Premio Racconti nella Rete 2011 “Inaspettati rimpianti” di Andrea Chittò
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Tornare a casa. Se ancora così si può dire, dopo vent’anni. Vent’anni intensi, spesi per raggiungere l’unico obiettivo della propria esistenza, quello per cui credi di essere nato: il successo. Ha progettato torri e grattacieli più di quanti capelli ha in testa, il noto ingegnere. Sfidando ogni volta le leggi della fisica, trovando soluzioni impossibili, collaudando sempre materiali nuovi. E calcolando sempre tutto. Vent’anni di calcoli.
E’ inevitabile: vent’anni così ti segnano profondamente. E così, facilmente si dimentica la terra da dove sei venuto. Il successo appiattisce i sentimenti e li rende inutili fardelli da tirarsi addietro, insieme alla propria anima. Pericolosi ostacoli, i primi da superare se si vuole iniziare la scalata.
E chissà per quale motivo l’ingegnere in questo giorno apparentemente tranquillo sta nervosamente tamburellando con le dita sul volante della sua Porsche, mentre guida sulla statale che da Milano porta alla bassa, verso il Po. Verso la terra delle sue origini. Tornare a casa, alla propria terra. Ma che idea! Ma poi, qual è ormai la sua terra? L’ingegnere si sente ormai cittadino del mondo, sente di avere ormai da tempo superato questo legame, che sa tanto di provinciale! Stati Uniti, Asia, Brasile: questa ora è la sua terra. L’intero globo è la sua terra.
E’ maggio. Di quelle giornate calde, col sole che picchia sulla testa come un martello. La statale sembra sciogliersi sotto questo sole cattivo. Sole che offende. L’ingegnere sta già pensando a come sarà il caldo quando arriveranno luglio e agosto. Se in maggio, alle due del pomeriggio, ci sono già 31 gradi, andando avanti di questo passo, si potranno raggiungere senza difficoltà i 36-37. Ancora calcoli. E stime, e previsioni. Questa, ormai è la sua vita. Ma poi, chissenefrega! Chissà dove sarà a quell’epoca l’ingegnere. Sicuramente in vacanza, da qualche parte del mondo. Chissà dove. Certamente non qui, nella bassa, a respirare l’aria umida che ristagna per troppi giorni tra i campi di mais, così da diventare irrespirabile perfino di notte. Troppi anni ha respirato quest’aria, sognando un giorno di scappare via. E così, sognatore incompreso, un giorno ha dato un taglio a tutto ed ha cambiato aria. Letteralmente. Definitivamente.
Gli ultimi kilometri prima di arrivare al paese. Prima di rivedere la vecchia madre, dopo vent’anni di telefonate ogni tanto: Natale, compleanno e poche altre ancora. Prima di tornare al piccolo cimitero sulla tomba del padre, morto troppo presto. L’ingegnere ricorda e riscopre. La morte gli fa paura perché sfugge ad ogni calcolo, anche al più sofisticato. Con la morte i conti non tornano, perché sa che anche a lui un giorno toccherà di morire, all’ingegnere, così come all’ultimo dei derelitti della terra, come a suo padre tanti anni fa. Forse fu proprio quel padre strappatogli a dieci anni il motore che, girando al massimo, lo ha portato rapidamente al successo. Motore che si nutre di un potente combustibile: la rabbia.
L’ultima curva prima di imboccare il ponte sul fiume che porta al paese. Il paese è stretto come in un pugno dal corso del fiume. Ne è sempre stato come soffocato, al punto da mandare le sue case fin contro l’argine e oltre. Persino sulla sponda opposta. All’ingegnere sembra di rivederlo dall’alto, come quella volta da quel piccolo traballante bimotore, col suo cuore di bambino in gola, un po’ per la paura, un po’ per l’emozione.
L’automobile sale sul ponte e rallenta. L’ingegnere guarda in basso verso il fiume, distrattamente. Ma il colore marrone dell’acqua gli fa scattare una molla nel cervello, arrugginita da troppi anni di fermo ma ancora in forte tensione. Come una scossa elettrica che gli sale lungo la schiena, lo spettacolo antico del fiume in piena. L’ingegnere stupisce, più per l’emozione provata che per la scena che ha davanti. Automaticamente, riaffiorano nell’anima dolcissime sensazioni. Come quando d’estate da bambino la mamma lo portava al fiume sulle sabbie grigie a prendere il sole, che faceva bene alle ossa. O quando ragazzino costruiva con gli amici piccole casette tra i rami dei salici, segreto ritrovo dove mangiare di nascosto il pane biscottato e qualche fetta di salame rubato in casa. E quando i pedali della bicicletta reggevano a fatica l’impeto delle sue gambe veloci, solo per arrivare primo a pescare nel punto migliore.
L’ingegnere scuote la testa, fingendosi seccato con se stesso per quel momento di nostalgia concessosi. Con decisione, comincia a svoltare a destra per entrare in paese, dove già le prime case lo attendono. E invece, quasi involontariamente, raddrizza il volante e prosegue dritto per l’argine.
L’ingegnere non capisce cosa stia facendo. Sente di perdere il controllo di se stesso, come se la sua volontà abbia improvvisamente deciso di abbandonarsi ai segreti desideri dell’anima. Sconosciuti, eppure intimamente suoi.
Intanto, sotto di lui, il fiume gonfio scorre in silenzio e continua a dare il suo richiamo. L’automobile prosegue lentamente fino alla vecchia cava. Da ormai molti anni non c’è più attività e i rottami delle strutture per l’escavazione sembrano fantasmi che escono dal passato, dalla sua memoria. Si ferma, spegne il motore e scende dall’automobile. Il verso di un cuculo, lontano come il tempo che ha lasciato, rompe il silenzio del caldo pomeriggio. Mentre ancora si sta chiedendo cosa sia venuto a fare in questo posto ormai per lui così remoto, si toglie la giacca guardandosi attorno fingendo indifferenza. Respiro a pieni polmoni. Odore di erbe selvatiche, di erbaccia. Improvviso e indimenticabile, fiuta l’odore che cercava: l’odore del fiume. E’ contento che il fiume ha conservato il suo odore, così impercettibile e sfuggente. Roba da esperti. Ora l’ingegnere inspira profondamente annusando l’aria, come a voler fare entrare il vecchio odore nel suo sangue, nel cervello, in ogni cellula del suo corpo, nel profondo del suo essere. Chi ero? Cosa sono diventato? Ma poi io, chi sono in realtà?
Scende dall’argine e si avvicina all’acqua. Il fiume scorre impressionante davanti a lui. Chiude gli occhi e gli sembra che la sua vita gli si scorrendo davanti insieme alla corrente, portandogli nel cuore un passato che finalmente torna a farsi realtà. I grandi gli dicevano che il fiume non fa rumore, ma lui no, lui l’ha sempre sentito il rumore dell’acqua che scorre. Ora, prova ancora a trattenere il suo respiro come faceva da bambino, per sentire quello del fiume. E, come allora, ode il respiro del fiume. Ed è contento di sentirlo ancora. L’ingegnere perde una lacrima.
Pieno di curiosità, spegne il cellulare, si slaccia i primi bottoni della camicia e comincia a camminare lentamente lungo la riva, seguendo un sentiero appena tracciato in mezzo all’erba. Le sue scarpe di coccodrillo si muovono impacciate tra la vegetazione rigogliosa. Vorrebbe perdersi per un solo giorno nella sua terra che dopo tanto tempo, ancora lo ha accolto generosa. Cammina pensieroso, e gli sembra impossibile credere che è da lì che viene, da questo luogo sospeso tra i campi e il fiume. Da questa terra di nebbie che d’inverno salgono dall’acqua, scavalcano l’argine e invadono la campagna coltivata, così che il confine tra terra ed acqua si confonde e alla gente viene voglia di chiudersi in casa davanti al fuoco aspettando che finiscano le giornate. Chissà se ancora oggi questa gente è così.
D’improvviso, una figura appare sulla riva tra i cespugli. Un vecchio pescatore tira la sua bilancia, frugando tra l’acqua torbida nella speranza di intrappolare qualche pesce. L’ingegnere lo raggiunge e, in silenzio, si ferma dietro di lui. Il vecchio dapprima ignora la sua presenza, poi, dopo qualche istante passato immobile, si volta a guardare il visitatore. L’ingegnere fissa quel viso segnato dagli anni, quel naso aguzzo ma gentile e quei capelli crespi ma ancora neri. Luigi. Era un uomo del fiume, di quelle anime ruvide ma buone, perennemente divise tra il fiume, i bicchieri del bar e una famiglia malsopportata. Come lui ce n’erano tanti in paese. Forse è rimasto solo lui.
Il vecchio scruta l’ingegnere senza parlare ma non riconosce il volto forestiero. “Sono le piene di maggio! E’ la neve che scioglie dalle montagne”. L’ingegnere accenna un sorriso amaro senza rispondere, incamminandosi lentamente verso la macchina. Non crede che ciò sia possibile. Forse purtroppo, non ci ha mai creduto.
Interessante, mi ricorda i racconti allegorici di Buzzati… Mi è piaciuto
Bello! Autobiografico su molti aspetti
Lettura che rilassa e lascia immaginare paesaggi particolari. Mi ricorda alcuni racconti d Baricco, lenti ma piacevoli, quasi come essere davanti ad un quadro. Complimenti.
una descrizione bellissima ma soprattutto delle parole che sapevano esattamente di cosa stavano parlando
sono davvero colpito
complimenti.
Bravo ! Racconto piacevole. In grado di muovere sensazioni.Ad un tratto ho sentito l’odore buono del “pantano” che rimane nei polmoni di chi ha vissuto il frande fiume.