Premio Racconti nella Rete 2011 “Due punti” di Giacomo Gailli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Ho passato fuori casa una buona parte della mia adolescenza, a studiare in una città lontana con poche occasioni di tornare e ancor meno voglia di farlo. Mi piaceva l’idea di crescere lontano dagli occhi dei miei familiari, mi piaceva pensare che quando fossi tornato quegli stessi occhi non mi avrebbero riconosciuto, che avrei suscitato sorpresa e meraviglia e che quello sarebbe stato il mio trionfo sulle aspettative di tutti. Per questo ho evitato di tornare quando potevo, anche se la vita nella nuova città non è sempre stata serena e gratificante, anche quando l’abbraccio di casa mia sarebbe stato utile per superare certi momenti.
Sono seduto in treno, ho le cuffie nelle orecchie e sento sotto la pelle che qualcosa non va, un’ironica disposizione di oggetti ed espressioni mi comunica che non è cambiato nulla. Fuori dai finestrini le immagini della campagna si susseguono senza che io possa fare niente, e ricordo quando ero piccolo e giocavo sul tappeto del salotto e la vita dei grandi mi si muoveva attorno senza che io potessi fare niente.
Arriva un messaggio sul mio telefono ed è lei. Lei non è la mia lei, ma io vorrei che lo fosse. Credo che anche lei lo voglia. Ci siamo conosciuti qualche anno fa, a casa di amici, sfidandoci a trasformare un divano a dondolo in un’altalena.
Quello dei messaggi è un contatto malizioso e sicuro, come spogliarsi al di là di un vetro opaco.
“Credo che qualcosa di me stia tornando insieme a te. Guarda bene… magari è nel tuo zaino.”
Rispondo:
“Non ho intenzione di restituirtela. Ma puoi prendere qualcosa di mio, se vuoi…”
Aspetto con il telefono in mano per qualche secondo prima che vibri di nuovo.
“Noi siamo: ?”
Ecco. Noi siamo?
“Temo che la mia filosofia sia rimasta al liceo. Tu che dici?”
Non arriva alcuna risposta e il treno raggiunge la stazione.
E’ sera quando arrivo a casa, ho la fronte sudata, le spalle stanche e nessun messaggio di lei mi ha raggiunto. Estraggo dalla tasca le chiavi rinnovando un rituale che non eseguivo da anni. E trovo la catena tirata.
Un attimo dopo mia madre è affacciata alla fessura, ha gli occhi che le brillano e il sorriso sulle labbra. Mi chiama tesoro, mi fa entrare e mi abbraccia stretto; mi guida fino alla mia stanza dove poso lo zaino e mi siedo sul letto. Vedo dei pacchi regalo sulla mia scrivania ma non chiedo niente. Mia madre siede accanto a me e mi sistema i capelli, io allontano la testa e le abbasso i polsi. Lei mi dice che le sono mancato, che è contenta di rivedermi. Anche mio padre è contento, ma era davvero molto stanco e sta dormendo. Mi chiede se le voglio bene e cosa voglio per colazione; verranno alcuni parenti domani, zii e cugini, lo ha detto a tutti che sarei tornato stasera. L’ascolto e penso che è assurdo che non mi faccia alcuna domanda. Ho superato i miei esami, concluso un percorso e non le importa niente. Mi racconta dei parenti, si preoccupa per la colazione e di cosa provo per lei. Cerco di moderare il tono della voce per non essere tagliente quando le dico che sono stanco e che vorrei riposare. Lei si alza, mi bacia la fronte e prima di andare mi assicura che mio zio ha qualche idea per trovarmi un lavoro. Mi sembra quasi di odiarla quando mi lascia solo in stanza. Ho il battito accelerato ed è a malincuore che riconosco i sintomi della rabbia: non è stato granché come ritorno trionfale.
Arriva un messaggio, è lei:
“Sono delusa.”
Perfetto. Mi metto a letto, penso a lei e a domani. Ci saranno domande, aspettative a cui dovrò rispondere. Si parlerà di mio zio e delle sue idee geniali. Si parlerà di quello che posso o non posso fare, e verrà fuori che anni di studio non mi rendono buono ad alcunché. Eppure la rabbia che mi riscalda il pigiama non è per le domande frustranti dei parenti. E’ per me, perché io non ho risposte da dare. Non riesco a rispondere a nessuno.
Cosa siamo noi? Rileggo quel messaggio. Lei è delusa, per forza. Cosa sono io? Mi tornano in mente le foto dei miei genitori quando avevano la mia stessa età eppure erano già molto più grandi. Mi tenevano in braccio e avevano una casa e indossavano abiti che si erano pagati da soli.
Siedo alla scrivania piena di regali e mi sento circondato da debiti. Cosa siamo noi? Non c’è alcuna casa per noi, non ci sono prospettive per noi. Non c’è un modo in cui io possa prendermi cura di lei. Non ho ancora niente e so che i miei studi mi porteranno a non avere niente ancora per molto tempo. Questi regali mi fanno rabbia. I parenti che domani mi staranno intorno sono persone più grandi di me, più ignoranti di me. In modo arrogante mi sono sentito superiore a loro per capacità e competenze da quando ero al liceo e intanto loro mi davano da mangiare. Scarto i regali. Una penna, dei romanzi, una cravatta… Preso da un’urgenza improvvisa accendo il computer, cerco il prezzo di ognuno di quei doni. Cosa sono io? Un crogiolo di debiti? Nel giorno del mio trionfo, quando avrei voluto tornare a casa a testa alta, quanto ho accumulato? La frustrazione mi punge gli occhi. Vorrei mandarle un messaggio, dirle che mi manca il suo sorriso, il suo appoggio: lei potrebbe capirmi. E dopo avermi capito? Lei è delusa, resterebbe delusa.
Trascrivo i prezzi, faccio i conti. Poi sento bussare alla porta, è mio padre. Gli dico di entrare e lui si siede alla scrivania con me e si liscia i capelli arruffati dal sonno. Si scusa per essersi addormentato. Avrebbe voluto venire alla consegna dei diplomi, mi chiede com’è andata, se sono contento. Mi chiede se sono contento. Gli racconto tutto, più di quello che avrei voluto, le parole mi escono da sole e anche se sento che dovrei trattenermi non riesco a farlo. Lui mi ascolta, e io spero che non veda cosa sto facendo, anche se il monitor e la lista di prezzi sul foglio bianco non lasciano molti dubbi.
Quando le mie parole finiscono, lui sorride e tira fuori un diario, un libro bianco rilegato in cuoio.
“Quando l’avrai riempito, me lo farai leggere.”
“Non occorreva… Deve essere costato molto.”
Mio padre alza le spalle.
“Sai” mi dice “Sono in debito con te. Io e la mamma non ti conoscevamo prima che tu venissi al mondo, ti abbiamo fatto perché lo volevamo noi. Tu non ci hai chiesto niente. Adesso che sei grande hai un sacco di problemi che io non posso più gestire. Sono in debito con te, e non è un debito che ho speranze di pareggiare.” Si alza e trascina le pantofole fino alla porta “Lo so che fa paura, ma stai tranquillo. Non hai sbagliato niente.”
Non riesco a ringraziarlo, non riesco a dire niente. Sento che ha ragione, so che lo pensa davvero. Non sono meno frustrato di prima, solo che ora mi sento anche in colpa, e mi viene da ridere. Apro il libro bianco, impugno la nuova preziosissima penna e scrivo:
“Io sono:”
E niente altro. Scopro di essere adulto dalla coniugazione del verbo. Un tempo avrei scritto: “Io sarò”. Litigavo ogni giorno con i grandi che cercavano di indurmi a mettere dopo i due punti quello che volevano loro. Ingegnere, medico, avvocato. La mia ingenuità contro la loro. Lottavo come un leone per ottenere la libertà di scrivere di mio pugno quello che desideravo, mi sembrava una domanda a cui io solo potevo rispondere. Fino a oggi, in cui mi rendo conto di aver conquistato quella libertà. Mi hanno regalato dei fogli bianchi e una penna, e domani i parenti si riuniranno per sapere che cosa ne ho fatto di quel grande potere, che cosa ho scritto dopo i due punti. Non ho niente da dire a quelle persone. La mia ricerca in quella città lontana, i miei anni di studio passati al sicuro in un istituto d’eccellenza non mi hanno aiutato a trovare una risposta. Sono pronto, mi hanno rivelato mentre mi donavano un foglio di carta pergamena. Sono pronto, ma non so per cosa; e mio padre ha ragione: ho paura.
“Io sono:”
Ho bisogno di muovere un passo in qualche direzione, ho bisogno di prendere decisioni e di provocare reazioni. Non voglio una soluzione di ripiego da mio zio. Vorrei essere io a trovare una strada, a dimostrare che posso gestire il potere che mi è stato dato per riempire lo spazio al di là dei due punti, anche se l’idea mi terrorizza. Devo cavalcare l’onda di coraggio che poche parole e un dono sincero mi hanno mandato. Ho passato troppo tempo a vestire la paura con raffinate giustificazioni piene di cultura, e mi sono ingannato troppe volte pensando che la mia abilità di evitare risposte dirette a domande dirette fosse un sintomo d’arguzia.
Prendo il telefono e scrivo un nuovo messaggio.
“Noi siamo: un magnifico inizio. Noi siamo: un’occasione da non perdere. Noi siamo: pronti a smetterla, coi messaggi. Noi siamo: sulla stessa altalena.”
Ho ancora paura, più di prima, ma sono contento.
Mi metto seduto sul letto col telefono tra le mani, e aspetto.
Certo no è stato il ritorno trionfale immaginato, ma è stato senza dubbio un rientro proficuo.Il racconto riesce a rappresentare efficacemente un mondo che ingloba sempre più abitanti impegnati nella ricerca di un’affermazione e di un’ autonomia personale che è sempre più complicato raggiungere. Certo la figura paterna rivela possedere una capacità di comprensione psicologica che dovrebbe essere ssunta ad esempio da parte di tanti genitori. Fortunatamente queste figure esistono e non cadono nelle trappole di chi vorrebbe che i figli venissero trattati come bamboccioni indolenti ed incapaci di prendere in mano la loro vita. Come dicono alcuni psicologi: ” Per poter funzionare debbo essere messo nelle condizioni di funzionare”. Racconto sottile ed istruttivo
Il protagonista meriterebbe un ritorno all’altezza delle aspettative. Se non trionfale, almeno più soddisfacente.
E invece non riesce a provare orgoglio per quello che ha conseguito, perchè la mancanza di prospettive rende il futuro molto più incerto di quanto avesse sperato.
E poi c’è un’altra incognita…lei.
E’ un bel racconto, molto attuale, che fotografa una realtà di precarietà e disagio che accomuna almeno un’intera generazione.
Ma il racconto non è un grido di sconfitta, perchè il finale rappresenta una presa di coscienza, la consapevoezza di voler lottare per trovare la propria strada e per costruire un futuro con la donna desiderata.
Insieme sono riusciti a “trasformare un divano in un’altalena”. Meglio non scendere da quell’altalena. Perchè di quel “magnifico inizio” insieme, non rimanga soltanto il rimpianto.
Bello anche il rapporto di complicità tra il protagonista e suo padre, che sa svolgere il proprio ruolo, dimostrando vicinanza e comprensione verso il figlio.
E con quelle parole dimostra di saper toccare le corde giuste.
Nikki Simonetti
Gioacchino De Padova