Premio Racconti nella Rete 2011 “Post Hollywood” di Giovanni Fiorina
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011In mezzo al mare, guido la mia macchina.
Il cielo azzurro d’estate, la brezza leggera che mi rinfresca il viso, i Sublime ad alto volume nelle orecchie.
Poi, un semaforo rosso in lontananza.
Non c’è nient’altro, solo questo palo giallo tra le onde con la sua luce rossa in testa.
Decido di non fermarmi, ma più mi avvicino e più il motore rallenta senza che io lo voglia.
E più rallento, più la mia macchina fatica a superare le onde, il mare che d’improvviso si è fatto più grosso, la brezza diventata vento.
Ormai sono a qualche centinaio di metri dal semaforo, quando l’acqua incomincia a coprire il cofano, il motore sempre più debole.
Sto fissando quel maledetto semaforo in attesa che diventi verde – sono sicuro che tra pochissimo diventerà verde -, quando sento l’acqua bagnarmi i piedi nudi.
Abbasso lo sguardo sulla pedaliera, e capisco che non c’è più niente da fare, il livello che cresce a una velocità spaventosa.
È quando non sento più il motore – il muso della macchina già coperto dal mare, l’acqua che inizia a entrare dal finestrino come una cascata, il terrore che mi prende lo stomaco – che so di morire.
Apro gli occhi, rimanendo immobile sotto il piumone.
Nel buio della stanza, sento il panico diventare pura felicità quando capisco che sono ancora vivo. Lascio la mia coscienza tornare padrona, riordinare tempi e luoghi, ricordarmi che è sabato mattina, che sono a casa di Elena, che ieri è stata la sera della prima.
No, non ho niente da fare. Chiudo gli occhi per riaddormentarmi, ma quei pochi pensieri apparsi nella testa hanno ormai fatto scappare il sonno come un animale selvatico impossibile da riprendere.
Fisso il soffitto e mi ascolto: il corpo che si attiva, piano, il respiro lungo e silenzioso, il dolore all’anca che batte a ondate regolari. Non ho mal di testa. Strano, con tutto quello che mi sono bevuto ieri. Un po’ di sete, forse, ma mal di testa no.
Elena è sdraiata accanto a me, di pancia, la faccia girata dall’altra parte coperta dai capelli castani, un braccio che mi cerca tra le lenzuola, le spalle nude che si muovono seguendo il respiro.
Mi giro piano verso il comodino, in cerca di una bottiglia d’acqua che non c’è, e nel buio leggo dei numeri rossi: 8.47. Non può essere: ho dormito cinque ore scarse.
Mi alzo per andare in bagno, il caldo del tappeto sotto i miei piedi. Ormai non riesco più a dormire a comando. Fino a tre o quattro anni fa, in una mattina senza impegni, non c’erano rischi di vedermi prima dell’una, riposato e spaesato. Ora le nove sono già un successo. Elena, invece, riesce a dormire dodici ore filate senza problemi, ricordandosi tutti i sogni che ha fatto.
Una volta in bagno, rimango qualche secondo a fissare il pavimento, la schiena contro la porta, il tempo di abituarmi alla luce che entra dalla finestra riflettendosi sulle piastrelle bianche. Mi sembra di essere dentro una pellicola, la camera il negativo, il bagno il positivo.
Con un braccio ancora a coprirmi il viso, bevo un po’ d’acqua dal rubinetto, quindi decido di svegliarmi del tutto. Mi sciacquo la faccia, veloce, poi mi metto di fronte alla finestra, le gocce d’acqua che mi scivolano sulla barba.
Un monocolore bianco sporco scende dal cielo debole sui palazzi, appiattendo tutto. C’è un periodo di qualche settimana – all’incirca dalla metà di gennaio fin dopo la metà di febbraio -, in cui Milano diventa il suo luogo comune. Succede dopo che hanno tolto le luci di Natale, lasciando gli scheletri degli alberi spogli e il grigio del cemento ben in vista. Quando i colori della primavera sono ancora un ricordo dell’anno precedente, e il fumo che esce dai camini è l’unico movimento visibile, mentre il rosso delle gru di fronte casa è la sola variazione di un paesaggio per il resto prevedibile, senza pioggia né vento. Bruttezza immobile, ecco cos’è Milano in questo periodo dell’anno.
Mi guardo allo specchio e l’immagine che appare mi sembra una perfetta continuazione di quanto c’è fuori dalla finestra. Osservo le rughe sotto gli occhi, ben marcate, così come la stempiata difficile da nascondere, e intanto cerco di farmi venire in mente chi ha scritto che trentadue anni è l’età del gesso, dove si cristallizzano carattere e abitudini. Mentre con una mano controllo eventuali nuovi peli sulla schiena e con l’altra tocco la pancia che ormai controllo a fatica – tutti cambiamenti che so essere definitivi, così come il dolore all’anca nelle mattine d’inverno – dico a questo senza nome che si è scordato di scrivere del corpo: di come, invece, a trentadue anni questo inizi a cambiare, e non in meglio.
Anche le pisciate: una volta la mattina il mio getto era forte, uniforme, deciso. Ora è sempre di un certo spessore, ma anche adesso che mi sto svuotando la vescica per la prima volta nella giornata, sento questo piccolo cambiamento d’intensità a cui non riesco proprio ad abituarmi.
Ho sempre considerato il mio corpo come un tutt’uno con me stesso, un qualcosa che si conosce a fondo e di cui ci si può fidare. Ora, però, il sentirlo cambiare mi mette a disagio come un imprevisto, come se quella parte di me che avevo per molti anni quasi dimenticato facesse sentire la sua presenza attraverso il cambiamento, mettendo così in disordine anche il resto.
Sparsi sul lavandino, osservo i prodotti di bellezza di Elena, lo slogan libera di essere te stessa sulla scatola della crema per il viso. Mi sto per mettere un po’ di crema sotto gli occhi mentre penso che io vorrei essere libero di tornare a essere me stesso, quando decido che prima è meglio farsi una doccia.
Io adoro, farmi la doccia. Le idee migliori mi sono sempre venute dopo essere rimasto a lungo sotto un getto d’acqua calda, in piedi dentro l’accappatoio di fronte allo specchio, la mente libera, un asciugamano sui capelli come un pugile prima di un incontro. Anche Olmo mi è venuto in mente così. E ora che quell’idea è diventata il mio primo film, proiettato per la prima volta a un pubblico ieri sera e commentato tra un white russian e l’altro con qualche sconosciuto e addirittura un paio di giornalisti alla cena offerta dalla casa di produzione – io che rispondevo a tutti sentendomi Dio -, mi sembra tutto così irreale.
Mentre decido se farmi la doccia o addirittura un bagno – ma ho paura di addormentarmi nella vasca -, mi vengono in mente altre immagini della sera prima, alcuni di questi sconosciuti che continuano a ripetermi Dobbiamo lavorare insieme, chiamami; io e Elena che balliamo ubriachi insieme agli attori, un cerchio che salta in mezzo al locale; l’emozione dell’applauso alla fine della proiezione, con Elena che mi dice Alzati, e io che prima non voglio, ma poi mi alzo in piedi, timido, e allora l’applauso cresce, io che saluto per ringraziare e sento una felicità che non credevo possibile; il mio produttore che mi chiama alle tre del mattino per leggermi la recensione sul Corriere della Sera, dieci righe dove si parla di me come di un regista esordiente dal talento leggero e dal futuro sicuro; la voglia di Elena una volta tornati in camera, la sua mano tra i miei capelli mentre la bacio dappertutto, il Ti amo alcolico sussurrato piano da entrambi, prima di addormentarsi abbracciati: è stato tutto perfetto.
E allora perché questa mattina, come ogni altra volta che nella mia vita ho raggiunto ciò che più desideravo, mi sento come una lattina che rotola vuota lungo la strada? Mi spettino i capelli e mi siedo sul bordo della vasca, fissando la mia immagine nello specchio, lo sconosciuto di fronte a me che continua a ripetere E adesso cosa faccio? senza che io riesca a trovargli una risposta.
Soprattutto, mi rendo conto mentre mi spoglio ed entro nella doccia, ciò che più mi manca è il mio film. Lo stare da solo con il mio film, con le sue scene, con i suoi personaggi. Il riscrivere e riprovare ogni singola battuta nella mia mente, rigirare con luci o colori diversi ogni singolo frame, smontare e rimontare di continuo scene e sequenze. Impararlo a memoria in ogni sua parte fino a non trovare più neanche il più piccolo errore.
Ci ho messo due anni e mezzo, per farlo, e mentre cerco la temperatura giusta dell’acqua – una mano sul miscelatore e l’altra sotto gli schizzi -, ripenso a quanto è stato difficile riuscirci, e mi sembra impossibile averlo fatto veramente.
Ora che so davvero cosa significhi girare un film, il solo pensiero di dover ricominciare tutto dall’inizio mi sembra spaventoso. Il trovare un’idea che possa resistere al momento in cui ci ripensi il giorno dopo, a mente fredda, quando la maggior parte di ciò che hai pensato ti sembra giustamente una stronzata. Provare a farla crescere, quell’idea, cercando collegamenti dappertutto, abortendo sviluppi su sviluppi, fino a farla diventare un soggetto di una pagina, un riassunto dove sai che ogni singola parola nasconde un mondo che devi ancora creare.
Crearli, questi mondi, personaggi e situazioni che devono unirsi tra di loro per far crescere quel neonato spunto iniziale in quel ragazzo che è la sceneggiatura. Limare, cambiare, riscrivere. Ripetersi a ogni momento cosa vuoi dire, sviluppare intrecci e contrasti, iniziare a immaginarti le facce dei tuoi fantasmi.
Poi, una volta messo il punto finale, trasformarsi in venditore di un qualcosa d’intimo come te stesso, cercare i contatti giusti, coltivare rapporti con persone che non ti piacciono, scendere a compromessi tagliando e rivedendo per rimanere nel budget ottenuto. Perché dopo mesi, e non sai nemmeno tu bene come, l’hai ottenuto, un budget. E allora sulla carta è tutto perfetto, ogni cosa al suo posto, un castello costruito mattone su mattone solo con le tue mani.
Ma quando pensi che ormai è fatta, che basta solo girarlo, il film, tuo figlio entra nell’adolescenza e ti manda a fare in culo. Pensavi di conoscerlo, di averlo fatto crescere sano e forte per essere pronto ad affrontare il mondo, e invece lui si lascia prendere e manipolare da chiunque lo legga, e allora devi ascoltare, lavorare di squadra, concedere di avere sbagliato, ripeterti sempre cosa volevi dire, un ritornello che ormai ha perso qualsiasi colore. Arriva la realtà, insomma, che è sempre più complicata di quello che credevi. Ogni singola persona della produzione ha un’opinione su ogni singola cosa, opinione che ovviamente vuole condividere con te che sei il regista, a cominciare dal casting (l’ho odiato, ci ho messo mesi a decidere gli attori: è incredibile quanto il solo tono della voce possa stravolgere il significato di una battuta) per proseguire con la scelta degli ambienti e dei costumi, per non parlare della fotografia. Ma nessuno – dico: nessuno – che si prenda la responsabilità di una scelta, tutti che aspettano la tua decisione solo per dirti, poi, che loro non sono d’accordo, i rapporti già rovinati ancor prima di cominciare le riprese.
E comunque iniziamole, queste riprese: ovviamente dal finale perché poi cambia la stagione e quindi la luce. Smontare tuo figlio ogni giorno, una gamba attaccata al collo, il piede a contatto con il gomito. La confusione del set, tutti che ti chiedono cose già decise o da decidere (ma non potete arrangiarvi per una volta, cazzo?), tu che ti chiedi Dov’è mio figlio, in questo casino? sicuro di averlo perso. Quattro mesi così, concentrandoti solo sui particolari, sperando poi che quei particolari magicamente s’incastrino tra di loro, una fotografia strappata e poi rimessa insieme.
Infine, il montaggio. Che è un po’ come entrare in chiesa e pregare che quello che hai girato, una volta unito, funzioni. E se è anche vagamente così, allora pensare alle musiche, ai tagli, ai diversi tipi di stacco tra una scena e l’altra.
Riscopri tuo figlio cresciuto, ormai: magari non cambiato, ma cresciuto sicuramente sì, che è sempre qualcosa di strano.
Poi, all’improvviso, hai finito. Lo lasci andare per davvero, questa volta, lui in giro per il mondo e tu che non ci puoi più fare niente, all’inizio orgoglioso, va bene, ma poi di nuovo solo con la tua libertà.
Mi stanca solo il ripensare a tutto questo. Certo, ieri sera è stato fantastico. Quell’applauso, quelle domande che ti fanno capire che qualcosa è arrivato. La certezza di avere sfiorato un pezzo della tua verità, di aver comunicato per davvero. Quel sentirsi onnipotente, ma allo stesso tempo amare ogni singola persona che incontri. La forza della fine, della fine che hai progettato tu, che si è realizzata proprio come volevi tu e che ti fa sembrare tutto possibile.
E ora dov’è finita, quell’energia? L’idea di dover ricominciare tutto daccapo, di fare un altro figlio, mi sembra una montagna troppo alta da scalare.
Gli occhi chiusi sotto il getto d’acqua, mi sento dire Ma è quello che ci si aspetta da te: sei un regista, ora. Mentre cerco inutilmente di convincere la mia volontà che ho ragione, capisco perché anche i grandi ogni tanto sbaglino un film, costretti controvoglia dietro la macchina da presa dall’aver trasformato la loro passione in un lavoro.
I geni…ecco, il genio si riconosce da questo: ogni opera un capolavoro. Kubrick, per esempio: ma come ha fatto? Eclettico, preciso, divertente e profondo in ogni suo film. Da Rapina a mano armata – il primo vero film a usare i flashback nella storia del cinema – a Lolita, da Il dottor Stranamore a Arancia meccanica. E ancora: Full Metal Jacket e Orizzonti di Gloria. Anche i suoi film meno amati, come Barry Lindon o Eyes Wide Shut, per me sono capolavori assoluti, a partire dai titoli. Oppure Fellini: certo, verso il finale di carriera ammetto che era un po’ ripetitivo, ma dallo Sceicco Bianco ad Amarcord, venticinque anni di puro talento, comunque capace di altri gioiellini come Prova d’orchestra o La voce della luna.
Sto leggendo le proprietà del bagno schiuma di Elena, quando ho la certezza di non essere di quella razza. E allora perché continuare? Se non posso avere tutto, se so che non potrò mai arrivare tra i migliori, perché anche solo iniziare? Tutto a un tratto, per la prima volta da anni, la prospettiva di fare l’impiegato mi sembra la più affascinante di tutte.
Ma è solo un attimo, il rumore dell’acqua sulla testa che va a coprirmi i pensieri. Quando riappaio tra gli schizzi, il getto della doccia che mi massaggia le spalle, penso che potrei comunque essere un grande regista. Non un genio, ma un grande sì: qualcosa tipo Woody Allen o i fratelli Coen, Monicelli, anche un Salvatores, perché no? Onestissimi artigiani che hanno tirato fuori qualche perla tra una serie di lavori di ottimo livello.
Eppure…cosa succede se invece scoprissi che non sono capace? Se fossi una meteora? Un qualcuno a cui è scappato per qualche strano destino una buona storia, che è stato in grado di girare spinto dall’illusione dei suoi trent’anni che gli ha fatto credere di essere ciò che non è, ovvero un regista? Talento leggero dal futuro sicuro…ma dove? Semmai vuoto e pesante, ecco come mi sento ora.
E un imbroglione, invece, è ciò che sono stato ieri sera.
Esco dalla doccia avvolgendomi nel mio accappatoio bianco e morbido. Decido di andare a fare colazione e poi di svegliare Elena. Apro la porta del bagno il meno possibile per non fare entrare la luce, poi al buio recupero i miei vestiti sparsi in giro per la stanza. Elena si è girata sulla schiena, continua a dire Ti ho detto basta! come lo si direbbe a un bambino, finta arrabbiata, la faccia seria con gli occhi chiusi che mi fa ridere.
Torno in bagno dopo aver recuperato una calza persa per strada, indosso dei boxer puliti e mi tolgo l’accappatoio, rimanendo a torso nudo davanti allo specchio ancora appannato dal vapore della doccia. Prendo un asciugamano e pulisco un po’ il vetro, dopo essermi spazzolato i capelli che rimangono spettinati e lucidi. Mi lavo i denti, a lungo, massaggiando le gengive come mi ha detto di fare il dentista. Quindi mi metto un po’ della crema di Elena sul viso, le rughe che mi sembrano essere già molto più piccole. Mi vesto velocemente, un po’ per il freddo e un po’ per la voglia di caffè che inizia a farsi sentire. Mi do un’ultima asciugata ai capelli, quindi esco di casa facendo finta di essere un ladro che non deve fare rumori.
Una volta in strada, il freddo di fine gennaio m’irrigidisce il corpo, il caldo della doccia che diventa umidità sotto i vestiti. Mentre cammino verso il bar più vicino a casa, vedo venirmi incontro una coppia di ragazze con un piccolo cane nero a guinzaglio. Quando sono a pochi metri da me, mi accorgo che una delle due è giapponese. Inizio a immaginarmi una storia tra di loro, tipo un rapporto lesbo a distanza tra Milano e Tokyo con il cane – simbolo del loro amore – che sta tre mesi con una e tre mesi con l’altra, fino a quando non si rincoglionisce per i continui cambi di fuso orario e si ammala gravemente fino a morire, provocando la rottura tra le due che si rinfacciano la colpa.
Mi preoccupo che mi vengano idee del genere dieci passi dopo, mentre aspetto di attraversare la strada, e quando il semaforo diventa verde mi chiedo ancora una volta come ha fatto a venirmi Olmo. Mistero.
Mi guardo intorno per cercare qualsiasi tipo di spunto, ma il Giambellino il sabato mattina offre solo macchine parcheggiate e qualche extracomunitario seduto sulle panchine dei giardini.
Solo il bar è pieno, il bancone impossibile da raggiungere. Decido di fare prima lo scontrino, sperando che nel frattempo qualcuno se ne vada, quando sento la signora in fila davanti a me chiedere al barista un biglietto per Bari di seconda classe. È grassa e anziana, con un cappotto blu vecchio e liso, una borsa marrone in mano. Io non l’ho mai vista prima, però si vede che qui dentro è conosciuta, perché il ragazzo le risponde Altro che Bari, tu in ospedale devi andare!, gli altri clienti che ridono mentre lei se ne va senza dire niente, seria, come se sapesse esattamente cosa deve fare.
Nel giro di un secondo trasformo la signora anziana in una ricca donna del centro di Milano, che ha appena saputo da suo marito di avere perso tutto per via della crisi finanziaria. Sconvolta, incomincia a vagare per le strade, fino a quando entra in farmacia dove chiede un biglietto per Bari di seconda classe, che è poi la prima scena del film, visto che scopriremo chi è veramente questa donna solo attraverso numerosi flashback. Già ma chi è?
Mi basta il tempo di bere un caffè e di farmi dare due cornetti da portare via, per eliminare la dolce e spaesata signora dalla mia mente.
Di nuovo in strada, mentre cammino guardandomi i piedi, valuto la possibilità di passare alla pubblicità o a qualche serie televisiva di pessimo livello sfruttando le conoscenze di ieri sera, in quella che sono sicuro essere stato il punto di arrivo della mia carriera cinematografica.
Ora devo solo dirlo a Elena e poi scomparire dalla scena, sperando che non mi lasci per il protagonista di Olmo. Lui sì, che ha talento, non come me. Però ieri sera lui provava a farla ridere e lei intanto cercava me con gli occhi.
Però ieri sera eri il regista, non come oggi, mi dice la parte saggia di me, mentre entro in casa, la voce di Elena che mi chiama da dietro la porta della camera. Le dico un Arrivo a bassa voce, poi mi tolgo il giaccone e metto i due cornetti su un piatto.
Quando apro la porta, la trovo seduta sul letto, la faccia di chi si è appena svegliata. Appena mi vede, però, mi sorride felice, di una felicità così sincera da rendere invisibile tutto ciò che le sta intorno. Allunga le braccia verso di me per farsi abbracciare, come una bambina, e mentre la bacio sulle labbra mi chiedo come fa ad avere questo sapore in bocca anche il mattino appena sveglia. Poi mi stacco e la osservo – i capelli castano chiaro, sottili, gli occhi azzurro ghiaccio, le labbra piccole e carnose, il seno…ah, il suo seno… –, e anche se siamo insieme da due anni, la sua bellezza per un attimo mi mette un po’ di soggezione, come se fosse qualcosa che va oltre lei e me.
Senza dire niente, prende il cornetto al cioccolato e incomincia a mangiarselo, le briciole di pasta sfoglia che cadono sul letto e sulla camicia da notte, gli occhi che mi osservano mentre la guardo mangiare.
– Che cos’hai? – mi chiede poco dopo. Ma non è un Che cos’hai scocciato, un Che cos’hai tipo perché devi rompere? È un Che cos’hai sincero, preoccupato.
Io non so come fa. Giuro che non lo so. Però ce la fa, a capirmi.
Le rispondo a bassa voce, quasi vergognandomi, che non ho più niente da dire, che tutto ciò che avevo l’ho messo in Olmo. E adesso che l’ho finito, mi sento vuoto perché non so cosa fare.
Elena mi guarda in silenzio, non so se riflettendo sulle mie parole oppure giudicandomi.
Poi, di colpo, si alza in piedi sul letto, e urla Salta!, mentre incomincia a saltare sempre più in alto, l’altro cornetto che rimbalza tra le lenzuola e i cuscini, lei che a ogni salto ride sempre di più.
Elena continua a gridare Salta! Salta!, ogni balzo una risata, ed è quando riesco a guardarla non più come Elena, ma come una ragazza che salta sul letto, felice, che allora la ascolto, la sento, proprio come sento questa scarica dentro di me che in un attimo mi ridà forza, e vita, come se avesse di nuovo liberato me stesso, ma il me stesso che sono veramente, e che non ho paura di provare a essere, senza fermarmi sul perché o preoccuparmi del quando e del come.
E, mentre incomincio a saltare anch’io, tutto mi sembra di nuovo semplice e possibile, come ricominciare a cercare ciò che non ho ancora trovato.