Racconti nella Rete 2009 “L’angelo del manicomio” di Celeste Montalto
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009<si accomodi signor Donovan>.disse il dottore. <che ci faccio qui??sono le sette del mattino,e lei,lei è uno strizza cervelli> <si Micah,sono uno psicologo> e Micah < e lei come fa a sapere il mio nome?> <ho la tua cartella clinica;ma sono io che faccio le domande adesso>. <ok> disse Micah, <allora Micah Donovan,perché…sei qui??> <allora…
Ero un uomo di ventisei anni,single,e avevo un lavoro;facevo il controllore in un manicomio,in un lurido e sporco manicomio,e ogni giorno controllavo,anzi,mi accertavo che tutti quei poveri pazzi stessero bene,ma andiamo!chi ha mai visto dei malati di mente,puzzolenti,scordati da tutti,che stanno bene??e intanto,io dovevo accertarmi che fossero “contenti” o che perlomeno dessero segni di vita…ma di quale vita?di quella che i loro cari hanno rinnegato e dimenticato sbattendoli in manicomio?io passavo per quegli umidi corridoi,tre,quattro,e spesso anche cinque volte e possedevo tutte le chiavi delle celle;questo era il mio lavoro…lavoravo li da ormai due anni,e a furia di vedere tutti i giorni,tutte le settimane e tutti i mesi le stesse facce,presi a cuore alcune di quelle persone,che li,solo io chiamavo così.Ogni giorno,finito il mio orario di lavoro tornavo a casa a piedi,dopo dieci minuti ero davanti al portone del palazzo in cui abitavo,e dopo aver fatto due piani,sempre a piedi,infilavo la chiave nella mia porta ed entravo. Ricordo ancora quell’odore di muffa che mi entrava nel naso non appena aprivo quella maledetta porta scricchiolante. Entravo,e ogni sera la stessa immagine;calzini sporchi su tutti i mobili,televisione accesa,e la porta che dava sul balcone aperta,cosi che quegli stupidi gattacci potevano entrare,bucare il divano e mangiare quel che c’era sul tavolo. Cosi entravo,chiudevo la porta del balcone e aprivo il frigo,sempre se quella scatola bianca che non produceva freddo,con la luce interna che andava e veniva,si poteva chiamare frigo.Facendo quella vita mi sentivo inutile,non vivevo certo meglio di quei poveri pazzi che controllavo. Ero stimato e ben voluto dai miei colleghi,che mi chiedevano sempre come potessi fare cinque volte il giro del manicomio per controllare quegli “esseri” come li definivano loro. E intanto io avevo preso a cuore la situazione di alcuni malati… spesso se mi rimaneva tempo,facevo visita ad alcuni di loro;c’era Hale,un ragazzo malato di mente sin dalla nascita;i suoi genitori non lo vollero tenere appena seppero che non era normale,mi raccontava. Diceva che avevano provato a farlo adottare,ma niente. Cosi lo rinchiusero nel “posto giusto” mi disse. Il manicomio. Non sono più venuti a far visita a loro figlio… Poi c’era il vecchio Sean Parkman,lo conoscevo da prima che entrasse in quel manicomio;era un gran simpaticone prima che decidesse di non parlare più e che impazzisse… Un “si” detto nel momento sbagliato può cambiare la vita;lui non voleva,non voleva che quel giorno proprio quel giorno,sua moglie e le sue figlie salissero sull’aereo;ma acconsentì. Questo mi fu raccontato dal fratello di Sean,che viveva con loro. Un’altra era Nicole Sanders,non so per quale motivo ma le tremavano sempre le mani,non si fermavano mai;non sopportavo quei movimenti continui e instancabili,mi irritava a tal punto che trasformai quel senso di fastidio in pena. Ma quello che mi è rimasto più impresso è Joe;i miei colleghi,ironicamente lo chiamavano Mr.Shock,perché aveva degli scatti improvvisi,da che stava bene,tranquillo,a che incominciava a urlare,sbatteva la testa contro le sbarre,cercava di uccidersi con qualunque cosa;ecco perché stava sempre con quella specie di maglietta bianca con le maniche molto più lunghe che gli giravano sulla pancia,bloccandogli ogni movimento. Stava sempre seduto in un angolo col mento al petto,in silenzio,e quando aveva qualche attacco poteva urlare soltanto… Così una sera,dopo aver finito il mio orario di lavoro,mi avviai verso casa;ma mentre,nel buio della notte,camminavo sul marciapiedi immerso nei miei pensieri,mi colpì una scena. Vidi un topolino ferito a terra,si dimenava ma non riusciva ad alzarsi, “voleva” ma “non poteva”, un po’ come quei poveracci al manicomio. Rimasi a guardarlo fisso da lontano,quando vidi arrivare di soppiatto un gatto bianco,che dopo aver studiato la situazione,fece un balzo,azzannò il topo e scappò via… Io rimasi affascinato da come il gatto aveva messo fine alle sofferenze di quel topo,cioè nel modo più rapido. A quel punto dopo aver assistito alla scena mi sedetti sul gradino tra il marciapiedi e la strada,alzai la testa al cielo privo di stelle e pensai che non potevo più veder soffrire quei matti,io li avrei portati alla pace eterna;non avrebbero più sofferto… Così una notte,andati via tutti,ogni dottore e quei pochi signori delle pulizie,iniziai ciò che avrei dovuto fare subito,due anni prima. C’era un silenzio di tomba;potrebbe avere un altro nome questo luogo? Si sentivano solo i miei passi decisi,rimbombare in tutto il corridoio di un colore assai poco vivace e sporco,dalle pareti grigie e piene di spaccature dovute all’umidità e alla vecchiaia dell’edificio. La luce andava e veniva,era di un colore giallastro spento,e faceva quell’insopportabile ronzio di una lampadina che sta per fulminarsi. Sapevo a memoria dove fossero tutte le celle a cui mi ero interessato;avevo fatto talmente tante volte quel corridoio che lo conoscevo meglio delle mie tasche perdipiù bucate. Avanzavo sicuro,fiero di quel che stavo per fare… la prima persona a cui avrei fatto rivedere la “luce della felicità” era il signor Parkman,caro amico da sempre. Prima di tutto mi diressi all’obitorio,mi serviva qualcosa di tagliente,delle…forbici! Grazie a me e a quelle argentee lame affilate Sean avrebbe smesso di soffrire.Così arrivai alla sua cella,la ventuno,il numero non si vedeva quasi più,impolverato e sbiadito dal tempo. Infilai la chiave ed entrai,lui si svegliò e mi guardò;non so perché ma dai suoi occhi azzurri,lucidi e stanchi ormai,si percepiva un terrore,un terrore che veniva dall’anima,non me lo sarei mai aspettato. Mi spiazzò e mi confuse per un attimo. Solo un attimo. Non poteva urlare,non voleva urlare! Avanzai freddamente e guardandolo negli occhi lo uccisi;poi con le forbici insanguinate ,dopo avergli aperto la bocca,gli tagliai la lingua. Adesso non avrebbe “non voluto” parlare,ma non avrebbe potuto farlo nemmeno nell’aldilà. Beato lui,adesso si che era libero e felice. Ero davvero sereno,appagato e soddisfatto per ciò che avevo fatto;avevo forse ridato al vecchio Sean,la vita;magari più felice di quella che aveva vissuto fin ora… non tentai di nascondere il cadavere,anzi,volevo che tutti vedessero come era sereno ora quell’uomo. Il giorno seguente quando arrivai a lavoro,vidi una gran folla davanti la cella ventuno;cosi mi avvicinai anch’io,con le mani in tasca,sereno e con lo sguardo innocente, perché andiamo dottore! Non ero stato certo io ad averlo ucciso,ma la vita stessa gli aveva teso un’imboscata,il destino gli aveva tolto moglie e figlie,e lo aveva ucciso dentro. Quindi,io,sono solo il suo angelo. C’era gente che urlava,gente dispiaciuta,e sguardi freddi;forse di quelli che la pensavano come me;quando tutto tornò alla normalità,i dottori passavano con le loro cartelline in mano,e i signori delle pulizie ripresero a far finta di spazzare,scelsi la prossima persona a cui avrei ridato la vita. Cella novantanove,Hale Bennet. Cosi quella notte tornai al manicomio per mettere fine al dolore del giovane…faceva davvero freddo quella notte,non solo fuori ma anche dentro a quel lurido manicomio;non c’erano nemmeno i soldi per il riscaldamento. Prima passai dal magazzino,e presi una grossa motosega rossa.Poi mi diressi verso la sua cella e aprii;il giovane dormiva,mi faceva tanta tenerezza che neanche lo svegliai,volevo ucciderlo subito. Mi dispiaceva solo che non avrebbe visto il suo angelo custode. Ma sono sicuro che lui lo sa. Lo sa. Cosi,senza pensarci su,accesi la motosega e orizzontalmente gli tagliai la testa. Parte del sangue mi schizzò in faccia e con la manica della giacca mi pulii. Posai la motosega al suo posto e me ne andai. Finalmente lo avevo liberato da quel cervello mal funzionante. L’indomani la stessa cosa,tutti a guardare il cadavere. Quella era la notte di Nicole,volevo ucciderla e tagliarle le mani,ma non fu possibile. A mia insaputa lasciarono delle guardie notturne,all’interno dell’edificio,e cosi,quella notte mi beccarono;e adesso eccomi qua, in questo sporco manicomio,ma non da controllore bensì da detenuto. Adesso anche Micah Donovan vuole fare la stessa fine delle sue vittime,si anche io voglio morire. COME LORO.