Premio Racconti nella Rete 2011″Il Canto” di Erica Liffredo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Il piccolo Giovanni sta portando le pecore al pascolo, come ogni mattina. Il sole radioso sta sorgendo ed illumina, con i suoi raggi d’oro, le rocce che acuminate svettano nel cielo, come a volerlo sfidare. I fili d’erba si muovono dolcemente mossi dalla brezza del primo mattino. Le gocce di rugiada riflettono il guizzare del sole come piccoli diamanti posti a decorare quel luogo sfoggiando vanitose ragnatele di brillanti. Il fruscio dei suoi piccoli passi si accompagna al vento leggero e fresco. Un passo, poi un altro ancora. D’un tratto si ferma, attratto da qualcosa a terra. Con un rapido gesto fa uscire la lama del coltellino a serramanico, che riflette la luce del giorno. La sua già abile mano inizia ad intagliare un pezzo di legno con movimenti sicuri, mentre riprende il cammino inerpicandosi sul ripido sentiero. I trucioli di legno cadono a terra, perdendosi tra i fili d’erba e le pietre che segnano il cammino.
Il cane intanto, a ritmi regolari, gli fa un festoso giro intorno, mentre, con lo zelo degno di un uomo, tiene a bada le pecore.
Giovanni alza lo sguardo, verso la cresta della montagna. Il sole in fronte gli fa strizzare gli occhi. Ogni volta che guarda laggiù, verso il confine, la linea invisibile che in molti hanno attraversato per raggiungere una speranza non può fare a meno di chiedersi se un giorno anche lui dovrà percorrere quel cammino.
Ed è così che, immerso nei suoi pensieri, viene riportato violentemente alla realtà da un tuono improvviso, assordate, violento. Anche la terra sembra tremare. Il cane abbaia, le pecore sembrano impazzite. Giovanni è incredulo, stordito, neanche il tempo di capire cosa sta succedendo ed ecco un altro rombo, fortissimo.
Le sue gambe iniziano a correre giù, per il pendio, stretto nella mano ancora quel pezzo di legno. Il coltellino gli cade durante la corsa. Esita un attimo, incerto sul da farsi, poi continua a correre, verso casa.
Un altro scoppio, anzi, no… è una raffica di scoppi, la cui eco persiste muovendosi tra i timpani, creando un insopportabile rimbombo… chissà, forse è un mitra. Il cuore gli batte inarrestabile nel petto.
Improvvisamente i suoi piccoli piedi si fermano. Davanti a sé, come comandate da una bacchetta divina, le donne del paese, che stanno lavorando nei campi, si inginocchiano in sincrono. Il mormorio di una preghiera comune si eleva tra l’erba innalzandosi al cielo. Quella dolce cantilena riempie l’aria e il vento si alza per accompagnare quel magico canto, per portarlo con sé, al di là della montagna.
Distintamente ora si sentono degli spari, ma il canto continua. Il tempo sembra essersi fermato.
Anche le campane della chiesa iniziano a suonare, intensamente, impregnate di una mesta energia, accompagnando inconsapevoli il canto, la preghiera.
Altri spari, ancora. Le campane innalzano il loro battere acuto e sfidano intrepide quei colpi macchiati di sangue.
Giovanni è pietrificato, i piedi incollati a terra, rapito da quello spettacolo assurdo e affascinante. Il cane gli passa accanto sfiorandogli le gambe. Quel contatto caldo, morbido, familiare, gli fa sentire di nuovo i rumori reali, quel gran fracasso che lo circonda.
Ricomincia la corsa. L’erba alta gli sferza le nude gambe, le mani cercano di farsi strada. Si inciampa, cade, si rialza, lo sguardo fisso innanzi a sé, al paese. Passa in mezzo ai campi, alle donne che, pur continuando imperterrite il loro canto, iniziano a scendere verso il paese. Giovanni corre, corre: finalmente la strada, il rumore sonoro dei passi sul selciato, il vicolo, la casa. Ovunque intorno c’è un gran trambusto, di vecchi, di bambini che corrono, un gran vocio riempie ogni più remoto angolo. Gente che si rintana nelle cantine, altri che cercano di nascondere le poche, povere provviste.
Una voce raggiunge le sue orecchie: Giovanni, dove stai andando? Ma non c’è tempo. Giovanni vuole solo andare a casa.
Eccola, finalmente. La porta è socchiusa. Entra.
Uno sguardo rapido basta per intravedere la mamma, nella stanza da letto, inginocchiata a terra, le mani giunte davanti a quel grande letto a lui proibito. In punta di piedi le si avvicina. Vede le sue mani affusolate stringere un rosario, fittamente intrecciato alle dita, come se avesse voluto farlo entrare nella carne, nell’anima. Una preghiera sussurrata si fa strada fievole fra le sue labbra sottili, ma belle.
Giovanni le si avvicina, con delicatezza. Le posa leggera la piccola mano sulla spalla scossa da singhiozzi incontrollabili. La sua mano è macchiata del verde dell’erba strappata durante la corsa.
Sua mamma è immobile, lo sguardo fisso a terra.
Giovanni le dà, senza neanche sapere perché, quel piccolo pezzo di legno che è rimasto stretto tra le sue mani. Sua mamma lo prende in mano, lo nasconde insieme al rosario e lo stringe, quasi a farsi male. Alza lo sguardo perdendosi per un attimo infinito nel nero degli occhi del suo bambino. Lo abbraccia con tutta la forza che ha ancora in corpo, poi scoppia in un pianto a dirotto. Io devo andare ora. Tu nasconditi bene, non devi farti trovare! Un bacio sulla fronte e scompare dalla porta rimasta aperta.
Giovanni corre fino alla soglia, si blocca guardando sua mamma allontanarsi di spalle.
Giovanni vorrebbe farsi piccolo piccolo e sparire, almeno per un po’. Si guarda intorno e il suo sguardo si ferma sul grande, vecchio camino. Ora non scoppietta come al solito, è freddo e buio.
Giovanni vi si infila. Da dentro fa un bel mucchio di cenere, sistema qualche pezzo di legna, si rintana in un angolo e resta nascosto.
Voci confuse mescolate al rinnovato clamore delle campane riacquistano lo spazio sonoro. Con le mani nere di fuliggine, si copre la faccia, gli occhi, le orecchie, per non vedere, per non sentire. Il suo volto dai contorni delicati e tondi si macchia di nero.
Con gli occhi segue l’inerpicarsi del camino verso il cielo ed intravede un pezzo di cielo azzurro. Un sorriso si disegna sulle sue labbra. Chiude gli occhi e cerca di ricordare la sensazione dell’aria sulla pelle, dell’erba fra le mani. Forse è solo un brutto sogno, anche se fa così freddo. Sente in fondo al cuore una gran solitudine.
Un calcio alla porta, inutile, deciso, brutale. Parole sconosciute di uomini.
Giovanni vorrebbe poter smettere di respirare, trasformarsi in pietra e confondersi con le pareti di casa.
I passi si avvicinano, il loro rumore si sente chiaro e distinto. Il rumore delle sedie rovesciate violentemente a terra, dei piatti che si frantumano in mille pezzi, il fracasso perforante del letto ribaltato sul pavimento di terra battuta, lo fanno tremare, ogni colpo, unito a quelle urla sferzanti lo colpisce come una frusta.
Alcuni passi si allontanano. Le voci cessano d’improvviso. Altri passi invece si avvicinano. Giovanni intravede una sagoma: è grande, scura, un fucile spunta tra le mani dell’uomo.
Il soldato si gira, si china sulle gambe. I loro sguardi si incrociano. Entrambi rimangono fermi, ogni muscolo bloccato. Una lacrima scende sulla guancia di Giovanni, lasciando una bianca scia sulla pelle nera. Il soldato è immobile.
Voci da fuori urlano parole incomprensibili. Il tempo sembra essersi congelato, anche i rumori sembrano come attutiti. Il respiro, a stento trattenuto, sembra emettere un rumore infernale. Il cuore batte così forte che ha paura gli esploda nel petto.
Il soldato si alza, fa un passo, poi un altro. La mano tiene saldo il fucile. Giovanni sente il sangue gelare nelle vene. Non ha mai avuto così tanta paura. Il soldato è ormai vicinissimo al piccolo Giovanni. Si abbassa di nuovo. Una voce da fuori chiede al soldato, in quella lingua sconosciuta, se va tutto bene.
Il soldato sorride a quei grandi occhi innocenti, ma è un sorriso velato da una grande tristezza.
Poi si alza e se ne va, rispondendo al suo compagno che lì è tutto tranquillo.
Pochi istanti di un innaturale silenzio ed una crudele raffica di mitra perfora le orecchie di Giovanni. I suoi grandi occhi scuri lentamente scompaiono nel buio.
Questo racconto mi ha commosso: mio padre, pastore a 9 anni nel ’43, sui monti dell’appennino tosco emiliano. Radunati di forza nella piazza del paese, grazie alle preghiere del prete e al probabile animo buono di un gruppo di soldati tedesch, non vide la fine. Ma la guerra continuò e, pochi giorni dopo, vicino al paese, accadde Marzabotto.
Bel racconto.