Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2011 “Vado via” di Enrico Valdes

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

 30 giugno 1931.

Ho tredici anni, da pochi giorni ho superato l’esame di terza media e tutta l’estate è davanti a me.
Oggi accompagno mio padre al lavoro e, poco dopo le otto, usciamo insieme da casa per aprire il negozio di ferramenta in Via Sassari. I dipendenti ci aspettano e al nostro arrivo scherzano e ridono, facendo anche a me direttamente qualche domanda: ‘’Hai finito la scuola? Bravo! allora presto verrai a lavorare con noi al negozio?’’
Io sono molto orgoglioso di mio padre, mi sembra che tutti lo ammirino e lo rispettino e mi piace tutto ciò che lo circonda.
Sono però anche  timido e spesso non capisco le burle dei dipendenti, ma per fortuna il tempo per scherzare è poco perché  ognuno deve subito dedicarsi alle proprie faccende. Nel negozio lavorano otto persone, tutti uomini maturi, tra i quaranta ed i cinquanta anni. Solo due sono più giovani: un ragazzo diciottenne, Gigi, appena assunto e Tore di venticinque anni . Lui, tra tutti, è il più simpatico e gentile. La sua carnagione è scura, come i capelli lucidi ed ondulati. Tore ha un sorriso bellissimo. I colleghi lo canzonano e lo chiamano maurreddu,  marocchino, ma lui non si lascia mettere facilmente a disagio e risponde sempre con battute spiritose che fanno ridere tutti. Io vorrei essergli amico, mio padre invece non vuole che a nessuno dei suoi dipendenti venga data troppa confidenza.
Mio babbo ha quarantaquattro anni, e da qualche tempo  inizia ad essere  per me un mistero: da  affettuoso e dolce qual ‘era, è diventato ultimamente più chiuso, mi fa solo qualche carezza e mai in pubblico. Proibito abbracciarlo, come invece fanno i miei fratelli più piccoli. Non riesco a capire il perché di questo cambiamento, e  mia mamma è timida e non può aiutarmi: anche lei è come frenata dal comportamento di mio padre ed io  non riesco a spiegarle niente di quel che provo. Desidero solo che mi rassicuri stringendomi e mi consoli con dolci parole. Spesso mi guarda teneramente, mi chiede se sto bene, se ho mangiato, se mi serve qualcosa, ma tra noi è come se ci fosse un velo di imbarazzo.  Io non mi sento diverso dal bambino che ero e crescere con  questa pena mi è gravoso, tanto che dentro casa inizio a sentirmi un po’ estraneo. Per fortuna ci sono i compagni di scuola e  gli amici a tenermi compagnia, ed anche l’inaspettata scoperta che ho fatto a scuola.
È stato quando  il professore di italiano mi ha chiamato alla cattedra per chiedermi: ‘’Che libri hai letto?’’ Meravigliato gli ho risposto indicandogli la cartella: ‘’I libri di scuola.’’Il professore ha fatto una bella risata, ma subito dopo ha aggiunto severo: ‘’Leggi questo e tra un mese portami il riassunto.’’ Un macigno sarebbe stato più leggero!  In casa nostra di libri non si parlava, erano un oggetto stravagante, riservato a studiosi e a scienziati ed io non capivo perché quel professore così buono e gentile mi voleva sottoporre ad una tale pena. Ma, come mosso da una forza a me estranea, ho teso la mano verso la vecchia rilegatura che mi porgeva: ‘’I viaggi di Gulliver’’ era il titolo del libro e il suo autore un inglese, Jonathan Swift. Non ho mai dimenticato quel dono! Da quel giorno, ogni sera dopo cena, mi rifugiavo nel mondo fantastico dei libri, ma non potevo andare  oltre le nove perché a quell’ora, puntuale ed inesorabile, mio padre staccava l’interruttore della corrente elettrica, ripetendomi con aria di rimprovero sempre  la stessa frase: ‘’Ma cosa ci troverai in quei libri…, è la vita che conta.’’
In questa estate della terza media però qualcosa sta lentamente cambiando fra me e mio babbo. A mezzogiorno lo raggiungo al lavoro ed insieme andiamo al porto per tuffarci in acqua. Qualche volta ci fermiamo  allo stabilimento del molo di levante, riservato esclusivamente al sesso maschile.  È il posto che io preferisco e dove, in un brulichio di corpi abbronzati,  trovo molti dei miei amici. Il rumore  in quel luogo è speciale. E’ un miscuglio  di voci, parole e urla che si mischiano al vento di scirocco o di maestrale, ed il tempo trascorre in un attimo. Mio padre, spesso si fa accompagnare da un marinaio di origini carlofortine, Bustianu, con la barca al largo, lontano dalla calca, e si tuffa  in mare dove rimane per una mezz’ora scendendo verso il  fondo e risalendo alla superficie dell’ acqua dritto come un chiodo. Pare  che questo  sia un esercizio molto utile. Lui è l’unico a praticarlo e tutti lo conoscono per questa stranezza. Io, mentre babbo  fa su e giù,  mi tuffo dalla barca  a testa in basso o a coffa.
Il mare è davvero una buona medicina per noi due e sento che la mia tristezza va pian piano dileguandosi. Lui racconta a mamma e ai miei fratelli le mie prodezze in acqua, tutti ridono e io mi sento come chi è rientrato in famiglia dopo una lunga assenza. Ma non sono più un bambino, ora sono un ragazzo. Venerdì  mia mamma mi ha mandato in negozio, per portare con urgenza a mio padre una lettera arrivata a casa. Eravamo soli e lui mi ha trattenuto nel suo ufficio. Credevo  volesse dirmi qualcosa di speciale, ma invece voleva mostrarmi qualcosa di segreto e a cui teneva in particolare. Mi ha fatto sedere vicino a  lui  e ha cominciato a riordinare gli incassi della giornata: molte monete, ma anche molti biglietti da 10, 25, 100 ed anche 1000 lire. Non ne avevo mai visti così tanti e tutti insieme. Lui li ha messi uno sull’altro suddivisi per taglio, lisciandone ogni piega ed ogni grinza, con devozione. Poi li ha contati, annotando in un registro i totali. Gli occhi gli brillavano di soddisfazione.
‘’Aspetta, guarda…’’ mi ha detto poi con entusiasmo e, facendomi tenere in mano le banconote, si è voltato verso una pesante cassaforte in ferro verniciato, di color verde petrolio. Ho letto la  marca impressa sullo sportello: Verstaen Paris, ‘’E’ francese – ho pensato – proprio la lingua che ho studiato a scuola, e sta per succedere qualcosa di molto interessante.’’ Mi sentivo orgoglioso per essere stato trattenuto là a condividere con mio babbo quel segreto che tra poco, immaginavo, mi sarebbe stato rivelato.
Lui infatti ha fatto ruotare due manopole inserite frontalmente sulla cassaforte straniera. Cr…cr…cr…, questo il suono prodotto dagli scatti del meccanismo arcano, poi ha impugnato una chiave, l’ha inserita nella serratura tra le manopole e, clac, clac, la porta del forziere si è spalancata davanti a me.
Non potevo credere ai miei occhi! Vedevo pile e pile di danaro. Lui si è guardato intorno e poi, piegandosi su di me,  ha detto: ‘’Cosa ne  dici? Questo è l’incasso di un mese. Domani lo depositerò in banca.’’ Non riuscivo a capire e gli ho domandato smarrito: ‘’Babbo, ma sono tutti tuoi? Quanti soldi sono?’’
Egli si è raddrizzato ed ha cominciato a parlarmi di investimenti, di spese, di quanto dovesse pagare ogni dipendente e così via.
Poi si è interrotto, ha cambiato tono e così mi ha parlato: ‘’Tu sei il mio primo figlio maschio. Quello che ti ho voluto mostrare questa sera rappresenta il futuro della  nostra famiglia, Con il lavoro potremo avere sempre il danaro ed  il rispetto di tutti. Dovrai studiare per diplomarti ragioniere e non sbagliare  i conti.
Ricordati: devi essere orgoglioso della tua famiglia e devi onorarla, prima con lo studio e con il comportamento e poi con il lavoro. Questo da te mi aspetto.”
E mi ha  abbracciato davanti a quella montagna di soldi ordinati dentro quella cassaforte francese.
Ero frastornato. Non so se mi sentivo felice per l’abbraccio a lungo desiderato e  la fiducia che mi veniva data, o spaventato per la responsabilità che mio babbo, in quel momento, mi stava attribuendo.
Tutti quei biglietti, tutte quelle lire accumulate là davanti mi inorgoglivano, ma nel contempo ero sconcertato  all’idea che dalla ricchezza derivasse rispetto. Era invece proprio questo il messaggio prepotente che lui voleva trasmettermi perché rimanesse indelebile nella mia memoria.

Quei giorni felici passarono però veloci. In un attimo la mia vita cambiò.
Una sera di fine settembre, infatti, passai a trovare mio padre, per rientrare insieme a casa per la cena, ma lui aveva deciso diversamente: doveva andare  nella drogheria vicina a chiacchierare con i suoi amici.   ‘’E’ rimasto solo Tore in negozio, – mi disse – tra mezz’ora potrà chiudere le saracinesche  e consegnarti le chiavi. Portale a casa e avverti mamma che arriverò puntuale.‘’  Ero fiero di aver ricevuto un incarico così importante e felice di poter parlare in tranquillità con il giovane e simpatico impiegato. Fu così che Tore, allontanatosi mio padre, dopo aver chiuso a chiave la porta, con molto garbo mi invitò a fare insieme a lui un giro di controllo nei locali.
Aveva però una voce diversa dalla solita, più profonda e gli occhi gli brillavano molto più del solito.  Mi volle mostrare un nuovo catalogo di una ditta lombarda che produceva cacciaviti, chiavi inglesi e strumenti simili, sapeva quanto questi oggetti attirassero la mia attenzione, l’attenzione di un ragazzino.
Si sedette davanti ad un bancone e volle che mi avvicinassi a lui per esaminare meglio tutte le fotografie degli utensili  nel grosso catalogo. Si fece più vicino. Io non mi spostai, mi era simpatico. Poi improvvisamente, veloce e rapido,  mi afferrò ai fianchi e, abbassandomi in un lampo i calzoncini corti e gli slip, mi fece sedere sulle sue cosce nude.
Mi mancò il  fiato. Ero incapace di muovermi. Sentii solo il suo sesso caldo e viscido premere contro di me. Lui ansimava. Aveva il volto congestionato e mi teneva stretto. Mi immobilizzava con le braccia.  Tentai di urlare, ma riuscii ad emettere solamente un sibilo. Lui pronunciava parole incomprensibili. Mi sentii perso.
Con i compagni e gli amici parlavamo di sesso ma in tono scherzoso, e solo di sesso tra maschi e femmine. Non sapevamo nulla sull’omosessualità, né tanto meno conoscevamo il nome pedofilia. Avevo ascoltato qualche pettegolezzo su quello e su quell’altro, e sapevo che alcuni venivano dileggiati per il loro atteggiamento da femmineddas.
Quel giorno, e lo capii bene dopo, io ero capitato tra le mani di un mostro, di un orco, e nessuno mi poteva salvare. Desideravo con tutto me stesso che mio babbo entrasse in quel momento e lo  tempestasse  di colpi, lo schiacciasse coi piedi, e mi prendesse  poi tra le sue braccia forti e protettive. Ad un tratto sentimmo bussare insistentemente alla porta sulla strada, ma  non era mio babbo, si trattava di un cliente ritardatario che chiedeva di entrare. Tanto bastò perché la morsa si allentasse. Mi divincolai da Tore. Sollevai i pantaloncini. Scappai via.
Avevo nausea e corsi d’un fiato a casa. Entrai nel bagno e  vomitai nel gabinetto. Poi mi lavai, piansi e continuai a piangere anche quando mia madre venne a vedere cosa fosse successo. Avevo troppa vergogna per dirle la verità,  non potevo parlare con lei di una cosa simile. ‘’Ho rimesso il pranzo, qualcosa mi è rimasta sullo stomaco, vado a letto, accompagnami. ‘’ Lei mi accompagnò a letto con sollecitudine e tenerezza, ma io mi sentivo sporcato da quell’atto malvagio, e giurai a me stesso che non avrei detto nulla a nessuno. Quello che prima volevo gridare al cielo ora lo volevo seppellire nella mia mente, nessuno doveva sapere.
La notte feci un sogno terribile. Mi vidi  andar via dalla mia casa e  tutti lungo la strada sapevano della mia vergogna e mi segnavano a dito. Io cercavo di spiegare, ma loro ridevano e mi sbertucciavano, ripetendo in coro: femminedda, femminedda, mentre mio padre mi osservava e diceva severo: ‘’Onora, onora la famiglia…’’
Quando mi svegliai avevo preso definitivamente la mia decisione, dovevo proteggere l’onore mio e della mia famiglia col silenzio. Avrei taciuto, ma non sarei più passato in negozio, avrei trovato delle buone scuse: lo studio, la scuola. Mai più avrei potuto rivedere Tore, mai più avrei sopportato la sua vista.
Passarono dei giorni e una mattina cominciai a sentire tra le cosce, là in alto,  bruciore e prurito. In quel punto prese  a formarsi un liquido giallastro che mi pulivo di continuo con il fazzoletto. Ero un ragazzino solo, solo con qualcosa che immaginavo fosse una malattia collegata alla mostruosità che avevo vissuto,  solo a portare una ferita inguaribile nell’anima.
Ma volevo dimenticare e basta. Nessuno,  mi ripetevo, doveva sapere quanto mi era accaduto.
Ma non andò come credevo. Mia madre si accorse delle macchie che rimanevano sulle mie mutande  e, preoccupata, mi domandò spiegazioni.  ‘’Sì mamma  – le confessai – da una settimana ho prurito tra le cosce e mi scende un po’ di liquido giallo, ma non sarà niente.’’
Fui accompagnato il giorno stesso da tutti e due i miei genitori da un bravo medico, specialista, così era scritto sulla targa, in malattie della pelle e malattie veneree. Capivo il significato di malattie della pelle, ma di malattie  veneree no.
Entrai nel suo studio, impregnato di odore di disinfettante, accompagnato solo da mio padre, dovevo restare nudo. Mi batteva il cuore per il terrore che si potesse scoprire il mio segreto, e mi convincevo  che era impossibile trovare un legame tra la mia malattia e quel fatto disonorevole.
Il medico con una spatola raccolse una goccia della mia secrezione giallastra e la strisciò su un vetrino, ci mise sopra un colorante liquido ed infine si sistemò davanti ad un microscopio. Era la prima volta che vedevo davanti a me  uno strumento simile, ma in quel momento non ero curioso. Speravo solo che lui dicesse con un sorriso rassicurante: ‘’Niente di speciale, usate questa pomata due volte al giorno e tutto passerà in un attimo.’’
Illusione. Il suo sguardo si fece serio, cupo e disse ai miei genitori riuniti: ‘’Non ho dubbi, è gonorrea.’’ Mai parola sconosciuta mi sembrò più terribile, avrei preferito che mi dicesse che sarei morto entro ventiquattro ore.
‘’Ma come! – Esclamarono i miei genitori insieme – Come può essere possibile? Un ragazzino.’’
‘’Lasciate fare a me ’’ disse il dottore e mi portò con sé in un’altra stanza. Mi sentivo condotto al patibolo, ma il peggio doveva ancora venire. Lui con calma mi fece qualche domanda, ma non dovette insistere molto per avere la spiegazione dei fatti. I miei propositi di silenzio eterno svanirono in un attimo e mi ritrovai pronto a dire tutta la verità nei minimi particolari. In quel momento, dopo aver rivelato la mia atroce esperienza, mi sentii sollevato dal peso enorme che sentivo uguale a quello di una intera montagna tutta sulle mie spalle.
‘’Spiegherò tutto io a babbo e mamma, stai tranquillo e ti prescriverò la cura necessaria che ti guarirà. Adesso aspettami, parlo con loro.’’Fu così che il medico parlò con i miei genitori  ma, quando uscimmo dall’ambulatorio mio padre non mi rivolse neanche una parola né mi guardò  in viso. Camminava davanti a passo svelto e con uno sguardo corrucciato, mentre io e mamma lo seguivamo a distanza, in silenzio. ‘’Adesso – pensai ingenuamente – lui andrà in negozio e licenzierà immediatamente Tore, poi verrà da me per consolarmi e chiedermi scusa per avermi lasciato solo con lui.’’
Così non avvenne. Da quella sera, per sua disposizione , dovetti cenare da solo in cucina con la domestica  per due mesi. Per due mesi Tore rimase al suo posto e solo dopo fu allontanato dal negozio con una scusa. Non capivo. Non capivo i discorsi 
fatti sottovoce dai miei genitori. Da alcune loro allusioni, si intuiva che era in ballo l’onore della nostra famiglia … ma chi l’ aveva messo a repentaglio ? Io, proprio io! Ero sbalordito, incredulo. Ero davanti all’ingiustizia più grande che mi potesse capitare e chi ne era l’ artefice? Mio babbo.
Si dice che per crescere bisogna riuscire a sopportare l’ingiustizia, forse è vero, ma questa è un’ ingiustizia che ancora brucia e non si può dimenticare.
Fui condannato, ragazzino inerme, senza appello. Incolpevole, senza possibilità di difendermi e senza  possibilità di parlare, e il giudice, sordo e cieco,  era proprio colui che doveva essere il mio primo difensore. Mio babbo.
Il carnefice invece non pagò nulla per la sua colpa e venne amnistiato.
Da quel giorno si ruppe e per sempre il rapporto tra me e mio padre. Non ci fu più l’occasione di una spiegazione, non ci fu più nessuna confidenza tra noi.
Da quel giorno capii chiaramente una sola cosa: da lui e dalla mia famiglia volevo andar via.

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