Premio Racconti nella Rete 2011 “In cielo, in mare e sulla terra” di Enrico Valdes
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011 In cielo, in mare e sulla terra.
23 settembre 2009.
Ieri la pioggia ha lavato via l’estate. Oggi è il primo giorno d’autunno, luminoso e dolce.
I bagnanti sono fuggiti, lasciando la spiaggia deserta e silenziosa. E’ scomparso d’incanto il brusio della stagione calda, gli ombrelloni hanno chiuso le proprie corolle, ma il mare scintilla ancora d’azzurro e di luce.
Ogni spazio nel cielo e nell’aria, sopra questo arenile, viene occupato da lievi libellule che sciamano senza meta apparente. Hanno colori metallici, verdi, rossi e gialli ed ali traslucide che vibrano e le trascinano o verso il mare o verso la terra. I loro occhi sono grandi, come sfere di cristallo dove leggere il mondo. Le loro zampette chitinose trasmettono una sensazione di fastidio: sono insetti graziosi finché non si avvicinano, ma diventano sgradevoli se diminuisce la loro distanza.
La brezza le porta in alto. Dove andranno nella loro breve vita?
Una cornacchia, dalla cima di un’araucaria, si slancia su di esse e ne afferra una con il becco. Non posso vedere la fine dell’insetto, immagino qualcosa di sgradevole, un crac, un soffio di vita svanito e il piccolo animale che si trasmuta in energia e proteine per il nero volatile.
Forse è racchiuso in questo attimo il senso del girare dell’universo: la trasformazione da un’esistenza all’altra, in un secondo, in un ciclo vitale inarrestabile, un cerchio che rotola, divora e trasforma. Noi uomini, in quale punto del cerchio ci troviamo? Mi chiedo se ogni cosa, ogni essere sulla terra sia stato creato per noi. O forse questa è una nostra presunzione, una nostra immagine distorta del creato, un inganno della nostra intelligenza.
Sono le dieci del mattino e per allontanare questi pensieri autunnali entro in mare, indossando una maschera. Sento il desiderio del vasto mondo dell’acqua. Desidero che mi avvolga e mi inglobi, con la sua densità fluida.
I raggi obliqui del sole creano una maglia dorata di riflessi sul fondo sabbioso, una rete mobile e mai uguale.
‘’Papà non vedo nulla nel mare ’’ mi diceva mia figlia quando, da piccola, veniva con me a fare il bagno con la sua maschera .
‘’No. Guarda bene – le rispondevo – stai attenta a quello che ti indico.’’
Se oggi fosse stata con me avrebbe visto nuvole di piccoli pesci, dal corpo quasi trasparente e con tondi occhi di carbone. Li osservo muoversi in gruppo, mantenendosi stretti, allontanando così la solitudine dell’immenso mare. Riesco ad accostarmi ad essi e quando, d’improvviso, avvicino una mia mano alla loro massa, essi in sincronia si allontanano rapidi, a destra e a sinistra, per poi ricongiungersi più distanti. Se con la mano sono rapido riesco a sentire il contatto fuggevole dei loro corpi, che rimbalzano via da me, terrorizzati.
Un branco di muggini, come un fiume dai colori dell’argento, mi avvolge, mantenendo però la distanza di sicurezza. Per essi io sono il pericolo da evitare, o almeno da osservare prudentemente da lontano. Questi pesci, nello sfuggire ai predatori, saltano fuori dall’acqua, increspandone la superficie.
‘’State attenti ai gabbiani, che arrivano dal cielo ’’ vorrei dir loro, o anche ‘’Attenzione agli esseri umani: vi appaiono lenti ed innocui, come lo sono io in questo momento. Loro non hanno artigli, non hanno denti affilati, ma possono essere armati di arpioni e fiocine più letali del morso di uno squalo e lanceranno in mare reti per catturarvi e soffocarvi.’’
Il fondo sabbioso del mare mostra piccole dune, create dal movimento delle onde, e tra esse osservo migliaia di piccoli segni lasciati da mormore, che scavano col muso alla ricerca continua di molluschi. Qualche timido granchio è pronto a nascondersi sotto la superficie della sabbia. Scorgo grigie stelle di mare che si muovono lente, trasportate dalle decine dei loro minuscoli pedicelli; cannolicchi diffidenti si retraggono repentinamente al mio passaggio.
Nel mio procedere senza fretta, passo nuotando sopra una tracina, mimetizzata sul fondo. Sto sempre attento ad evitare questo pericoloso abitante marino ed appena ne scorgo un esemplare devio dal mio percorso. Troppi i racconti di chi è stato ferito dalle nere spine velenose di questi pesci. Mi sento indifeso davanti a questo minuscolo animale; quello che vedo peserà al massimo duecento grammi, ma esso è nel suo ambiente ed io, un umano, sarei più forte solo con le armi e gli strumenti costruiti dalla nostra intelligenza.
Torno sulla spiaggia e mi distendo sopra un telo. Dopo la fatica del nuoto, il benessere mi pervade, mentre il sole caldo e la brezza asciugano la mia pelle salmastra.
A casa, seduto sotto una tenda, leggo un giornale e giro lo sguardo attorno. C’è calma.
Tre gatti si avvicinano e si strusciano sulle mie gambe, miagolando. Sono animali tenerissimi, pronti a farsi accarezzare; neanche la mia nipotina di due anni ne ha timore, anzi sono loro a scappare davanti alle sue continue attenzioni.
Le cornacchie emettono un verso profondo che riempie l’aria. Il loro gracchiare mi fa pensare ad un mondo primordiale, quando l’uomo ancora non era comparso sulla Terra, allora popolata da creature libere in una natura vergine.
Una micia, la mia preferita, dal pelo bianco e grigio, si distende, morbida e sinuosa, sotto un cespuglio di cisto, cresciuto rigoglioso sotto un’acacia spinosa. La vedo alzarsi lentamente, e poi immobilizzarsi, come se avesse preso di mira qualcosa: sarà un insetto, una piccola lucertola. E’ attenta invece ai movimenti di una cornacchia, attratta dai resti del suo pasto ed ignara dell’agguato pronto a scattare.
Tutto avviene in un attimo: la cornacchia si abbassa a terra ed allunga il becco, la gatta fulminea le è sopra e l’azzanna. L’afferra. Estraendo gli artigli la soffoca. Altre cornacchie accorrono al verso disperato della compagna e tentano di difenderla. Cercano strenuamente di strapparla alla violenza del felino. Si avvicinano, volano in cerchio per beccare la gatta, ma lei resiste e si fa scudo con il corpo della sua preda, trascinandola sotto il cespuglio di cisto.
L’uccello caduto in trappola in pochi minuti muore. Le cornacchie volano via.
Lo spettacolo di violenza non è ancora terminato. Con gli artigli la dolce mia gatta squarcia l’addome della sua preda, si ciba del suo fegato, ne lacera il diaframma e ne strappa il cuore. Poi lascia il cadavere svuotato e, leccandosi il muso e le zampine, si allontana indifferente, forse soddisfatta: non conosce né il bene né il male.
Appoggio il giornale sul tavolo, mi alzo in piedi e con una pala raccolgo le penne insanguinate, il becco e gli artigli e li depongo in un sacchetto per i rifiuti organici.
Riecheggia per tutto il racconto sia il divenire ed il trasformarsi delle cose che l’eterna lotta per la sopravvivenza e pur con la cruda descrizione finale il testo riesce comunque a trasmetterci l’essenza della natura che è così come si presenta, senza quelle sovrastrutture mentali che sono appannaggio di una parte di suoi rappresentanti. Essenziale ed imparziale.