Premio Racconti nella Rete 2011 “Biciclette” di Lucia Del Chiaro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011La mia prima bici era blu, pericolosissima e dalle ruote piene.
Aveva due rotini dalle parti, per farmi imparare senza cadere, ma i rotini sono infidi compagni di giochi: ti fanno credere di riuscirci, di essere in grado di andare, di sapere come si fa.
Ma poi, appena te li levano sei una piuma in mezzo al vento, una barca nel mare tremendo e ostile dello sguardo altrui, delle nonne e dei nonni, dei genitori e, cosa ancora peggiore, degli altri bambini che aspettano ansiosi che ti unisca alle loro corse.
Quando te li levano la bicicletta smette di andare dove vuoi tu, la bicicletta vuole solo una cosa: spingerti a terra, salirti sopra e grattarti ginocchia e gomiti senza alcuna pietà.
“Vieni, proviamo ad andare un pochino in bici!”
E io andavo a nascondermi dentro l’armadio di camera di mia madre.
Andare in bicicletta era un volo nell’ignoto, mi sentivo come l’uomo cannone, sparato da una forza sconosciuta dove assolutamente non potevo prevedere.
“Ti aiuto, guarda! Ti tengo io!”
“Non è vero! Mi lasci! Aiuto!”
le mie grida si sentivano fino in fondo al paese, facendo sorridere i vicini e imbestialire mia madre.
“Come è possibile che tutti i bambini vanno in bicicletta e tu no?”
“Io non VOGLIO!”
Imparai un giorno, da sola, più per noia che per sfida, perché ero stufa di andare a piedi.
La presi in mano, non c’era nessuno in giro, pensai che se avessi fallito di nuovo avrei fatto finta di nulla e dimenticato l’accaduto. Provai a pedalare. Funzionava, un metro dopo l’altro non cadevo, andavo avanti, pedalavo e avanzavo. Mi pareva impossibile ma funzionava veramente.
Con un po’ di coraggio provai a curvare. Anche quel comando funzionava. Frenai e scesi. Corsi da mia madre a dirglielo. La bici era finalmente stata domata.
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La bici numero due era bianca, mi pareva enorme, altissima e sfolgorava come uno shuttle.
Comparve nella mia vita durante una corsa nel giardino della zia Stefania, portata dalla nonna più bella del mondo, col tramonto alle spalle che rendeva i suoi capelli luminosi. Fu appoggiata con cura sul marciapiede di cemento, e io ero pazza di gioia al pensiero che quella meraviglia fosse mia.
Era di nuovo estate, era passato un anno da quando avevo imparato a vendicarmi della sadica bicicletta blu dalle ruote piene, non poteva farmi più male. L’avevo resa mia.
Ma poi ero cresciuta e anche spostando il sellino le ginocchia mi si incastravano sempre nel manubrio, e così dovevano aver pensato che era tempo per una nuova bicicletta.
La chiamai Furia, come il cavallo nero, poco importava che fosse una bici bianca, volevo un nome eroico per me, che avevo paura anche a passare da una pozzanghera.
L’estate, da bambini, non comincia col calendario, comincia nel momento preciso della prima crosta al ginocchio. Vale anche quella al gomito, ma quella al ginocchio è meglio, la vedono tutti, ti chiedono che hai fatto e puoi riprodurti in narrazioni epiche di voli sul ghiaino.
L’estate cominciava e finiva in un soffio, alle prime pubblicità dei diari scolastici, alla prima pioggia al mare, quando al Giannotti montavano le giostre.
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La bicicletta numero tre era una graziella rossa. Con anche un cestino davanti. Con lei andai a vedere passare il giro d’Italia durante un pomeriggio immediatamente prima dell’esame di quinta elementare.
“Tu cosa porti?” Mi chiese Federica, che nuotava con me ma era in un’altra scuola.
“La Basilicata, il Piemonte, l’occhio umano, la Francia e Napoleone” risposi mescolando confini, date e notizie sul cristallino.
Ero distratta, non pensavo alla scuola, volevo vedere Saronni in maglia rosa.
Passò in uno sventolìo di bandiere e berretti, fu troppo breve, ne fui delusa, riuscii a intravedere solo il colore del primo in classifica, ma non mi pareva che avesse valso la fatica del pezzo di strada fatto in bicicletta, soprattutto la fatica di tornare a casa, con quella maledetta salita che c’era.
Mio nonno cercò di consolarmi.
“Vieni, ti porto a conoscere Gino Bartali”
Scoprii che avevano corso entrambi, dopo la guerra, a volte anche nella stessa gara. Ero molto fiera di mio nonno.
Si salutarono con una stretta di mano.
“io, comunque, bimba, – disse il mio nonno allontanandosi- son sempre stato di Coppi, non ti sbagliare!”
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Alle medie mi portarono a scegliere finalmente una bici da grandi.
La scelsi rosa scuro, molto bella, con le ruote sottili e tre marce. Mi sentivo adulta e un pochino lo ero.
Alle medie la bicicletta era l’unica cosa bella che avevo. Ero uno strano bruco, desideroso di imbozzolirsi e cambiare, lunga come una pertica in una classe di nanerottoli, grandi occhiali rotondi, qualche brufolo in qua e in là, piedi chilometrici, e vestiti smessi dei cugini più grandi che non aiutavano molto.
Allora leggevo e tacevo, e con questi due verbi la mia vita era più o meno descritta.
Mi piaceva leggere e a dire il vero mi piaceva anche tacere. Mi aiutava a pensare che in fin dei conti ero lì solo per caso, che non sarebbe durato per sempre, che prima o poi sarei andata via dalla mia adolescenza come quando si aspetta un treno a un binario di paese, che sai che sarà lunga, ma sai anche che non sarà eterna.
La bici delle medie durò a lungo, anche quando delle medie non avevo più che un ricordo intenerito dal rassicurante passare del tempo.
Me la rubarono una notte, sotto casa, mentre facevo l’università. Non li ho mai perdonati.
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Pochi giorni dopo il furto i miei amici mi regalarono una bicicletta da città. Di quelle bordeaux, eleganti, da signora che con calma va a fare la spesa in bicicletta.
Non ne scendevo mai, sfrecciavo per le vie di Lucca fischiettando qualsiasi cosa, ballonzolavo sul macigno delle strade, sul pavé ostinato e sul comodo asfalto, ci prendevo l’acqua alle fontane e ci facevo la spesa, ci correvo sulle mura e rallentavo nella calca del centro, l’appoggiavo dove capitava, sicura della mia bicicletta e della mia vita.
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Poi un giorno mi ritrovai in un posto lontano, piovoso, umido, una bici nuova, grigia, quasi da corsa, sole io e lei in un mondo che nessuna delle due conosceva.
Il Lussemburgo è un po’ come la legione straniera, come il Klondike o come l’Australia, solo più brutto.
Ci si va per cambiare aria, per cambiare vita, anche se poi viene sempre voglia di tornare.
Io ero lì da qualche mese, io e la mia bici-quasi-da-corsa.
Era uscita la catena e io ero sul ciglio della strada, con le mani sporche di grasso nero, a cercare di rimetterla.
La gente passava, mi guardava ma non mi vedeva. Non vedeva né me né lei, non sapeva, non capiva il bisogno di aiuto che avevamo entrambe, lei senza catena, io senza più ali ai piedi.
La rimisi, la catena, imparai quella volta e altre volte ancora, imparai a cavarmela, a svegliarmi ogni giorno col cielo grigio e a dormire ogni sera in una casa lontana e strana.
La bici sonnecchiava tranquilla nel giardinetto interno, insieme alla salvia, i panni stesi e il rosmarino.
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Con la stessa bici ho vissuto in Germania, viaggiando lungo le rotaie del tram, trappole tremende per i cerchioni troppo sottili. In Germania tutti vanno in bici, solo che nessuno di loro lo sa veramente. La bici per i tedeschi non è un piacere, è un dovere. Si va in bici perché fa bene e perché si arriva prima che a piedi. Così si perdono il gusto del vento, il senso delle soste e la voglia di una foto.
Sono troppo bravi e disciplinati per potersi divertire, i tedeschi.
Forse per questo sono così bianchi.
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E con la stessa bici ora sono di nuovo a Lucca, la uso poco, perché la mia vita è molto cambiata.
Adesso aspetto di comprare una minibicicletta per farla apparire all’improvviso a un soldo di cacio spaventato dalle ruote.
Cara Lucia, complimenti! Bella l’idea della bicicletta che praticamente “cresce” con la protagonista! Davvero una piacevole lettura
grazie!
Molto bello, scrivi davvero bene; brava, Luci!
ri-grazie! 🙂
Brava Luci!!! 😀
ora corro a leggere il tuo!
Un racconto piacevole con un bel gioco di equilibrio fra i ricordi che di volta in volta ogni bicicletta, ha lasciato nella protagonista.
[…] sennò?) alcuni dei racconti vincitori del concorso racconti nella rete 2011, fra i quali anche il mio, che raccontava delle biciclette della mia vita […]