solo qualche cenno del capo o qualche espressione del viso lasciavano intendere qualcosa: disappunto, comprensione, amarezza. Per riprendere poi a tagliare, ma su un altro lato del capo, come a voler chiedere al proprio paziente di andare avanti, se c’era dell’altro, di tirare fuori tutto.
Qualcuno si accordava per l’orario, magari chiedendo un appuntamento poco prima dell’apertura pomeridiana, in modo di assicurarsi di essere da soli in negozio. E Aurelio accettava, sempre disponibile ad ascoltare, rosicchiando volentieri qualche mezz’ora al proprio tempo libero. Ma proprio volentieri.
Sì, perché per Aurelio il tempo libero era tempo vuoto. Era diventato via via un inferno. A forza di ascoltare i suoi clienti, di partecipare a gioie e dolori di altri, ad Aurelio era sfuggita di mano la vita. La propria vita.
E così, quando alle 20.00 l’ultimo cliente usciva dal suo negozio, Aurelio si guardava intorno, si sedeva sulla sua poltrona da lavoro e rimaneva solo nella stanza vuota, solo nella sua vita vuota. Lui, che ogni giorno ascoltava tante storie, tante vite, proprio lui, invece, non aveva niente da raccontare a nessuno. Non aveva bisogno di cercare qualcuno che lo ascoltasse, perché tanto non aveva niente da dire. Abbassava la serranda dopo aver dato una ripulita al pavimento ed entrava in casa, dato che il suo negozio era praticamente una stanza della sua abitazione. Mangiava in fretta qualcosa col televisore acceso, ascoltando ancora una volta i fatti degli altri, altre storie non sue, altre vite non sue. Poi passava dalla tavola al divano, spesso senza nemmeno sparecchiare. E spesso la sua giornata finiva così, addormentato sul divano col televisore acceso che continuava a raccontare episodi di vite che, comunque, non gli appartenevano. Senza mai chiedersi il perché. Senza mai voler cercare di trovare il coraggio di pensare alle sorti della propria vita. Passato, presente e futuro. Sepolti da migliaia e migliaia di altri passati, di altri presenti, di altri futuri. E così pensava in cuor suo che avrebbe potuto in fondo andare avanti così, trascinandosi il proprio essere, la propria esistenza, il proprio cadavere, fino alla ormai vicina pensione e poi alla vecchiaia, aspettando di mettere finalmente la parola fine a tanto squallore.
Ma ad ogni vita umana tenuta sotto il giogo del non-senso, anche la più miserabile e derelitta, prima o poi viene offerta una possibilità di uscire fuori. E se accetta tale sfrontata possibilità, la Vita comincia a ribellarsi e chiede il conto. E’ come un fiume in piena che sfoga il proprio impeto verso il mare. Arriva il momento che non lo si può più contenere: rompe gli argini e rovescia sui castelli di sabbia delle proprie alienazioni anni e anni di carcere forzato. La forza della vita.
Fu così che Aurelio cominciò a non ascoltare più i suoi clienti come prima. Cominciò ad accorgersi che l’interesse per quelle vite estranee alla sua stava passando in secondo piano. Sentiva salire dal suo profondo qualcosa che non aveva mai provato, che lo spingeva a guardare a se stesso, a prendere consapevolezza delle proprie aspirazioni, a guardare avanti. A permettere finalmente ad una Voce già udita in fanciullezza di tornare a galla. E a fare qualcosa.
Oggi sono passati quasi quindici anni da quando Aurelio è sparito. Improvvisamente, senza lasciare traccia. La sua serranda si è chiusa una sera apparentemente come le altre e da allora ancora non è più stata rialzata. Nessuno in paese ha mai saputo che fine avesse fatto il barbiere. Qualcuno dice che sia morto malamente, a causa di alcuni non ben precisati traffici loschi che aveva (sic). Qualcuno dice di averlo visto fare il barbone a Milano, forse perché era diventato matto. Tutte ipotesi e impressioni.
Ma un suo affezionato cliente, giura di averlo riconosciuto dietro la grata di un confessionale durante la visita di un noto convento di cui è prudente non fare menzione. E che, durante l’accusa dei peccati, gli è parso di cogliere da parte del misterioso confessore un silenzio particolarmente famigliare, rotto ogni tanto da secchi rumori metallici, come colpi di forbici. Forse sono solo fantasie e dove sia finito Aurelio, forse solo Dio lo sa. E magari, forse, è proprio il caso di dirlo!
Una vita n po’ assurda, dedicata agli altri… poi il colpo di scena finale….
Spesso diamo tutto per scontato … Ma nella vita nulla è tale.
Finale molto inaspettato ma non del tutto……………………………..
Personaggio molto strano e difficile da trovare ai nostri giorni. Ricorda alcune figure emblematiche dei paesini della campagna padana e non solo di una volta……………..
Racconto fresco, non scontato.Descrive brevemente e con parole semplici l’evolversi di un’esistenza.Una parabola sul come si possa passare dalla banalità alla sublimazione.Complimenti.