Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “La nave fantasma” di Margherita Rabissi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Iliana l’ho conosciuta qualche anno fa, quando sono andata all’ospedale per togliermi le adenoidi. Ci avevano dato la stessa stanza da dividere e quindi abbiamo dormito insieme per alcuni giorni. Cioè tutte e due avevamo il nostro letto, con accanto un comodino e un armadietto personale, quindi non era proprio dormire insieme, come quando mia cugina Carlotta veniva a trovarmi e dormivamo tutte e due nel lettone di mamma per qualche giorno. Comunque Iliana e io abbiamo diviso la nostra cameretta all’ospedale per alcuni giorni e siamo pure diventate molto amiche, anzi forse qualcosa in più. Ecco come la conobbi.

Come dicevo dovevo togliermi le adenoidi, e i miei genitori ne parlavano già da un po’. Io li sentivo parlare al telefono con i miei nonni e tra sé di questa faccenda, e avevo capito che sarebbe stata una cosa lunga. Almeno più lunga che andare dal dentista perché mamma quando io dovevo andare dal dentista si limitava a telefonare in ufficio la mattina stessa, mentre facevamo colazione, e comunicava che quel giorno sarebbe arrivata più tardi al lavoro. Invece per le mie adenoidi mamma aveva preso alcuni giorni di ferie e questo mi preoccupava un po’ perché lei non si assentava mai dal lavoro. Inoltre, quando i grandi che conoscevo mi incontravano per strada mi ripetevano che dovevo stare tranquilla, che le adenoidi non fanno mica male e che anzi mi sarei fatta proprio una bella vacanza.

A parte il fatto che in quel periodo andavamo a scuola anche di pomeriggio perché dovevamo fare le prove per la recita di fine anno e quindi in quel momento non avevo la minima intenzione di fare una vacanza, in ogni caso questa storia delle adenoidi cominciava a innervosirmi. Tutti i grandi infatti si comportavano in modo fin troppo gentile con me, soprattutto i miei nonni e i miei genitori, proprio come quando succedeva qualcosa di strano. A me non piacciono molto le smancerie, e neppure i complimenti se prendo un buon voto o se indosso un vestito carino. Per esempio quando babbo aveva deciso di andare a dormire per qualche tempo da nonna Armida perché dovevano fare certi lavori nella soffitta, tutti erano così gentili con me. Mi ripetevano che non era mica una cosa di cui preoccuparsi, che babbo doveva aiutare nonna a spostare i mobili e vuotare l’armadio e poi sarebbe tornato a casa come sempre. Certo che i grandi sono proprio strani! Io era da un sacco di tempo che dicevo a nonna Armida di darsi una smossa con quella soffitta: non faceva che dire che non aveva spazio, che la casa era diventata troppo piccola per tenere tutti i quadri e intanto non si decideva mai a sistemare quella bella soffitta che ha!

Nonna Armida fa la pittrice, ma disegna solo le facce di nonno Augusto che è morto sette anni fa quando sono nata io. Lei dice che era molto bello e che da giovane sembrava un indossatore di moda e il nome Augusto gli stava a pennello, perché è un nome nobile. Nonna Armida ha una spiegazione per ogni nome. Per esempio io ho portato la pace nella loro famiglia dopo che era morto nonno Augusto, e infatti mi hanno chiamato Irene, che significa proprio pace. Da quando sono nata, nonna Armida ha smesso di fare la commessa nel negozio di cristallo dei Giacomelli e da allora, come dicevo, fa la pittrice. Io una volta le ho chiesto perché dipinge solo nonno Augusto e lei mi ha risposto che bisogna dipingere quello che si vede e lei vede solo nonno Augusto. Siccome mamma mi ha detto che nonna Armida soffre molto e non bisogna insistere a domandare le cose, io non ho detto niente. Ma mi chiedo: possibile che veda solo nonno Augusto? E la lavatrice in cucina, le azalee accanto al portone, la televisione davanti al divano? Quelli non li vede? Comunque io nonno Augusto non l’ho mai visto, tranne una volta in fotografia, e poi io non soffro come nonna Armida. Insomma ha dipinto tanti di quei quadri che in casa non c’entrava più e finiva che non poteva più invitarci la domenica a pranzo a mangiare i ravioli al sugo perché in casa c’era troppa confusione. Fui io a suggerirle di mettere a posto la soffitta e farci una specie di studio, come quello che ha mamma a casa nostra, così può fare tutti i quadri che vuole e anche invitare noi la domenica a pranzo. Quindi quando mi dissero che babbo sarebbe andato da nonna per un po’ ad aiutarla a fare spazio, io ero davvero molto contenta. Perciò non capivo come mai mi facevano tutti le smancerie e sembravano preoccupati per me. Semmai dovevano preoccuparsi per babbo che lavorava tutto il giorno giù al cantiere e la sera doveva pulire con nonna Armida la soffitta di casa sua.

Era passato quasi un anno da quel periodo, babbo dopo i lavori della soffitta era tornato a casa da noi, ed ecco che negli ultimi giorni tutti avevano ripreso a fare i carini con me per via di questa storia delle adenoidi. Io pensavo che la soffitta ora era tutta bella pulita e piena di pennelli e tempere colorate e tutto era andato a finire bene, quindi anche per le mie adenoidi non c’era da preoccuparsi. I grandi sono troppo paurosi, io invece, come dice nonna Armida, sono una bimba forte e coraggiosa. L’unica cosa che mi dava fastidio era che non avevo idea di cosa fossero queste adenoidi, né dove si trovassero. Sapevo solo che avrei diviso la mia camera con un’altra bambina come me.

Quando entrai nella mia nuova cameretta all’ospedale vidi che infatti c’era un’altra bambina. Stava distesa su un fianco girata verso il muro e io potevo vedere solo la sua schiena. Aveva una camicia da notte con disegnata Barbie California e pensai che io quella camicia da notte non ce l’avevo, però di Barbie California avevo il camper, quello di cui facevano la pubblicità in tivù, con il tavolo e le sedie da campeggio e il portabiciclette. Me lo avevano regalato pochi giorni fa, tra una smanceria e l’altra. Magari avrei potuto dire a mamma se domani me lo portava, così lei avrebbe visto che io avevo il camper quello vero di Barbie California, e lei solo il disegno sulla camicia da notte. Mentre mamma sistemava le mie cose nell’armadietto io stavo seduta sulla sedia vicino alla sponda del letto e guardavo i movimenti della bambina. Si rigirava continuamente e sbuffava, perché si vedeva che era irritata dalle nuove arrivate. Beveva un sorso d’acqua, poi infilava la testa sotto il cuscino, poi prendeva un pupazzo a forma di orso Balù e lo stringeva forte, poi lo scaraventava al fondo del letto. Mamma finì di sistemare le cose sopra al comodino e poi, dopo avermi messo il pigiama, mi infilò nel mio letto. Disse di starmene buona, che sarebbe andata a parlare con i dottori. Intanto Iliana guardava la mia mamma piena di curiosità e si vedeva che stava osservandole i capelli ricci. La mia mamma infatti ha una chioma di capelli neri così ricci che se ci infili una foglia puoi anche non ritrovarla. Sono capelli sottoli sottili e vaporosi che formano una specie di ragnatela intricatissima di zucchero filato. Quando era incinta di me, mamma mi immaginava sempre coi suoi capelli. A zia Mirella diceva che era impossibile che nascessi liscia o bionda. Invece sono nata senza riccioli, e mamma mi ha detto che per lei è stata una piccola delusione. Ormai aveva imparato a non farci caso, ma sapeva che tutti le guardavano sempre i capelli. Quando entravamo in un bar, quando veniva a prendermi a scuola, tutti le guardavano i capelli e si chiedevano quello che si stava chiedendo ora Iliana: sono veri? Come possono essere veri?

“Sì, sono veri”, le dessi senza guardarla appena mamma uscì dalla stanza. “Davvero? E come fanno a non volarle via?”, rispose continuando a guardare i capelli di mamma ormai solo attraverso il vetro opacizzato della porta di camera. “ E’ perché hanno delle lunghissime radici infilate fin dentro al cervello. Non sono così fragili come sembrano”. “Ah”, fece lei. Tutte e due eravamo sedute sul letto con il cuscino dietro la schiena, guardavamo la porta del bagno e non sapevamo più cosa dire. In quel momento entrò un signore non molto vecchio, era un dottore che Iliana conosceva bene e che si chiamava Natale. “Ciao Iliana, disse il signore, vedi che amichetta ti abbiamo trovato? Stanotte cerchiamo di dormire, però, sennò domattina la nave non riuscirà a riprendere il viaggio! Su, ora misuriamoci la febbre, e misuriamola anche a te, signorina bella, mi disse il dottore porgendomi il termometro. Tra poco arriva da mangiare, mi raccomando e niente scherzi. A proposito, piacere, io mi chiamo Natale”.

“Chissà perché si chiama Natale”, mi sfuggì ad alta voce la domanda non appena il dottore era uscito. “Si vede che è la sua festa preferita, no?” Rispose subito Iliana sporgendosi dal letto e cercando di afferrare il game-boy che stava sopra al comodino. Che risposta banale, pensai. Nonna Armida avrebbe sicuramente trovato una spiegazione molto più interessante al nome del dottore. “Senti, le chiesi a un certo punto parlando a bassa voce come quando mi vergognavo di chiedere a qualcuno di cosa si stesse parlando perché io da sola non ero riuscita a capirlo, senti ma di che nave stavate parlando tu e il dottore?” Allora Iliana posò il game-boy un po’ scocciata di spiegare una cosa tanto banale, di cui lei era evidentemente a conoscenza, come quando i grandi interrompono quello che stanno facendo per rispondere a una domanda che considerano sciocca. Però si vedeva che lei era contenta di parlarmi e anche di raccontarmi della nave. “Ma è questa la nave, vedi?”, mi disse eccitata indicandomi la finestra e saltando in ginocchioni sul letto. Dalla finestra si vedeva solo l’edificio dell’ospedale che si allungava a forma di elle e tutto uguale come un serpente cicciuto striato per orizzontale da file ordinate di finestrelle azzurre. “La nave ha molti piani, vedi, il piano terra si trova sott’acqua”, e mi indicava laggiù il pronto soccorso, che dall’alto sembrava sott’acqua davvero, ricoperto com’era di alberi e circondato di aiuole e di fontane. “Poi ci sono le cucine”, e indicava un piano dell’ospedale che era formato da un tunnel di vetro, dove in lontananza si vedevano passare i medici in camice bianco e i carrelli delle pulizie. “E poi c’è il ponte scoperto, con l’albero maestro, le piscine per i passeggeri e la pista di atterraggio dell’elicottero”, continuava ad illustrarmi Iliana, mostrandomi l’ultimo piano dell’edificio, quello in cui c’era l’elisoccorso e il parafulmine. “Ai lati, invece, puoi vedere le scialuppe di salvataggio”, concludeva fiera indicandomi i parcheggi per le automobili ai lati dell’ospedale. “È una nave che viaggia sicura, la nostra!” Io mentre ascoltavo questa strana descrizione guardavo i blocchi dell’ospedale, e cominciava davvero a somigliarmi ad una nave di quelle da crociera che viaggiano lente e sono molto confortevoli. Zia Mirella mi aveva raccontato che in quella dove era stata lei per andare a Palma di Maiorca c’era pure il cinema e il solarium, ma questo non lo dissi a Iliana anche se avrei voluto, perché avevo come l’impressione che ci sarebbe rimasta male.

“E noi, le chiesi, noi dove ci troviamo?”

“Ma nella cabina di pilotaggio, no?” Mi rispose come se fosse la cosa più naturale possibile. “Io sono il Capitano, e tu da oggi sarai il mio assistente!”

In quel momento entrò mamma con il vassoio della cena e anche un sacchetto di biscotti che aveva comprato giù allo spaccio. Poco dopo arrivò anche la mamma di Iliana con un vassoio uguale al mio.

“Ciao tesoro, le disse la sua mamma, come andiamo?”

“Bene, bene, rispose Iliana non me lo sono mai toccato il cerotto, giuro, te lo può dire… “

E d’improvviso si accorse che non conosceva il mio nome.

“Irene, si chiama Irene, la mia bambina, rispose mamma per me. E tu come ti chiami?”

“Si chiama Iliana, rispose la sua di mamma”.

“Irene non è molto socievole, disse mamma, ma quando comincia a parlare non la finisce più.”

“Oh per questo anche la mia, proseguì la mamma di Iliana, è un poco matterella, ma è una bambina d’oro”, disse dopo una pausa e abbassando gli occhi verso il pavimento.

Ci mettemmo a mangiare, tutte e due imboccate dalle nostre mamme piene di premure e che si davano la schiena, sedute ciascuna al bordo del nostro letto. Dopo mangiato le mamme si alzarono e mentre mettevano in ordine andando qua e là per la stanza e il bagno, io e Iliana rimanemmo zitte e composte ad osservarle, così felici di essere tornate piccole e coccolate.

Io intanto guardavo fuori dalla finestra, oltre il pronto soccorso e le onde del mare che lo coprivano. Nel cielo si vedevano le nuvole dipinte di rosso e tanti uccelli che volavano in gruppo. La città si estendeva piena di luci di tutti i colori e mi venne in mente che era piena di case dove i bambini tra poco sarebbero andati a letto insieme ai loro genitori, mentre io e Iliana dovevamo restarcene in ospedale da sole. Vicino all’ospedale si vedeva una gru, col braccio abbassato come una giraffa a riposo. Sembrava un animale mezzo addormentato, o che non ce la faceva a rialzarsi perché forse era malato. Se lo dicevo a Iliana, di sicuro sarebbe stata molto contenta di aggiungerlo tra i personaggi della nostra nave e m’avrebbe detto che si trattava del mostro di Lockness, o di qualche altro animale marino che domani all’alba la nave avrebbe dovuto affrontare. Ma io mi sentivo molto stanca, così non glielo dissi.

“È un periodo difficile, sentivo mamma che parlava con la mamma di Iliana, è ancora piccola ma si dovrà abituare. Comincerà piano piano, e poi le sembrerà naturale”.

“Oh, sì non deve mica preoccuparsi signora, le sorrideva la mamma di Iliana, la mia ha fatto l’abitudine addirittura a non vederlo mai, sempre in giro com’è per il Mediterraneo su quei vascelli fantasma…”

Iliana intanto ascoltava la musica col walkman senza cantare le canzoni, ma si vedeva che sillabava le parole con la bocca che si muoveva. Stava distesa con il cuscino sotto la testa e guardava il soffitto. Ogni tanto, mentre si muoveva, una ciocca di capelli le andava sul viso e allora lei la spostava nervosamente. Io mi rigirai verso la porta a guardare le mamme che erano già diventate amiche, ridevano con le infermiere lì fuori e bevevano il caffè. Vidi che mamma frugava nella borsetta, come sempre dopo cena quando cercava l’accendino per accendersi una sigaretta

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