Premio Racconti nella Rete 2011 “Se per un giorno…” di Gian Piero Gallerano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011“Se per un giorno la mia vita trascorresse in una fiaba, e quel giorno fosse senza tempo, sellato il mio destriero mi metterei in cammino alla volta di terre lontane per partecipare alla festa di nozze di un nobile duca, mio compagno d’avventure e di tante battaglie al servizio dell’imperatore. Affronterei un viaggio denso d’insidie e di pericoli con il timore di non giungere in tempo alla meta. E quando il rintocco ormai smorzato delle campane in festa giungerebbe diradato al mio orecchio, scorgerei in lontananza il sagrato della cattedrale, dove una folla festosa e colorata s’appresta ad accogliere gli sposi. Il ricordo di quel giorno affiderei a questi fogli, che, trasportati dal vento, forse fino a te giungerebbero, e tu, ricomponendone l’ordine, ti accingeresti a leggere.”
Ero lì, infine, tra volti sconosciuti, e il mio sguardo tra cento altre si posò su di te, nobile dama. Ad attirare la mia attenzione non fu la pesante armatura di stecche, bende ed argilla, che fasciava la tua gamba, ma il sorriso malinconico dei tuoi occhi, i biondi capelli legati sulla nuca ed il vestito celeste ornato d’un velo leggero. Non so quale di questi mi colpì per primo; in un instante tornarono alla mia memoria figure lontane di un libro di fiabe, che la mia balia maliziosamente negava al mio sguardo di bimbo: una fanciulla o forse una giovane fata, che mi guardava dalla pergamena sgualcita, e di cui ero segretamente innamorato – gli stessi occhi, lo stesso vestito, gli stessi capelli. Con un cenno di saluto del capo rispondesti al mio sguardo mentre il corteo nuziale entrava solennemente nella cattedrale. Ti persi nell’arcobaleno di colori degli invitati, ti cercai con gli occhi e ti trovai di nuovo tra i banchi della navata centrale. Potevo scorgere la tua nuca e a tratti i lineamenti del viso, mentre la musica e le stesse preghiere, che s’innalzavano nell’aria insieme all’incenso, sembrava mi narrassero di te. Dall’altare, in lontananza, si udiva la promessa di fedeltà reciproca degli sposi mentre gli invitati si sporgevano dai banchi per cogliere l’istante dello scambio di anelli tra le nobili dita.
Quando infine gli sposi uscirono tra il tintinnio di saluto delle spade, ci avviammo lentamente in corteo verso la rocca per il banchetto nuziale. Lungo la strada indugiai a conversare con un cavaliere venuto anch’egli di lontano. Una volta giunti al castello, il maestro di cerimonie, riconosciuto il mio rango, m’indirizzò verso un lungo tavolo rettangolare posto di fronte a quello del duca, ma notato che non vi era ormai più posto, senza darmene a vedere mi chiese se fossi disposto a tener compagnia ai commensali del primo cerchio di tavoli tondi in prossimità della torre a levante, a completare il numero otto, com’era d’uso in quei luoghi. Annuii e il maestro mi fece strada tra giullari scanzonati, lieti menestrelli, e servitori che a più braccia già portavano dalle cucine fumanti vivande. Nell’aria densa di fumo il tavolo era solo una macchia lontana ma potei presto distinguere un soffuso celeste, un’immagine che recava gioia alla mia anima ancor prima di prender forma ai miei occhi.
Allora mi chiesi chi fosse, quel giorno, ad incrociare per gioco i destini degli uomini.
Fui introdotto ai commensali, e tu con un sorriso mi svelasti il tuo nome, Berta.
“Scusate l’intralcio, cavaliere, lo sgabello è per poggiare la gamba” mi dicesti facendo cenno di prendere posto alla tua sinistra. Cercai di rendermi utile, chiedendo se potevo aiutarti a trovare una più comoda posizione, e feci cenno ad uno dei servitori di procurare un cuscino, ch’egli mi porse solerte, quasi conoscesse già la mia richiesta. Era un cuscino di raso, all’apparenza troppo soffice per sostenere quel peso. Ti aiutai ad adagiarvi la gamba. “Di dove venite, nobile dama? – Quale legame d’amicizia o parentela vi unisce agli sposi?”
Ben presto mi resi conto che dopo il primo scambio di convenevoli, alle mie timorose domande tu rispondevi con parole profonde e lentamente aprivi il tuo cuore. L’intreccio di frasi tra noi mi appariva come un complesso ricamo, in cui il filo di ogni singolo colore segue una trama ben precisa senza lasciar intravedere il disegno finale, che chiaro e nitido affiora solo agli occhi di chi ricama.
A soddisfare la mia curiosità, mi narrasti della brutta caduta da cavallo che ti procurò la frattura alla gamba:
“Avevo lanciato il cavallo al galoppo, più veloce del vento, quasi a voler lasciare dietro di me tutto ciò che mi legava a quei luoghi, alla mia famiglia, agli eventi passati. L’inquietudine che quel giorno era dentro di me, il tormento della mia anima, sembrò trasferirsi in un istante nei muscoli tesi del mio amato cavallo alla vista inaspettata del torrente al di là della siepe. L’incertezza d’un attimo, l’impennata e lo sprone vano e tardivo fecero rovinare il mio fido Dedalo, e me con lui, sulle viscide rocce dell’opposta sponda… solo al calar della sera fui soccorsa bagnata e febbricitante dai servitori di mio padre.”
“L’inquietudine che quel giorno era dentro di me…” quelle parole riecheggiavano in me, ed ecco che come d’incanto altre immagini affioravano nella mia mente:
“L’inquietudine che quel giorno era dentro di me, il tormento della mia anima…che cercava una ragione dell’esistenza, fece esitare il mio braccio a parare il colpo nel fervore della battaglia. La spada si abbatté pesante sulla mia armatura e mi spezzò la gamba, rovesciandomi da cavallo. – forse la morte giunge quando noi la cerchiamo –, fu il mio ultimo pensiero, mentre la vista ormai s’annebbiava tra la polvere sollevata dai cavalli e il cozzar delle armi.”
“ –…Guarda, rispondimi, Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte… –
Era un salmo pronunciato da una voce soave, quello che udivo, se davvero i miei sensi si risvegliavano tra il pulsare della febbre. – Forse la morte è giunta perché l’abbiamo cercata – ripetei con un filo di voce”
“ – Forse la morte alle volte ci sfiora perché possiamo rinascere a vita nuova… – replicò la voce soave, mentre un volto lentamente affiorava sopra il mio.”
“Mi apparvero occhi sorridenti e malinconici e poi i contorni del volto, i capelli nascosti da un candido velo. L’aria era illuminata di una luce rossastra ed era densa di lamenti ora flebili altre volte strazianti – Il Signore accolga l’anima tua, scendano gli angeli e ti conducano in paradiso – ripeteva lentamente un frate passando di giaciglio in giaciglio.”
“– Guarirete, cavaliere – disse la giovane novizia chinata su di me, mentre le sue mani sottili mi tergevano il sudore dalla fronte con un panno. Feci cenno di si con gli occhi”.
Cosa mostrano gli occhi se non il seme di luce divina in noi creature mortali? Qualche saggio dice siano lo specchio dell’anima. Di certo sono i primi a parlarmi, nell’incontrare una donna. Quegli occhi di allora erano adesso di fronte a me. Erano davvero quegli stessi occhi? Il capo allora era velato a celare la vista dei biondi capelli. Eppure non mi sbagliavo… Quali circostanze avevano portato le nostre strade ad incrociarsi di nuovo? I miei pensieri tornarono a quel risveglio lontano…
“Erano passati ormai diversi giorni. Giorno dopo giorno sentivo le forze rientrare in me, accompagnate sul far della sera dal sorriso di un volto dal capo velato che mi faceva visita.
– Cosa vi ha portato fin qui, così giovane tra tanta sofferenza, sorella? – le chiesi una sera.
– La vera gioia è donare amore a chi soffre, questo mi ha insegnato la giovane Chiara, sposa del Signore, ne avrete sicuramente sentito parlare anche nelle vostre terre, cavaliere… – “
“La vidi arrivare infine una sera, quand’era ormai buio. Le poche candele accese nella grande sala proiettavano lunghe ombre sul pavimento sconnesso. Si chinò su di me e mi disse: – Domani potrete alzarvi, ma io non ci sarò, vi penserò, lo prometto, e come domani, ogni giorno a venire – Avrei voluto fare cento domande, cercando di dare un nesso agli eventi, ma ella posò due dita sulle mie labbra ed aggiunse – Le nostre anime si incontreranno di nuovo, state certo, là dove futuro e passato si ricongiungono in un cerchio… –“.
“Potei scorgere in fondo alla sala lo sguardo severo della madre superiora, che l’attendeva sulla porta. Si chinò ancora una volta su di me, come il primo giorno. Con le mani avvicinai il suo volto al mio, e le baciai gli occhi socchiusi, prima che le si riempissero di lacrime”
Le nostre anime s’incontreranno di nuovo, là dove futuro e passato si ricongiungono in un cerchio: così come gioia e tristezza alle volte si fondono in un unico sentimento, queste parole mi avevano accompagnato nei giorni più lieti e in quelli più tristi.
Qual’era dunque il passato e quale il futuro? Quegli eventi che balenavano alla mia memoria erano davvero già accaduti o mi attendevano sulla via della vita? La scelta di quella giovane donna, di donare amore a chi soffre, era stata poi interrotta da altri eventi o attendeva ancora la nobile dama seduta al mio fianco?
Quasi avesse letto nei miei pensieri, Berta si rivolse a me dicendo:
“Quand’ero bambina giocavo con mio fratello ad inventare racconti fantastici di una vita futura, che iniziavano con una frase per noi magica … – Se per un giorno la mia vita trascorresse in una fiaba, e quel giorno fosse senza tempo… – una mattina, sapete, continuai così il mio racconto:
– …quel giorno incontrerei un cavaliere ferito a morte, e gli presterei le mie cure, per riportarlo lentamente alla vita. Quando gli eventi ci avrebbero poi separati, avrei unito per sempre la mia anima alla sua, mentre egli avrebbe preso commiato da me con un bacio sui miei occhi socchiusi –“
Perché mai ella aveva aperto per me quella sera quella piccola finestra sul suo cuore? Fui interrotto nei miei pensieri dal maestro di cerimonie, che esortava ad unirsi alle danze.
“Oh, nobile dama – avrei voluto dirti – fra tutte offrirei a voi il primo invito a danzare, se…”
“…Se non fosse per questa imbracatura che mi tormenta, avrei aperto volentieri con voi le danze” mi disse prima che potessi parlare, mentre giovani fanciulle, ornato il capo di corone di fiori, mi trascinavano con gli altri cavalieri al centro della sala.
Danzando fu fatto un cerchio intorno agli sposi, che si unirono al gruppo felici. Alle note della pavana il cerchio si apriva e si richiudeva come i petali di un fiore. Quando i musici si fermarono ad un cenno del maestro, gli sposi invitarono gli ospiti a brindare insieme nella corte antistante la sala.
Mi feci strada contro corrente, tra gli invitati che si accalcavano per portarsi all’aperto, per tornare al mio tavolo. – Offrirò a Berta il mio braccio, a sostegno, per unirsi agli altri – pensavo. Quando vi giunsi, il tavolo era ormai vuoto, come vuote erano le panche e vuoto lo sgabello dove avevi adagiato la gamba. Mi stupii di come il vuoto possa marcare e rendere una sensazione ancor più viva della presenza stessa di ciò che ora mancava. L’assenza di quei vestiti colorati, delle risa nell’aria, delle pietanze sul tavolo, i boccali vuoti, i tovaglioli disfatti, crudelmente mi colpivano come l’immagine di un campo di battaglia a battaglia finita. E di nuovo in un lampo sentivo l’odore acre del ferro e del sangue, il cielo offuscato sopra i miei occhi, le grida dei compagni che mi cercavano tra i corpi caduti.
Mi scossi e corsi all’aperto a cercarti. A grandi passi salii le scale che portavano alla loggia sovrastante, da dove forse avrei potuto scorgerti meglio. I miei occhi cercavano te di nuovo, questa volta nell’ampio cortile, tra mille invitati festosi. Quale strumento potrà mai inventare l’uomo, pensai, migliore dei nostri stessi occhi, per riconoscere un giorno, a distanza di tempo, tra mille la donna amata, senza sapere quale sarà il vestito, l’acconciatura, il segno lasciato sul volto dagli anni. Quella notte i miei occhi cercarono invano i tuoi. Eppure, per un istante, sentii come essi di nuovo si riempivano di lacrime. Occhi socchiusi che questa volta non avrei potuto baciare.
Disperato, tornai nella sala, a cercare un segno, una traccia, un messaggio. Lo sgabello era lì accanto al tavolo vuoto, e sullo sgabello il cuscino di raso, su cui avevi adagiato la gamba. Ecco, ora quel cuscino non portava alcun segno del peso dell’ingombrante armatura di stecche e di creta. Non era affossato, non vi era impronta o sgualcitura. Lo sollevai, ne sfiorai la morbida superficie con le dita. Infine lo presi con me, senza apparente ragione, e mi diressi verso le scuderie del castello. Lo scudiere di guardia, nel sellarmi il cavallo, posò maldestramente i pesanti finimenti sul cuscino lì accanto, suscitando in me sgomento. Il cuscino appariva irrimediabilmente schiacciato e sgualcito, ma, come per incanto, nel sollevarlo ogni segno sparì. Allora capii.
Da quel giorno sono in cammino per le strade di questo regno straniero, chiedendo ad ogni locanda di una giovane donna dalla gamba fasciata, affinché possa adagiare il suo peso di bende e d’argilla su quel cuscino senza lasciarvi segno alcuno. Ho incontrato così altre donne ma non ho ritrovato te. Eppure un giorno, là dove passato e futuro si ricongiungono in un cerchio, mi correrai incontro e mostrandomi un’armatura di bende e d’argilla ormai impolverata, l’adagerai sul cuscino come piuma leggera, perché leggera come piuma è l’umana sofferenza al cuore di chi ama.